Henri Bergson

Le biografie dei giocatori - quarantaseiesima biografia

Capitolo 129

La partita di calcio mondiale fra i filosofi

Claudio Simeoni

 

Le biografie dei filosofi che partecipano alla partita di calcio

 

La biografia di Henri Bergson

 

Per capire i fondamenti del pensiero di Bergson non dobbiamo leggere i grandi avvenimenti della storia durante la sua vita. Bergson era ideologicamente separato dagli avvenimenti sociali della sua epoca. Per capire Bergson dobbiamo analizzare il suo ambiente familiare che ha forgiato la sua personalità.

Bergson soggettiva, facendola propria, l'ideologia ebraica e la proietta sull'idealismo cattolico in una ricerca morbosa di esoterismo proprio delle ideologie romantiche a fondamento del nazismo.

Henrì Bergson è nato a Parigi il 18 ottobre 1859. Il padre di Henrì era un ebreo di origine polacca di professione pianista. Temerl Bergson, nonna di Henrì, era figlia di Avraham of Opoczno. Sposò in seconde nozze Berek Bergson figlio di Shmuel Zbitkower che accumulò una fortuna, vendendo armi durante la spartizione della Polonia, a polacchi e russi. Berek Bergson aveva fatto una fortuna con i suoi contatti governativi ed era conosciuto come il "Rothschild polacco dell'ebraismo".

Temerl Bergson era la principale finanziatrice del movimento ebreo chassidico in Polonia. Chi erano i cassidici? Fu un movimento integralista ebraico che si sviluppò nei paesi slavi fra gli ebrei analfabeti e poveri. E' un movimento impegnato fortemente di esoterismo della kabala. Un movimento impegnato nella manipolazione della struttura emotiva delle persone al fine di imporre nella vita quotidiana un sentimento di sottomissione che legava le persone a Dio. Il movimento ebbe un buon successo e si diffuse fra gli ebrei dell'est europeo, in Israele, Canada e Stati Uniti. Dopo la morte del marito, Temerl assunse il controllo dei suoi traffici e fondò una banca. Era una delle poche banche che poteva fare affari nel settore immobiliare.

La madre di Henrì era figlia di un medico inglese sempre di origine ebraica. La famiglia, dopo la nascita di Henrì, visse per nove anni a Londra prima di trasferirsi in Francia dove Henrì fu naturalizzato francese.

La sorella di Henrì Bergson sposò Samuel Liddell MacGregor Mathers fondatore della società esoterica Golden Dawn.

Questo è il clima familiare che ha avvolto Henrì Bergson fin dal primo giorno della sua nascita. Un uomo ricco, annoiato dalla ricchezza che cerca eccitazione nella carriera accademica assolutamente separato dalle persone e dai loro problemi, coinvolto in quell'assolutismo delirante che oscilla fra fondamentalismo ebraico e cattolico. Bergson era consapevole che l'evoluzionismo era ideologicamente e moralmente superiore al creazionismo ebraico e cristiano. Per difendere la "coscienza creatrice di Dio" fece proprio l'assolutismo sociale alla Spencer che finirà per alimentare il delirio della "razza ariana" come dominatrice della società. Quando la "razza ariana" pretenderà di dominare sull'ebreo Bergson, Bergson si fa vittima. In fondo, lui doveva essere la razza dominatrice, non gli altri.

Di Bergson parleremo della sua carriera scolastica e dei plausi di un mondo che si avvia verso la prima e la seconda guerra mondiale. Un mondo in cui i positivisti con Ludwig Buchner e il suo "Forza e materia" stanno demolendo i fondamenti ideologici del cristianesimo. Forza e Materia, pubblicato nel 1855 ebbe molte riedizioni ed era un testo famoso all'epoca. Per quel testo Ludwig Buchner fu licenziato e allontanato dall'insegnamento.

E' il tempo in cui la reazione cristiana (ed ebraica) anziché confrontarsi filosoficamente e teologicamente inventa l'esoterismo, lo spiritismo e la miracolistica con cui dimostrare l'esistenza del suo Dio ormai ridotto a rottame della cultura.

E' in questo contesto che si inserisce la filosofia di Bergson. L'ebraismo cattolico che riafferma sé stesso in nome della verità biblica.

Bergson viene sottoposto ad una rigida educazione ebraica che ne condizionerà il pensiero per tutta la vita.

Nel 1877 Bergson vince un premio al liceo per aver risolto un problema matematico.

Nel 1878 Henrì Bergson si iscrive all'école Normale Supérieure. All'Università di Parigi diventa "agrégation de philosophie" nel 1881.

Sempre nel 1881 riceve un incarico al liceo di Angers. Poi passa al liceo Blaise-Pascal di Clermont-Ferrand.

Inizia a scrivere e dopo una meditazione su Lucrezio, scrive "Tempo e libero arbitrio".

Nel 1886 pubblicò "Materia e memoria"

Nel 1888 Bergson si stabilisce a Parigi dove insegna per otto anni al liceo Henri-Quatre. Mentre insegna al liceao Henri-Quatre legge Darwin e si innamora dell'idea delle variazioni graduali nell'esistenza sostituendola, nel suo modo di pensare, alla teoria lamarkiana a cui precedentemente aveva rivolto le sue simpatie.

Nel 1889 Bergson pubblica "Saggio sui dati immediati della coscienza".

Su questo scrive Storia delle filosofie:

Il tempo dunque non è un «fatto» ma un «atto» della vita spirituale del soggetto; la successione è frutto dell'«unificazione» degli eventi operata dal soggetto pensante; unificazione per la quale ogni evento ha un senso in relazione (ma la relazione, appunto, è posta dalla coscienza) a quelli precedenti e a quelli susseguenti; e quindi ogni evento conserva una sua propria specificità qualitativa che lo distingue dagli altri.
Allora, detto in una parola, il tempo è «durata».
[segue citazione da Bergson]
La durata assolutamente pura è la forma che prende la successione dei nostri stati di coscienza quando il nostro io si lascia vivere, si astiene da stabilire una separazione tra lo stato presente e quelli anteriori. Non vi è bisogno, per far ciò, di assorbirsi interamente nella sensazione o nell'idea che passa! ché allora, al contrario, si cesserebbe di durare. Non occorre nemmeno obliare gli stati anteriori, basta che, ricordandosi di essi, non li si giustapponga allo stato attuale, come un punto ad un altro punto, ma li si organizzi con quest'ultimo; come succede quando ci ricordiamo, fuse, per così dire, insieme, le note di una melodia. Non si potrebbe dire che, se tali note si succedono, noi le avvertiamo, non di meno, le une nelle altre, e che il loro assieme è paragonabile ad un essere vivente, le cui parti anche se distinte, si compenetrano per effetto stesso della loro solidarietà? La prova è che, se rompiamo la misura insistendo più di quanto è necessario su una nota della melodia, non è la sua lunghezza esagerata, in quanto lunghezza, che ci avvertirà del nostro errore, ma il cangiamento qualitativo, apportato da ciò all'insieme della frase musicale. Si può dunque concepire la successione senza la distinzione, e come una compenetrazione mutua, una solidarietà, una organizzazione intima di elementi, di cui ciascuno, rappresentativo del tutto, non se ne distingue, e non se ne isola, che per un pensiero capace di astrarre. Tale è senza alcun dubbio la rappresentazione che si farebbe della durata un essere, che, allo stesso tempo identico e cangiante, non avesse alcuna idea dello spazio. Ma familiarizzati con quest'ultima idea, ossessionati addirittura da essa, la introduciamo a nostra insaputa nella nostra rappresentazione della successione pura; e giustapponiamo i nostri stati di coscienza in modo da avvertirli simultaneamente, non più l'uno nell'altro, ma l'uno a fianco all'altro. In breve: noi proiettiamo il tempo nello spazio, esprimiamo la durata in estensione, e la successione prende per noi la forma di una linea continua, di una catena, le cui parti si toccano senza compenetrarsi.
(Bergson Saggio sui dati immediati della coscienza)
Ma perché siamo portati a concepire il tempo in termini spaziali? Perché, dice Bergson, tale operazione risulta comoda nella vita pratica. Le esigenze pratiche ci spingono al frazionamento, alla «parcellizzazione della nostra vita spirituale. La nostra coscienza solidifica l'esperienza, che è un flusso continuo, in una molteplicità di «cose» spaziali e di «istanti» spazializzati; solidifica «gruppi di immagini» e «gruppi di istanti», ponendoli come esistenti in modo «separato». E non potrebbe non farlo, perché l'anima non vive separata dal corpo, indifferente alle esigenze della condizione corporea, e in generale mondana, di tutta la persona. Anzi cl è un'unità reale tra corpo e spirito; unità provata non foss'altro che dal fatto che la vita dello spirito non avrebbe luogo, ad esempio, senza il sistema nervoso.

Casertano, Montano Tortora, Storia delle filosofie, Volume Terzo, Il Tripode, 1982, p. 351 – 352 volume terzo

Bergson non immagina l'unità corpo e anima, ma immagina un corpo al servizio di un'anima, di uno spirito, di una coscienza che di fatto domina il corpo e alle quali il corpo dona la sua capacità d'azione.

Bergson divide il corpo, dall'"anima" intesa come spirito e coscienza. Li divide in quanto l'"anima", come spirito e coscienza, precederebbe l'esistenza del corpo. L'arrivo dell'anima (o della coscienza), anima il corpo che senza l'arrivo dell'"anima" non avrebbe possibilità d'azione in quanto non sarebbe un corpo, ma un cadavere.

Che il tempo sia "durata" appare un'ovvietà. Ma il tempo si manifesta come mutamento del soggetto che agisce e il mutamento del soggetto che agisce (che chiamiamo effetto del tempo) risulta dalle trasformazioni del corpo del soggetto alle cui mutazioni si adatta la sua coscienza che diviene col divenire del corpo. Si trasforma con le trasformazioni del corpo essendo, la coscienza e quanto Bergson intende come anima, meri strumenti d'esistenza del corpo vivente. Sono le trasformazioni dei corpi effetto che determina il tempo come misura di un prima e un dopo. Il tempo non è altro che i corpi che si trasformano, come ha intuito Darwin, fin dal primo essere consapevole di sé nel brodo primordiale. Non è il corpo manifestazione della coscienza, ma è la coscienza, con quanto Bergson attribuisce all'anima, che sono le manifestazioni del corpo.

Un corpo vivente non può non avere un'idea di spazio perché la prima cosa che fa un essere vivente è separare sé stesso dal mondo in cui è diventato consapevole e cosciente. Affermare che un corpo può non avere coscienza dello spazio significa affermare che un corpo non ha coscienza in quanto è un cadavere. La coscienza di sé, come corpo desiderante separato dal mondo in cui si è contenuti, al di là di come è espressa, è quanto indica che quel corpo è un corpo vivente.

Il corpo è materia in trasformazione e lo pensiamo vivente perché osserviamo il suo agire mentre discrimina fra gli oggetti del mondo. La metafisica di Bergson vuole dirci perché quel corpo è vivente ed attribuire l'azione di quel corpo ad oggetti esterni ed estranei al corpo a cui attribuire l'azione di quel corpo. Ma questa è pura illazione, esattamente come la creazione dal nulla o il concetto di anima che Bergson tenta di riaffermare.

Il tempo è mutamento e la realtà del tempo sta fra una mutazione, che la coscienza razionale riconosce come presente e il successivo momento in cui la coscienza razionale riconosce come un presente successivo. Nel mezzo, fra i due presenti, è il regno del tempo in cui la coscienza razionale è sospesa perché la coscienza razionale non abita il mutamento ma solo il presente mutato. Mentre la coscienza razionale è sospesa, il corpo abita fra il presente prima e il presente dopo. E' il corpo che vive il tempo. E' il corpo che riconoscendo sé stesso diverso dal mondo manifesta la propria coscienza.

Il tempo e lo spazio sono correlati in maniera indissolubile perché i corpi si muovono nello spazio e la trasformazione dei corpi riguarda i corpi e non lo spazio che si limita a contenere i corpi in perenne trasformazione.

Ogni trasformazione è determinata dalla necessità di esistenza, ma la necessità di esistenza è contenuta nello spazio, con infiniti corpi, le cui trasformazioni determinano le condizioni, per ogni singolo corpo, in cui trasformarsi.

Nel 1896 Bergson pubblica "Materia e memoria".

Su questo scrive Storia delle filosofie:

E ingenua la pretesa che la vita della coscienza si attui a prescindere dalla sua incarnazione nel corpo fisico. E infondata l'affermazione, tratta da una acritica assunzione dei «fatti», che il corpo non svolge alcun ruolo in ordine all' attività dello spirito.
[segue citazione da Bergson]
I fatti ci hanno fornito l'idea, confermata dal ragionamento, che il nostro corpo sia uno strumento d'azione, e d'azione soltanto. In nessun grado, in nessun senso, sotto nessun aspetto esso serve a preparare ed ancor meno a spiegare una rappresentazione, né vi contribuisce direttamente nella percezione o nella memoria, né a maggior ragione nelle operazioni superiori della mente. Sviluppando questa ipotesi sotto i suoi molteplici aspetti e spingendo così il dualismo all'estremo, si direbbe che noi scaviamo un abisso invalicabile fra corpo e mente.
(Bergson Materia e memoria)
I fatti d'ordine fisico non sono certo uguali a quelli d'ordine spirituale; ma basterebbe considerare l'esperienza del dolore fisico, in cui «la superficie del nostro corpo ci è data sotto forma di sensazione e, al tempo stesso, sotto forma di immagine», per ricavare la reciproca dipendenza e interazione.

Casertano, Montano Tortora, Storia delle filosofie, volume terzo, Il Tripode, 1982, p. 352 – 353

Il concetto sul corpo di Bergson non è differente dal concetto di Platone sul corpo. Il corpo, come un coagulo di materia volto a contenere l'anima. Solo che Bergson dimentica che il corpo è memoria. L'evoluzione dei corpi, come indicata da Darwin, è memoria di un corpo che modifica continuamente la sua forma per adattarsi alle condizioni che incontra mediante la sua volontà di adattamento soggettivo alle variabili oggettive incontrate. Tale modificazione è memoria di un corpo che trasmette quella memoria alle generazioni future.

La consapevolezza di sé, la coscienza, non ha memoria. Non ricorda ciò che era e non distingue ciò che era da ciò che è oggi. La mia coscienza, per quanto riguarda la mia coscienza, è sempre stata com'è ora e non ricorda com'era quando io ero bambino. Questo perché essendo la coscienza uno strumento del corpo, il corpo disintegra continuamente la propria coscienza e la riaggrega in maniera diversa fagocitando l'esperienza vissuta. La coscienza vive un continuo processo di disgregazione e riaggregazione a differenza del corpo che vive un processo di sedimentazione, crescita e deperimento e, in questo processo, è seguito dalla coscienza che si adatta a tutti gli stadi esistenziali del corpo per scomparire al momento della morte del corpo fisico.

Nel 1900 Bergson è professore al Collège de France.

Nel 1900 viene pubblicato un piccolo trattato di Bergson sulla risata. Egli affermava che il ridere è un meccanismo di adattamento sociale. Gli è sfuggito l'altro aspetto, il deridere, come atto sociale di violenza del più forte contro chi è socialmente più debole.

Nel 1901 Bergson diventa membro dell' Académie des sciences morales et politiques. Scrive "Introduzione alla metafisica" in cui anticipa il suo scritto sull'"Evoluzione creativa".

Nel 1907 viene pubblicato il libro "Evoluzione creativa" l'opera più famosa di Bergson. L'opera ebbe un grande successo in quanto proponeva un sistema evolutivo che tentava di essere concordante con le tesi bibliche.

Su questo scrive Storia delle filosofie:

Dunque non è giusto separare lo spirito dal corpo, e, in generale, da tutta la realtà dell'universo. Ché, anzi, uno stesso carattere fondamentale contrassegna tutto ciò che è reale: il permanente fluire.
[segue citazione da Bergson]
La realtà è mobilità. Non esistono cose fatte ma soltanto cose che si fanno, non stati che si mantengono ma stati che cambiano. Il riposo è sempre apparente, o piuttosto relativo. La coscienza che abbiamo della nostra propria persona, nel suo continuo fluire, c'introduce nell'interno di una realtà sul cui modello dobbiamo rappresentarci le altre. Ogni realtà, dunque, è tendenza, se conveniamo di chiamar tendenza un cambiamento di direzione allo stato nascente.
(Bergson L'evoluzione creatrice)
Ciò che produce la parcellizzazione, il consolidamento e l'immobilizzazione della nostra vita spirituale e, insieme, dell'immagine della realtà naturale, è l'intelletto, che segue e asseconda i bisogni del corso ordinario della nostra vita quotidiana.
[segue citazione da Bergson]
Il nostro spirito, che cerca dei punti d'appoggio solidi, ha per ufficio principale, nel corso ordinario della vita, di rappresentarsi degli stati e delle cose. Egli prende di tanto in tanto delle vedute quasi istantanee sulla mobilità indivisa del reale, e ottiene cosi delle sensazioni e delle idee. Con ciò egli sostituisce al continuo il discontinuo, alla mobilità la stabilità, alla tendenza in via di cambiamento i punti fissi che segnano una direzione del cambiamento e della tendenza. La nostra intelligenza, quando segue la sua china naturale, procede da una parte per percezioni solide e dall'altra per concezioni stabili. Essa parte dall'immobile e non concepisce e non esprime il movimento che in funzione dell'immobilità.
(Bergson L'evoluzione creatrice)
Ma una volta prodotta l'immobilizzazione del reale, l'intelletto non può «ricostruire» la mobilità. Per cogliere tale mobilità bisogna che il nostro spirito abbandoni la sua capacità «astrattiva» e s'impegni in quella «intuitiva».
Noi ci installiamo nell'immobile per spiare il mobile al passaggio, invece di rimetterei nel mobile per traversare con lui le posizioni immobili; noi pretendiamo ricostruire la realtà, ch'è mobilità, colle percezioni e i concetti che hanno la funzione di renderla immobile. Con delle fermate, per quanto numerose siano, non si farà mai della mobilità; mentre che, data la mobilità, si può, per via di diminuzione, trame col pensiero quante fermate si vuole. In altre parole si comprende che dei concetti fissi possano essere estratti per opera del nostro pensiero dalla realtà mobile: ma non c'è modo di ricostruire, colla fissità dei concetti, la mobilita del reale.
Ma la verità è che la nostra intelligenza può seguire il cammino inverso. Essa può installarsi nella realtà mobile, adottarne la direzione mutevole senza posa, e finalmente afferrarla per mezzo di quella simpatia intellettuale che si chiama intuizione. Ciò è d'un'estrema difficoltà. Bisogna che lo spirito si faccia violenza, che rovesci il senso dell'operazione colla quale pensa abitualmente, che rivolti o piuttosto rifondi senza posa tutte le sue categorie. Ma egli otterrà così dei concetti fluidi, capaci di seguire la realtà in tutte le sue sinuosità e di adottare il movimento stesso della vita interiore delle cose.
Con l'intuizione si può cogliere, dunque, al di là della «fissità delle forme fisiche, lo slancio vitale. Uno slancio che crea continuamente, anzi che muove la materia con una legge di evoluzione creatrice.

Casertano, Montano Tortora, Storia delle filosofie, volume terzo, Il Tripode, 1982, p. 352 – 353

Gli antichi lo chiamavano Eros, Desiderio, Intento, mentre Buchner la chiamava forza, ma nessuno voleva separare questa forza dalla materia in quanto questa forza, questo Eros, questo Intento, era una qualità intrinseca della materia. E' come se dicessimo di separare l'ossigeno dalla formula dell'acqua. Non sarebbe più acqua, ma solo idrogeno. E così è per la materia. Se vogliamo parlare di materia è necessario che nella parola materia comprendiamo tutte le caratteristiche della materia di cui parliamo. Possiamo dire che un'unità di materia si presenta come massa, come forma, come qualità psichica, come desiderio, come azione, ecc. Possiamo dire che noi siamo in grado di individuare quantità e qualità diverse delle rappresentazioni della materia e trattare quell'unità della materia per le sue singole caratteristiche a seconda dell'ambito in cui conchiudiamo il nostro discorso. Possiamo dire che l'unità di materia che chiamiamo Sole riscalda. Il Sole non è solo calore, solo che a noi, in questo momento, interessa questo aspetto e questo aspetto, in questo momento e nel discorso che facciamo, è tutto il Sole. Però è solo perché noi vogliamo trattare il Sole in maniera specifica per la nostra soggettività, ma dire che il caldo possiede il Sole e separare il caldo dal Sole significa negare a quell'unità di materia un aspetto della sua rappresentazione mettendolo fuori dall'unità di materia che col calore si presenta.

Le cose, i corpi, siano essi di materia o siano di energia (che dal punto di vista filosofico è la stessa cosa) si modificano e nel modificarsi si rappresentano. Ma tutto è circoscritto dal corpo che abita il mondo non da uno "spirito" o da una "coscienza" che abita un corpo.

Oggi possiamo dire che il tempo si origina nel Big Bang, si origina dalla materia che inizia ad espandersi nell'universo. Prima di allora, lo spazio era, ma il tempo non era. Solo la materia che occupa lo spazio, con le sue trasformazioni, dà vita al tempo. Il tempo è una condizione d'essere della materia che adatta continuamente sé stessa al mondo in cui quell'unità di materia vive.

La nostra coscienza è l'unica cosa priva di tempo, non diviene né si trasforma, ma viene continuamente distrutta e ricostruita ad ogni nuova esperienza. In ogni attimo della nostra esistenza.

Su questo scrive Storia delle filosofie:

Lo slancio vitale, inteso in tal modo, è spirito; pertanto l'essenza di tutte le cose è lo spirito. E la materia è da intendersi come ciò che opera, nell'unità di questa essenza, la divisione, la particolarizzazione, e la relativa e temporanea immobilizzazione della vita dello spirito nelle forme e negli stati contingenti del reale.
[segue citazione da Bergson]
E' necessario comparare la vita a uno slancio, perché nessun'altra immagine, tratta dal mondo fisico, vale a esprimerne con altrettanta approssimazione l'essenza. Ma è solo un'immagine: di fatto, la vita è una realtà di ordine psicologico, ed è proprio della psichicità il comprendere una pluralità confusa di termini insieme compenetrantisi.
Tale è la mia vita interiore, e tale è pure la vita in generale. Se, nel suo contatto con la materia, la vita è paragonabile a un impulso o a uno slancio, considerata in sé stessa, essa è un'immensità di virtualità, un compenetrarsi reciproco di migliaia di tendenze: le quali, tuttavia, saranno «migliaia» solo quando verranno rese esteriori le une alle altre, ossia spazializzate. Ciò che produce tale dissociazione è il contatto con la materia. La materia divide effettivamente ciò che era molteplice solo potenzialmente: e però l'individuazione è opera in parte della materia, in parte delle tendenze che la vita racchiudeva in sé. Allo stesso modo, di un sentimento poetico esprimentesi in strofe, in versi, in parole distinte, si può dire che esso conteneva in sé tale molteplicità di elementi particolari, e che, tuttavia, chi l'ha prodotta è stato la materialità del linguaggio. Ma attraverso le parole, i versi, le strofe, circola l'ispirazione indivisi bile che costituisce l'unità del poema.
All'origine della vita sta la coscienza, o, per meglio dire, la supercoscienza. Coscienza, o supercoscienza è il razzo i cui frammenti spenti ricadono in materia; coscienza è ciò che permane del razzo stesso, che attraversa i frammenti e li illumina in organismi. Ma tale coscienza, che è una esigenza di creazione, si rivela a sé medesima solo là dove la creazione è possibile. Si assopisce quando la vita è condannata all'automatismo: si risveglia appena rinasce la possibilità di una scelta.
(Bergson L'evoluzione creatrice)
La materia non è concepita dunque dualisticamente contrapposta allo spirito; essa è il «distendersi» dello «slancio vitale», di questa tensione interna alla realtà, per poter nuovamente «estendersi». Nel temporaneo «riposo» si genera l'universo delle forme finite; forme che si dispongono secondo un ordine matematico che rende possibile ed efficace il lavoro dell'intelletto nell'organizzazione scientifica della sua conoscenza.

Casertano, Montano Tortora, Storia delle filosofie, volume terzo, Il Tripode, 1982, p. 354 – 355

Bergson chiama Dio "supercoscienza" i cui frammenti ricadono nella materia rendendola viva. Sotto questo punto di vista ha ragione la chiesa cattolica nell'indicare nel panteismo l'idea bergsoniana di trasformazione del mondo.

Bergson riprende la teoria delle idee dei neoplatonici e la trasferisce con parole diverse in una presunta evoluzione che è evoluzione della coscienza e non evoluzione dei viventi della Natura. Bergson priva tutti i viventi della loro rappresentazione nel mondo in quanto facendoli diventare schiavi della coscienza o dell'anima. Bergson fa diventare gli Esseri Viventi schiavi della coscienza di Dio che gli abiterebbe possedendoli.

La materia è il male. La caduta dello spirito. Con queste idee Bergson si contrappone ai materialisti, in particolare a Buchner, e stupra il concetto di evoluzione darwiniana che consiste nella trasformazione dei corpi viventi che esprimono la loro coscienza nel mondo.

Come Platone priva i corpi dell'anima per poterli dominare, così Bergson priva i corpi della coscienza per renderli schiavi di un ideale morale della coscienza di Dio della quale si erge paladino.

Bergson cerca di coniugare il concetto ebraico del Dio padrone dell'uomo, con il concetto platonico del Dio che domina l'uomo mediante il controllo della sua anima e la teoria delle idee.

Bergson non concepisce la contrapposizione fra materia e spirito, non concepisce proprio un possibile ruolo della materia in relazione a quanto lui chiama spirito.

A proposito del concetto di intelligenza in Bergson; scrive Storia delle filosofie:

[segue citazione da Bergson]
Se potessimo spogliarci da ogni orgoglio e se, nel definire la nostra specie, ci attenessimo rigorosamente a ciò che la storia e la preistoria ci presentano come caratteristica costante dell'uomo e dell'intelligenza, noi forse non diremmo Homo sapiens, bensì Homo faber. In breve, l'intelligenza, considerata nelle sua funzione peculiare, è la facoltà di fabbricare oggetti artificiali, e propriamente strumenti atti a foggiare strumenti, e di variarne in modo indefinito la fabbricazione.
Ora, un animale intelligente possiede anch'esso strumenti o macchine? Si, certamente, ma in esso lo strumento fa parte del corpo che lo utilizza: e, correlativo a tale strumento, c'è un istinto che se ne sa servire.
La forza immanente alla vita può optare tra due maniere diverse di agire sulla materia bruta; può esercitare tale azione immediatamente, foggiandosi uno strumento organico da utilizzare, o fornirla mediatamente in un organismo che, invece di possedere per natura lo strumento richiesto, se lo fabbrichi da sé, plasmando la materia inorganica. Di qui l'istinto e l'intelligenza, che, sviluppandosi, divergono sempre più, ma non si separano mai completamente. Da un lato, infatti, l'istinto più perfetto dell'Insetto è accompagnato da un certo barlume d'intelligenza, se non altro nella scelta del luogo, del momento e dei materiali di costruzione: quando, per un caso straordinario, delle Api nidificano all'aria libera, esse inventano mezzi nuovi e veramente intelligenti per adattarsi a tale condizione nuova. Ma, d'altro lato, l'intelligenza ha ancora più bisogno dell'istinto che non l'istinto dell'intelligenza, perché la capacità di foggiare la materia bruta presuppone nell'animale un grado superiore di organizzazione, a cui esso si è potuto elevare solo sulle ali dell'istinto. Casi, mentre negli Artropodi la natura, nel suo processo evolutivo, si è orientata risolutamente verso l'istinto, in quasi tutti i Vertebrati assistiamo alla ricerca più che alla affermazione piena dell'intelligenza.
(Bergson L'evoluzione creatrice)
L'istinto dunque segue il flusso della vita, e ne è espressione immediata; l'intelligenza pone l'uomo come all'esterno di quel flusso, e, con la costruzione di concetti, schemi astratti delle cose, considera le cose stesse come indipendenti dal movimento vitale. E' con l'istinto, perciò, che l'uomo coglie la vita, non con l'intelligenza.
Tuttavia l'intelligenza è superiore all'istinto. Questo, che è comune anche all' animale, è «legato» al suo oggetto, e solo a quell'oggetto che è il suo corrispondente naturale, e per il conseguimento del quale esso si esercita in un'azione immediata, cieca e inconsapevole. L'intelligenza invece è capace di «distaccarsi» da tutti gli oggetti, di non considerarli nella loro immediata utilità, di vedere oltre ciò che appare della realtà; e nei confronti degli oggetti esercita azioni elastiche e variate.

Casertano, Montano Tortora, Storia delle filosofie, volume terzo, Il Tripode, 1982, p. 355 – 356

Bergson parla come se gli animali non avessero cultura, progetto e scopo nelle loro azioni. Come se ogni animale e ogni pianta non progettasse la propria esistenza. Che ne è in Bergson del concetto di evoluzione? Sono i corpi che si evolvono e con i corpi si evolve il loro modo di pensare il mondo (la loro intelligenza) con cui affrontare le condizioni del mondo.

L'uomo ha la peculiarità di modificare l'ambiente in cui vive piuttosto che modificare sé stesso per adattarsi all'ambiente in cui vive. Ma lo fa anche il ragno quando tesse la sua tela. Lo fa anche la formica quando istruisce un'altra formica. L'intelligenza non consiste in un accumulo razionale di nozioni, l'intelligenza consiste nell'adattare sé stessi nel mondo in cui si vive e progettare la propria esistenza in esso.

La parola istinto è una parola vuota che serve solo per classificare ciò che l'uomo non riconosce uguale a sé stesso. Capire che l'intelligenza dello scarafaggio è la stessa intelligenza dell'uomo è molto difficile quando tutto è misurato mediante le parole e mediante la violenza dell'imposizione. Se togli la ragione umana che, come noi la conosciamo, giunge all'uomo alcune centinaia di migliaia di anni or sono rimangono centinaia e centinaia di milioni di anni in cui i nostri antenati hanno costruito la vita, si sono modificati privi di ragione (come noi oggi la conosciamo) e privi di violenza di dominio.

Le trasformazioni nelle specie non avvengono perché qualcuno pensa alle trasformazioni e all'utilità di una trasformazione, ma avviene perché l'individuo di quella specie riesce ad adattarsi ad una condizione che gli è ostile e superare quell'ostilità. L'adattamento soggettivo non è prodotto di una fantomatica coscienza universale, ma è il risultato dell'uso della volontà di abitare il mondo in cui vivono gli Esseri della Natura.

Nel 1908 Bergson a Londra incontra William James. Da quell'incontro inizia l'amicizia fra i due che continuerà fino alla morte di James.

Nel 1911 Bergson è all'università di Oxford in cui tenne due conferenze. Poi tiene conferenze a Birminghan.

Nel 1913 Bergson è negli USA alla Columbia University di New York e prosegue il suo viaggio tenendo conferenze in varie parti degli Stati Uniti.

Tornato in Inghilterra accetta la presidenza della British Society for Psychical Research. Che cos'è la British Society for Psychical Research? E' un'organizzazione che si interessa di fenomeni paranormali dando loro una dignità di scienza. Alla base della società e dei loro fondatori c'era la convinzione che il paranormale esistesse nella forma definita dal cristianesimo e dall'ebraismo. Il paranormale, per queste persone, era la scienza del futuro. Ovviamente per legittimare il paranormale dovevano delegittimare i truffatori più evidenti e alimentare la convinzione dell'esistenza degli oggetti indagati dal paranormale (spiriti, paradiso, super facoltà dell'uomo, ecc.). La ricerca dell'istituto iniziò in sei direzioni di studio: telepatia, mesmerismo, apparizioni, medium, i fenomeni fisici delle sedute spiritiche con la storia di questi fenomeni. Bergson accettò la presidenza della società perché convinto di questa realtà proponendo un indirizzo sui fantasmi e la vita psichica.

Nel 1914 Bergson divenne membro dell'Académie Française e dell'Académie des Sciences morales et politiques.

Nel 1914 le università della Scozia organizzano per Bergson una serie di lezioni e progettano un corso per la primavera e per l'autunno.

Inizia la prima guerra mondiale e Bergson scrive qualche discorso e inizia una serie di viaggi in America. Bergson interpreta la prima guerra mondiale come lo scontro fra spirito e materia.

Nel 1919 Bergson pubblica "L'energia spirituale".

Nel 1920 l'università di Cambrige gli concede il titolo di dottore in lettere.

Per consentire a Berger di scrivere l'opera sull'etica, la religione e la sociologia, l'Università gli concesse di conservare il titolo e il ruolo accademico senza obbligo di fare lezione. Nonostante il fervido cattolicesimo di Bergson, il Vaticano mise all'indice i suoi libri in quanto li etichettò come "panteisti".

Nel 1922 fu pubblicato il libro "Durata e simultaneità". Il libro metteva in discussione le teorie di Einstein sulla relatività. Secondo molti autori la critica di Bergson era inadeguata, secondo altri la critica di Bergson riguardava i fondamenti filosofici dai quali partiva la teoria della relatività. Sta di fatto che questo lavoro di Bergson non fu visto in maniera positiva dalla cultura e per questo venne pubblicato solo nel 1951.

Nel 1927 fu conferito a Bergson il premio Nobel per la letteratura in seguito a "Evoluzione creativa". Però era il tempo in cui Bergson stava male e i dolori reumatici lo costrinsero a non presenziare alla premiazione.

Nel 1928 fu eletto membro straniero dell'American Academy of Arts and Sciences.

Nel 1932 Bergson scrive "Le due sorgenti della morale e della religione".

Nel 1934 Bergson scrive "Il pensiero e il movente".

In "Il pensiero e il movente" Bergson affronta la dualità fra intuizione e scienza.

Scrive Nicola Abbagnano in "Storia della filosofia":

L'intuizione estetica tuttavia è diretta soltanto all'individuale e non può essere l'organo di una metafisica della vita. Ma si può concepire una ricerca orientata nello stesso senso dell'arte e che abbia per oggetto la vita in generale. Una ricerca di questo genere sarà propriamente filosofica, costituirà anzi l'organo stesso della metafisica. Mentre la scienza trova il suo organo nell'intelligenza e il suo oggetto appropriato nella materia immobile, la metafisica trova il suo organo nell'intuizione e il suo oggetto appropriato nella vita spirituale. Se l'analisi è il procedimento proprio dell'intelletto, il procedimento proprio dell'intuizione sarà la simpatia, «per la quale ci si trasporta nell'interno di un oggetto per coincidere con ciò che esso ha di unico e perciò di inesprimibile» (La Pensée et le Mouvant, p. 205). Se l'analisi intellettuale ha bisogno di simboli, la metafisica intuitiva è invece la scienza che pretende fare a meno di simboli. Essa infatti possiede assolutamente e infinitamente la realtà invece di conoscerla; si colloca direttamente in essa invece di adottare punti di vista intorno ad essa e perciò la attinge al di fuori di ogni espressione, traduzione o rappresentazione simbolica (Ib., p. 206).
All'intuizione, Bergson fa continuamente appello lungo tutta la sua ricerca. E' l'intuizione che ci rivela la durata della coscienza e ci mette in guardia contro la spazializzazione di essa operata dall'intelligenza. E' l'intuizione che ci rende consapevoli della nostra libertà. E' anche l'intuizione che ci permette di risalire verso quello slancio vitale che è la forza creativa di ogni evoluzione biologica. In realtà, l'unico oggetto dell'intuizione è lo spirito. Essa è «la visione diretta dello spirito da parte dello spirito». Tuttavia l'universo materiale non rimane opaco all'intuizione. Se il dominio proprio di questa è lo spirito, «essa vorrebbe tuttavia attingere nelle cose anche materiali la loro partecipazione alla spiritualità - e diremmo alla divinità - se non sapessimo tutto ciò che si mescola ancora di umano alla nostra coscienza anche depurata e spiritualizzata» (Ib. p. 37). L'intuizione può avere significati diversi e non è definibile univocamente. Tuttavia il suo contrassegno fondamentale è che essa pensa in termini di durata cioè di spiritualità o di coscienza pura. E questo appunto ne fa l'organo specifico della metafisica.
Tra la metafisica e la scienza Bergson non intende stabilire una differenza di valore ma soltanto di oggetto e di metodo. Alla scienza compete la conoscenza intellettuale della materia, alla metafisica l'intuizione dello spirito. Poiché lo spirito e la materia si toccano, anche la scienza e la metafisica avranno una superficie periferica comune: potranno così agire l'una sull'altra e stimolarsi a vicenda.
Per compiere la sua funzione, la filosofia dovrà cessare di essere una mera analisi dei concetti impliciti nelle forme comuni del linguaggio e dovrà vertere sulla stessa esistenza reale. Ma ogni esistenza non può essere data che in un'esperienza. Quest'esperienza si chiamerà visione o contatto o percezione esterna in generale se si tratta di un oggetto materiale; si chiamerà intuizione se si tratta dello spirito. Fin dove può giungere l'intuizione? Essa sola può dirlo. «Essa, dice Bergson (ib., p. 61), giunge in possesso di un filo: dovrà essa stessa vedere se questo filo sale sino al cielo o se si ferma a qualche distanza dalla terra. Nel primo caso, l'esperienza metafisica si collegherà a quella dei grandi mistici: ed io posso constatare, per mio conto, che questa è la verità. Nel secondo caso le esperienze metafisiche resteranno isolate le une dalle altre senza tuttavia contrastare fra loro. In ogni caso, la filosofia ci avrà sollevati al di sopra della condizione umana».

Nicola Abbagnano, Storia della filosofia, Volume VI, edizione TEA, 1995, p. 78 – 79

L'intuire esteticamente un oggetto non si contrappone alla scienza in quanto la scienza non è esercizio di intelligenza, la scienza è descrizione della forma del mondo. La scienza tratta la forma del mondo e l'intuizione estetica tratta della forma del mondo. L'oggetto del discutere, fra scienza e intuizione estetica, è sempre lo stesso: la forma degli oggetti del mondo.

Diverso è se l'intuizione, anziché riferirla all'azione della coscienza universale (Dio), la consideriamo come manifestazione del singolo soggetto vivente. In quel caso possiamo considerare l'intuizione come una comunicazione, proveniente dall'interno dell'individuo, alla coscienza razionale del soggetto nella sua attività dell'abitare il mondo. L'intuizione come comunicazione della struttura emotiva del soggetto alla sua coscienza razionale. La conoscenza razionale domina la coscienza soggettiva del singolo individuo, ma è il corpo che mediante la propria struttura emotiva abita il mondo e costruisce le relazioni col mondo. Il corpo vive la realtà del mondo mediante la propria struttura emotiva mentre la coscienza razionale è dominata dalla forma e dalla quantità con cui la ragione misura il mondo rinchiuso nelle forme.

Qualche volta la struttura emotiva riesce a superare la barriera imposta dalla ragione e fa arrivare l'intuizione alla coscienza la quale, in quel momento viene disgregata per riaggregarsi fagocitando gli elementi che sono giunti alla coscienza dall'insorgere dell'emozione.

Ma Bergson è troppo occupato nell'esaltazione dell'assolutismo ebraico per guardarsi attorno e vedere gli uomini mentre danno l'assalto al cielo della vita.

Sull'idea di società di Bergson, scrive Abbagnano in "Storia della filosofia":

Le società umane che storicamente si sono formate e si formano sono società chiuse, nelle quali individuo agisce unicamente come parte del tutto, e lasciano un margine minimo all'iniziativa e alla libertà. L'ordine sociale si modella sull'ordine fisico per quanto le sue leggi non abbiano la necessità assoluta delle leggi fisiche. Ma l'individuo segue la via già tracciata dalla società: automaticamente obbedisce alle sue regole e si conforma ai suoi ideali. La società è la fonte delle obbligazioni morali. Queste non sono, come voleva Kant, esigenze della pura ragione, ma abitudini sociali che garantiscono la vita e la solidità del corpo sociale. La ragione entra in queste obbligazioni solo per dettare le modalità del loro adempimento; ma non ha nulla a che fare con la loro origine. A base della società c'è l'abitudine di contrarre abitudini ed è questo l'unico fondamento dell'obbligazione morale. Ciò che nell'altra grande linea dell'evoluzione animale la natura ha realizzato mediante l'istinto, dando origine all'alveare e al formicaio, nella linea dell'intelligenza lo ha realizzato mediante l'abitudine. In questa linea, è lasciata una certa latitudine alla scelta individuale, quindi ogni abitudine morale ha una certa contingenza. Ma il loro insieme, cioè l'abitudine di contrarre abitudini, ha la stessa intensità e regolarità dell'istinto (Deux sources, p. 21).
Ma accanto alla morale dell'obbligazione e dell'abitudine, che è propria di una società chiusa, c'è la morale assoluta, quella dei santi del cristianesimo, dei saggi della Grecia, dei profeti d'Israele, che è la morale di una società aperta. Questa morale guarda non a un gruppo sociale, ma a tutta l'umanità. Essa ha a suo fondamento un'emozione originale, e continua lo sforzo generatore della vita. La morale dell'obbligazione è immutabile e tende alla conservazione; la morale assoluta è in movimento e tende al progresso. La prima esige l'impersonalità, perché è la conformità ad abitudini acquisite; la seconda risponde all'appello di una personalità che può essere quella di un rivelatore della vita morale o di uno dei suoi imitatori o anche quella della persona stessa che agisce. A queste due morali diverse corrispondono due tipi diversi di religione

Nicola Abbagnano, Storia della filosofia, Volume VI, edizione TEA, 1995, p. 81.

La società chiusa, secondo Bergson, è quella società in cui "l'individuo agisce unicamente come parte del tutto" e la società aperta è quella dei santi cristiani, dei saggi della Grecia e dei profeti d'Israele. In sostanza la società chiusa è quella in cui l'uomo deve obbedire ad un 'autorità mentre la società aperta è quella in cui l'autorità (i santi cristiani come san Carlo Magno o san Tommaso d'Aquino che fanno dell'omicidio la legittimazione della loro santità, i saggi Greci come Platone che vuole che gli uomini siano dominati dagli aristocratici e i profeti d'Israele come Elia che compie il genocidio dei sacerdoti di Baal) può dominare sugli uomini ridotti ad oggetto di possesso.

Bergson riprende l'idea di Orosio in "Storie contro i pagani" e lo ripropone come modello di società sottomessa al volere di Dio. Un volere che esprime molto bene il libero arbitrio di Dio che consiste in "O fai quello che voglio io o io ti ammazzo!".

Da questo procede il concetto sulla religione di Bergson che si divide fra religione statica e religione dinamica.

Scrive Abbagnano in "Storia della filosofia":

La religione è la reazione difensiva della natura contro il potere dissolvente dell'intelligenza; i suoi miti e le sue superstizioni servono a impegnare l'uomo verso i suoi simili, trattenendolo dall'egoismo nel quale l'intelligenza lo farebbe cadere. Inoltre, l'intelligenza rende chiara all'uomo la sua natura mortale e ciò rappresenta per una mentalità primitiva un secondo pericolo, contro il quale la religione reagisce con la credenza nell'immortalità e il culto dei morti. In terzo luogo, l'intelligenza fa percepire chiaramente all'uomo l'imprevedibilità del futuro e quindi il carattere aleatorio di tutte le sue intraprese. La religione esercita anche qui una funzione difensiva, dando all'uomo il senso di una protezione soprannaturale, che lo sottragga ai pericoli e all'incertezza del futuro. Infine, la religione fornisce, con le credenze e le pratiche magiche, la possibilità di credere in un'influenza dell'uomo sulla natura assai superiore a quella che l'uomo può effettivamente raggiungere mediante la tecnica.
Una religione così fatta è, secondo Bergson, infra-intellettuale. Essa è in generale la reazione difensiva della natura contro ciò che c'è di deprimente per l'individuo e di dissolvente per la società nell'esercizio dell'intelligenza. E quindi una religione naturale nel senso che è un prodotto dell'evoluzione naturale. Ma accanto a questa religione statica, la religione dinamica costituisce la forma sopra-intellettuale della religione, che riprende e continua direttamente lo slancio vitale originario. La religione dinamica è identificata da Bergson con il misticismo.
Il misticismo è assai raro e presuppone un uomo privilegiato e geniale. Ma esso fa appello a qualcosa che è in tutti gli uomini; e anche quando non arriva a comunicare agli altri uomini la sua forza creativa, tende a sottrarli al formalismo della religione statica e produce così numerose forme intermedie di religione. «Il risultato del misticismo, dice Bergson (Deux sources, p. 235), è una presa di contatto, e per conseguenza una coincidenza parziale, con lo sforzo creatore che la vita manifesta. Questo sforzo è di Dio, se non è Dio stesso».
Il misticismo antico, quello neoplatonico come quello orientale, è un misticismo della contemplazione: non ha creduto all'efficacia dell'azione umana. Il rnisticismo completo è quello dei grandi mistici cristiani (S. Paolo, S. Teresa, S. Caterina, S. Francesco, Giovanna d'Arco); per i quali l'estasi non è un punto d'arrivo, ma il punto di partenza di un'azione efficace nel mondo. L'amore del mistico per l'umanità è l'amore stesso di Dio: è un amore che non conosce problemi né misteri, perché continua l'opera della creazione divina (Ib. p. 251). L'esperienza mistica fornisce l'unica prova possibile dell'esistenza di Dio. L'accordo tra i mistici non solo cristiani ma anche appartenenti ad altre religioni è «il segno di un'identità d'intuizione che si può spiegare nel modo più semplice con l'esistenza reale dell'Essere col quale si credono in comunicazione» (Ib., p. 265). L'esperienza mistica porta a considerare l'universo come l'aspetto visibile e tangibile dell'amore e del bisogno di amare. «Dio è amore ed è oggetto di amore: qui è tutto il misticismo» (ib., p. 270). L'amore solo giustifica la molteplicità degli esseri viventi e quindi la realtà dello stesso universo, che è richiesto per l'esistenza di esseri distinti tra loro e da Dio. Bergson accetta francamente una concezione ottimistica del mondo. «C'è un ottimismo empirico, egli dice (Ib., p. 280), che consiste semplicemente nel constatare due fatti: in primo luogo, che l'umanità giudica buona la vita nel suo insieme perché vi è attaccata, in secondo luogo che esiste una gioia senza mescolanza, situata al di là del piacere e del dolore, che è lo stato d'animo definitivo del mistico».
Bergson auspica il sorgere di qualche genio mistico come correzione dei mali sociali e morali di cui soffre oggi l'umanità. La tecnica moderna, estendendo la sfera d'azione dell'uomo sulla natura, ha in qualche modo ingrandito smisuratamente il corpo dell'uomo. Questo corpo ingrandito «attende un supplemento d'anima, e la meccanica esigerebbe una mistica» (Ib., p. 355). I problemi sociali e politici internazionali che nascono da questa sproporzione potrebbero essere eliminati da una rinascita del misticismo. In tal caso, la meccanica che ha curvato ancor più l'umanità verso la terra, potrebbe servirle per raddrizzarsi e guardare il cielo. E l'umanità allora potrebbe riprendere sul nostro pianeta «la funzione essenziale dell'universo, che è una macchina per fare gli dèi» (Ib., p. 343).

Nicola Abbagnano, Storia della filosofia, Volume VI, edizione TEA, 1995, p. 82 – 83.

Come ogni ebreo e cristiano, ritiene che la religione nasca come metodo dell'uomo per difendersi dalla Natura. Il cristiano ha paura della Natura e pensa che tutti gli uomini siano stati terrorizzati dalla Natura e abbiano cercato di esorcizzare quella paura inventando Dèi che abitano il mondo. Il cristiano immagina l'uomo cacciato dal paradiso terreste che vaga nell'oscurità ignaro di ogni pericolo e terrorizzato da tutto ciò che si presenta. Ma l'uomo è divenuto nella natura per diversificazione di specie e, pertanto, l'uomo, come ogni altra specie della Natura, conosce la casa in cui è nato, cresciuto e vissuto. E proprio perché conosce la casa in cui vive, l'uomo incontra le intelligenze negli oggetti del mondo, ma questo un ebreo o un cristiano non lo possono comprendere perché effettivamente loro sono terrorizzati dal mondo in cui vivono.

Questo terrore che avvolge Bergson costringe Bergson a cercare protezione in chi crede abbia creato la Natura e, al contrario, è l'artefice della sua separazione dalla Natura. Ne segue che Bergson immagina come i mistici cristiani siano in contatto con Dio. Immagina che essi stessi sono Dio. In una ricerca magica di una mistica che gli permettesse di incontrare il Dio del tutto che pensa lo stia circondando. Dio è l'essenza della magia degli esoteristi, ma Bergson non incontra Dio, ma solo le sue paure.

I grandi mistici per Bergson sono Paolo di Tarso, Giovanna d'Arco, Caterina da Siena e altri che vivono una condizione di estasi. Bergson non pensa che tali estasi siano solo il frutto della loro malattia mentale. Gli ospedali psichiatrici ne sono pieni oggi come ne erano pieni ai tempi di Bergson.

Tutti i discorsi di Bergson si riducono a questo, un'affannosa ricerca di Dio dal quale si sente separato ed emarginato.

Nel 1935 completò il suo lavoro sulla morale e la religione.

Non erano più i tempi in cui la sua filosofia veniva osannata ed applaudita. Anche se Bergson difendeva le sue convinzioni, molti elementi della sua filosofia erano stati messi in discussione e le sue tesi non trionfavano più fra gli applausi.

Bergson era sempre stato incline ad aderire al cristianesimo. Il 7 febbraio 1937 lo dichiarò apertamente, ma se non lo fece fu perché il conflitto fra Germania ed ebraismo lo faceva sentire come una sorta di "traditore" degli ebrei.

Il 3 gennaio 1941, nella Francia occupata dai nazisti, Bergson muore. Su sua richiesta un prete cattolico recita l'orazione funebre.

Nei tempi d'oro del furore della filosofia di Bergson molti vollero usarla per i loro scopi. Da alcuni gruppi socialisti e sindacalisti ai cattolici modernisti. Cercarono di accreditarsi con le idee di Bergson. La grande campagna di propaganda aveva fatto breccia suscitando simpatie in ambienti ideologici diversi.

 

Marghera, 01 maggio 2019

 

 

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Claudio Simeoni

Meccanico

Apprendista Stregone

Guardiano dell'Anticristo

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