Blaise Pascal

Le biografie dei giocatori - quarantaduesima biografia

Capitolo 125

La partita di calcio mondiale fra i filosofi

Claudio Simeoni

 

Le biografie dei filosofi che partecipano alla partita di calcio

 

La biografia di Blaise Pascal

 

Blaise Pascal è nato il 19 giugno 1623 a Clermont Ferrand. Il padre, Stefano Pascal, faceva parte della corte giudiziaria per trattare i contenziosi tributari. La madre di Blaise Pascal era Antonietta Begon.

Blaise Pascal era il secondo genito di tre fratelli. Nel 1626 la madre muore e il padre, per seguire i figli si trasferisce a Parigi dove, fra l'altro, si interessa di scienza. Il padre di Blaise Pascal fu tra i fondatori dell'accademia del prete Marino Marsenne. Nel 1640 il padre di Blaise fu incaricato dal cardinale Richelieu di riorganizzare l'anagrafe tributaria della Normandia sconvolta da alcune rivolte.

Blaise Pascal fu un'intelligenza matematica molto precoce. A 16 anni (1639) pubblicò un "Trattato sulla pesantezza della massa d'aria".

Nel 1642 Blaise Pascal inventò e costruì la Pascalina. Un prototipo di calcolatrice che faceva addizioni e sottrazioni con numeri da dodici cifre operando automaticamente i riporti.

Blaise Pascal scriverà alcuni trattati di matematica ed è uno scienziato importante nella storia della scienza e della Francia. In questa biografia tratterò essenzialmente il Pascal filosofo e teologo dando meno importanza al Pascal matematico. Inoltre, userò indifferentemente il nome in francese "Blaise" e l'italianizzazione del nome "Biagio".

Nel 1646 Biagio Pascal spinse la sua famiglia ad avvicinarsi al giansenismo al quale Biagio Pascal decise di aderire. Pur continuando a coltivare l'interesse scientifico, decise di dedicare la propria vita alla filosofia religiosa cristiana.

Nel 1647 Blaise Pascal si ammala e per questo torna a Parigi per curarsi. Pascal rimarrà malato per tutto il resto della sua vita vivendo fasi più acute o meno gravi della sua malattia.

Questo periodo, come riporta il libro "Storia delle filosofie", in cui:

Infiammato da una crisi di misticismo religioso, pur senza prendere gli ordini ecclesiastici, Pascal vive tra i monaci di Port Royal una intensa vita religiosa, condividendo con essi il rigorismo intellettuale e pratico. Si inserisce nella polemica sul giansenismo con una serie di Lettere provinciali in cui con profondità di dottrina e con tono umoristico prende le difesa della dottrina di Giansenio. Raccoglie appunti e pensieri vari da utilizzare per una Apologia del Cristianesimo, che però non condurrà a termine. La pubblicazione postuma di quei Pensieri, rivelano un'anima ardentemente religiosa e rappresentano, con la loro immediatezza, l'ardore lirico di uno spirito inquieto insoddisfatto dalla scienza e proteso alla ricerca di Dio.

Casertano, Montano, Tortora, Storia delle filosofie, secondo volume, il Tripode, 1982-1985, pag. 205

Nel 1947 scrive un piccolo trattato sul vuoto nel quale Blaise Pascal ci illustra il suo concetto di relazione fra l'uomo, l'umanità e la vita.

Scrive Blaise Pascal:

Non è forse trattare indegnamente la ragione umana e costringerla al passo dell'istinto animale, poiché se ne sopprime la principale differenza: che gli effetti del ragionamento crescono senza posa, mentre l'istinto resta sempre nel medesimo stato? Le arnie delle api erano altrettanto ben proporzionate or è mill'anni che adesso, e ciascuna di esse forma quell'esagono così perfettamente la prima volta che l'ultima. E così è di tutto ciò che gli animali producono per mezzo di quel moto occulto. La natura li istruisce a mano a mano che la necessità li urge; ma quella fragile scienza si perde assieme al bisogno che ne hanno: siccome la ricevono senza studio, è negato loro il bene di conservarla; e ogni volta che è data loro, per loro è nuova, giacché la natura, non avendo altro fine che di conservar gli animali in un ordine di perfezione limitata, ispira loro questa scienza necessaria, sempre uguale, nel timore che si corrompano, e non permette che le aggiungano nulla, nel timore che sorpassino i limiti prescritti. Non è così dell'uomo, che è fatto solamente per l'infinità. Egli è nell'ignoranza nella prima età della sua vita, ma si istruisce senza posa nel suo sviluppo: s'avvantaggia, infatti, non solo dell'esperienza propria, ma anche di quella dei suoi predecessori, perché conserva sempre nella memoria le conoscenze una volta acquisite, e quelle degli antichi gli son sempre presenti nella testimonianza dei libri. Come conserva quelle conoscenze, così le può facilmente aumentare; sicché al presente gli uomini sono, in qualche modo, nello stato in cui si troverebbero quegli antichi filosofi, se avessero potuto invecchiare fino ad oggi, aggiungendo alle conoscenze che avevano quelle che avrebbero potuto acquistar loro gli studi; col favore di tanti secoli. Per una prerogativa particolare, dunque, non solo ciascun uomo progredisce giorno per giorno nelle scienze, ma ancor tutti quanti gli uomini insieme vi compiono un continuo progresso, a mano a mano che l'universo invecchia, perché lo stesso accade nel succedersi delle generazioni come delle diverse età d'un singolo. Sicché l'intera successione degli uomini, durante il corso di tanti secoli, dev'essere considerata come uno stesso uomo, che esiste sempre e impara di continuo: onde si vede quanto ingiustamente rispettiamo l'antichità in quei filosofi; giacché, se la vecchiezza è l'età più lontana dall'infanzia, chi non vede che la vecchiezza in quest'uomo universale non deve esser cercata nei tempi prossimi alla sua nascita, sibbene in quelli che ne son più distanti? Coloro che chiamiamo antichi erano veramente nuovi in ogni cosa, e propriamente formavano l'infanzia degli uomini; e siccome noi abbiamo aggiunto alle loro conoscenze l'esperienza dei secoli posteriori, in noi si può ritrovar quell'antichità che riveriamo in loro.

Biagio Pascal, Antologia filosofica, editrice La Scuola, 1988, pag. 25 – 26

Pascal, nel voler fondare una ragione che spieghi la fede cristiana, fa proprio un concetto di Agostino d'Ippona secondo cui la chiesa cristiana è vista come «un uomo diffuso per tutta la terra che cresce a poco a poco attraverso il volgere dei secoli». Quest'idea si accoppia col concetto di razionalità che parte dal presupposto che la ragione sia la signora dell'intelligenza umana distinta dagli animali che, non avendo intelligenza, secondo Pascal, sarebbero costretti a rinnovare la loro conoscenza ad ogni generazione senza avere una conoscenza lasciata dalle generazioni precedenti.

Nella battaglia culturale che sta avvenendo fra libertini e cristiani, i cristiani, per rispondere alle esigenze di libertà sociale proposte dai libertini, invocano il dominio e la supremazia della ragione rispetto al mero istinto. La ragione è logos, parola, descrizione e Pascal è uno scienziato che descrive le cose nella loro forma esteriore, ma per l'interiorità delle cose è necessario, secondo Pascal, rivolgersi alla fede.

In quest'ottica si comprende l'arrivo delle idee giansenistiche che vengono riassunte in questo modo da "Storia delle filosofie":

Il più importante tra di essi è il movimento giansenista fondato dal vescovo di Ipres, Cornelio Giansenio (1585-1638). Nell'opera Augustinus, Giansenio ripropone una visione pessimistica della natura umana molto simile a quella di Lutero. L'uomo con il peccato originale ha voltato definitivamente le spalle a Dio e al bene, ed ogni sua opera non fa che sprofondarlo sempre più nel male. L'unica possibilità di salvezza viene da Dio attraverso la Grazia. Giansenio, però, a differenza dei protestanti, non mette in discussione la validità della liturgia e della prassi sacramentale, né si scaglia contro la gerarchia. Contro il lassismo religioso e l'esteriorità ostentata dell'osservanza liturgica, il giansenismo suona come un invito ad una religiosità più sincera e più intima; contro la scolastica e le sue sottigliezze intellettualistiche fa appello all'amore come unico merito che rende degni di Dio.

Casertano, Montano, Tortora, Storia delle filosofie, secondo volume, il Tripode, 1982-1985, pag. 205

Pascal è legato alla religione cristiana e vede nel giansenismo un superamento della filosofia scolastica e della filosofia in generale perché la filosofia non è in grado di spiegare il bisogno di Dio nell'uomo. In Francia i seguaci di Giansenio si organizzano nell'abazia di Port Royal. Praticano una vita monastica al limite dell'ascetismo. Il movimento fu perseguitato e nel 1653 sarà condannato. Il convento sarà distrutto nel 1710.

Nel 1654 Blaise Pascal ebbe un sussulto religioso ritenendosi miracolato. Su ponte di Neuilly i cavalli della carrozza su cui viaggiava, finirono oltre il parapetto. I cavalli precipitarono, ma la carrozza si salvò e Pascal, il razionalista, gridò al miracolo. In quel momento sentì la chiamata di Dio e, abbandonata definitivamente lo studio della matematica e della fisica, iniziò a dedicarsi esclusivamente alla teologia.

Blaise Pascal entrò nell'abazia di Port Royal per dedicarsi alla meditazione e alla contemplazione di Dio. Nell'abazia c'era già sua sorella che era diventata seguace di Giansenio. Pascal entrava in abazia nel momento in cui i giansenisti si scontravano con i teologi gesuiti della Sorbona.

Il 24 settembre 1651 nuore il padre di Blaise Pascal.

Nel 1652 Pascal presenta la sua macchina per fare i calcoli nei salotti parigini e invia una copia della macchina alla regina Cristina di Svezia.

Nel 1653 conosce dei nobili francesi che lo introducono nel "gran mondo" di corte. Un mondo che affascina notevolmente Pascal che lo ritiene una sorta di paradiso del quale però, dopo qualche anno, inizia a provare disgusto.

Il 23 novembre 1654 Blaise Pascal ha un momento di estasi e un piccolo foglio di pergamena scritto da Pascal ne testimonia il momento. Il documento va sotto il nome di "memoriale".

Scrive Pascal nel memoriale:

L'ANNO DI GRAZIA 1654
Lunedì 23 novembre giorno di S. Clemente papa e martire e altri del martirologio.
Vigilia di S. Crisogono martire e altri.
Da circa le dieci e mezzo di sera sono a circa mezzanotte e mezzo.
FUOCO
Dio d'Abramo, Dio d'Isacco, Dio di Giacobbe, non dei filosofi e dei sapienti.
Certezza. Certezza. Sentimento, gioia, pace.
Dio di Gesù Cristo.
Deum meum et Deum vestrum
Il tuo Dio sarà il mio Dio
Oblio del mondo e di tutto fuorché Dio.
Non si trova che per le vie insegnate nel Vangelo.
Grandezza dell'anima umana.
Padre giusto il mondo non ti ha conosciuto, ma io t'ho conosciuto
Gioia, gioia, gioia, lacrime di gioia
lo me ne sono separato
Dereliquerunt me fontem aquae vivae.
Dio mio, mi abbandonerete?
Che io non ne sia separato eternamente.
Questa è la vita eterna che conoscano te il solo vero Dio e colui che tu hai mandato J. C.
Gesù Cristo
Gesù Cristo
Io me ne sono separato. L'ho sfuggito, rinnegato, crocifìsso.
Che io non ne sia mai separato!
Non si conserva che per le vie insegnate nel Vangelo.
Rinunzia totale e dolce.

Biagio Pascal, Antologia filosofica, editrice La Scuola, 1988, p. 36 – 37

A cui sembra si debbano aggiungere altre tre righe in cui si invoca l'assoluta sottomissione a Gesù e al "mio direttore". Si tratta di un'allucinazione prodotta dalla malattia che travagliava Blaise Pascal e che coinvolgeva stomaco e cervello. La descrizione di questa allucinazione di Pascal è stata trovata cucita dentro una giacca. Un delirio provocato dalla sua malattia.

Nel 1656, nella "Conversazione col signor Sacy" Blaise Pascal fa la sua apologia alla fede cristiana in polemica con Epitteto e Montaigne.

Scrive Pascal:

Domanda loro su quali princìpi s'appoggino; li sfida a mostrarli. Li esamina, quanti essi ne possano produrre, e vi penetra così addentro, con quel talento in cui eccelle, che mostra la vanità di quelli che passano per i più naturali e i più solidi. Domanda se l'anima conosca qualcosa; se conosca se stessa; se sia sostanza o accidente, corpo o spirito; che cosa sia ciascuna di quelle cose; se non ci sia nulla che non appartenga ad alcuno di quei due ordini; se conosca il proprio corpo; che cosa sia materia; se possa discernere nell'innumerevole varietà di corpi, quando si producono; come possa ragionare, se è materiale; e come possa esser unita a un corpo particolare e provarne le passioni, se è spirituale. Quando abbia cominciato a esistere, se con il corpo o prima; se finisca con esso o no; se non si inganni mai; se sappia quando erra, dal momento che l'essenza dell'errore è proprio di non conoscerlo; se nei suoi offuscamenti non creda con altrettanta sicurezza che due e tre facciano sei, come sa poi che fanno cinque; se gli animali ragionino, pensino, parlino; e chi possa decidere che cosa sia il futuro, che cosa lo spazio o l'estensione, che cosa sia il moto, che cosa sia l'unità, che pur ci circondano e sono intimamente inesplicabili; che cosa sia la salute, malattia, vita, morte, bene, male, giustizia, peccato, di cui parliamo ognora; se abbiamo in noi dei principi del vero, e se quelli a cui crediamo e che chiamiamo assiomi o nozioni comuni, perché sono comuni a tutti gli uomini, siano conformi alla verità essenziale. E poiché non sappiamo, se non per la sola fede, che un Essere assolutamente buono ce li ha dati veritieri, creandoci per conoscere la verità, chi saprà mai invero senza quella rivelazione, se essendo formati a caso, essi non siano incerti, o se essendo fatti da un essere cattivo, costui non ce li abbia dati falsi al fine di sedurci? con ciò mostrando che Dio e il vero sono inseparabili e che se uno di essi è o non è, se è incerto o certo, lo stesso è necessariamente l'altro. Chi sa dunque se il senso comune, che assumiamo per giudice del vero, abbia tal essere dal suo creatore? Inoltre, chi sa che cosa sia la verità? e come si possa essere sicuri di averla, senza conoscerla? Chi sa ancora che cosa mai sia l'essere, che è impossibile definire, dato che non c'è niente di più generale e bisognerebbe, per spiegarlo, servirsi prima di tutto di quella parola medesima, dicendo: «E' essere»? E poiché non sappiamo che cosa sia anima, corpo, tempo, spazio, moto, verità, bene, e neanche essere, né spiegare l'idea che ce ne facciamo, come garantirei che sia la stessa in tutti gli uomini, dato che non ne abbiamo altro indizio che l'uniformità delle conseguenze, la quale non è sempre segno di quella dei principi? Infatti possono ben essere differenti e nondimeno condurre alle medesime conclusioni, ognun sapendo che il vero si conclude spesso dal falso. «Infine egli esamina profondamente anche tutte le scienze, e la geometria, di cui mostra l'incertezza negli assiomi e nei termini che essa non definisce affatto, come tempo, moto, ecc., e la fisica in più modi ancora, e la medicina in un'infinità di aspetti e la storia e la politica e la morale e la giurisprudenza e tutto il resto: in tal guisa che si resta convinti che non pensiamo meglio adesso che in un qualche sogno da cui non ci svegliamo che alla morte e durante il quale possediamo tanto poco i principi del vero quanto nel sonno naturale 23. Così svergogna tanto duramente e crudelmente la ragione svincolata dalla fede, che facendole dubitare se sia ragionevole, e se pur lo siano o non lo siano, di più o di meno, gli animali, la fa discendere dall'eccellenza che si è attribuita, e la riduce, con sua buona grazia, a pari delle bestie, senza permetterle di uscire da quell'ordine finché non sia istruita dal suo creatore medesimo della sua ignota condizione; minacciandola, se brontola, di metterla al di sotto di tutte, cosa altrettanto facile che la contraria, e non concedendole intanto alcun potere d'agire, se non per riconoscere la propria debolezza con umiltà sincera, anziché esaltarsi con sciocca insolenza »,
Il signor di Sacy, credendo di vivere in un altro paese e di ascoltare una nuova lingua, ripeteva fra sé le parole di Sant'Agostino: «O Dio di verità! Coloro che sanno tante sottigliezze di ragionamento vi sono per questo più graditi?». Compativa quel filosofo che si pungeva e si lacerava da tutte le parti con le spine che si fabbricava da sé stesso, come Sant'Agostino dice di sé quand'era in quello stato. Dopo aver pazientato alquanto, disse al signor Pascal: «Vi sono obbligato, signore; sono sicuro che se avessi letto a lungo Montaigne, non lo conoscerei così bene come lo conosco adesso, dopo la conferenza testé avuta con voi. Quell'uomo dovrebbe augurarsi di non esser conosciuto altrimenti che per l'esposizione che voi date dei suoi scritti e potrebbe dire con Sant'Agostino: Ibi me vide, attende. Sono convinto che quell'uomo avesse molto ingegno; ma non so se non gliene prestiate un po' di più di quanto ne avesse, mediante un sì giusto concatenamento dei suoi princìpi, come quello che voi fate. Potete comprendere che avendo trascorso la vita come ho fatto mi è stato poco consigliato di leggere codesto autore, le cui opere non hanno nulla di ciò che, secondo la regola di Sant'Agostino, dobbiamo principalmente cercare nelle nostre letture, perché le sue parole non sembrano derivare da un gran fondamento di umiltà e di pietà. Si può consentire a quegli antichi filosofi che eran detti accademici, di mettere tutto in dubbio. Ma che bisogno aveva Montaigne di dilettarsi a rinnovare una dottrina che ormai è reputata dai cristiani una follia? E' il giudizio che di tali persone dà Sant'Agostino. Infatti, si può dir con lui di Montaigne (quel che egli disse) a proposito della sua giovinezza: «In tutto quello che dice mette da parte la fede; e però noi, che abbiamo la fede, dobbiamo parimente metter da parte tutto quel che dice ( … ) »,
Il signor Pascal ( ... ), tuttavia, essendo ancor tutto compreso del suo autore, non riuscì a trattenersi e gli disse: «Vi confesso, signore, che non posso veder senza gioia in quell'autore la superba ragione strapazzata senza scampo dalle sue stesse armi, e una rivolta così sanguinosa dell'uomo contro l'uomo, che dalla società con Dio a cui si sollevava con le massime, lo precipita nella natura delle bestie, e avrei amato con tutto il cuore il ministro di sì gran vendetta, se, discepolo della Chiesa per la fede, avesse seguito le regole della morale, inducendo gli uomini, sì utilmente umiliati, a non irritare con nuovi delitti colui che è il solo che li possa trarre da quei delitti che li ha convinti di non poter nemmeno conoscere. «Ma egli si comporta all'opposto, da pagano, così. Dal principio, dice, che fuor dalla fede tutto è nell'incertezza, e considerando da quanto tempo ormai si cerca il vero e il bene senza progresso alcuno verso la tranquillità, conclude che se ne deve lasciar la cura agli altri; e restarsene frattanto in riposo, scorrendo leggermente sulle questioni, nel timore di sprofondarcisi, insistendo; e prendere il vero e il bene come si mostrano di prim'acchito senza indagare, perché sono così poco solidi che per poco che si serrino le mani, sfuggono di tra le dita e le lasciano vuote. Perciò segue il ragguaglio dei sensi e le nozioni comuni, perché gli bisognerebbe di far violenza a sé stesso per smentirle, e non sa d'altra parte se ci guadagnerebbe, ignorando dove sia il vero. Così sfugge il dolore e la morte, perché il suo istinto lo spinge a ciò, e non vuol resistergli per lo stesso motivo; ma senza concluderne che siano dei veri mali, non fidandosi troppo di quegli impulsi naturali di timore, visto che se ne sentono altri di piacere che si dicono cattivi, sebbene la natura parli al contrario. Così non ha niente di stravagante nella condotta; si comporta come gli altri uomini; e tutto ciò che essi fanno nella sciocca opinione di seguire il vero bene, egli lo fa per un altro principio, e cioè che le verosimiglianze essendo uguali da entrambi i lati, l'esempio e la comodità sono i contrappesi che lo decidono.

Biagio Pascal, Antologia filosofica, editrice La Scuola, 1988, p. 51 – 57

Blaise Pascal combatte la ragione anteponendo alla ragione la fede. Nell'ottica scientifica di Pascal, la scienza non spiega la realtà in cui si vive. La scienza descrive l'apparenza della realtà. La realtà è Dio che si manifesta mediante la fede.

La Sorbona condanna le idee di Giansenio. E nell'autunno del 1656 Pascal scrive lettere a Carlotta Roannez e a suo fratello il duca di Roannez.

Nel 1657 e il 1658 Pascal scrisse collaborando con i parroci affiancandoli nella loro guerra contro i gesuiti e la loro "morale rilassata". Fece alcuni "Scritti sulla grazia" e "Sullo spirito geometrico e sull'arte di persuadere".

Nel 1658 Blaise Pascal aveva iniziato a scrivere un'apologia sulla religione contro gli atei e i libertini mediante uno scritto sui miracoli (idea che sarà ripresa dalla chiesa cattolica nel XIX secolo contro i socialisti e i comunisti).

Nel 1660 la malattia di Blaise Pascal è sempre più grave. Abitava a Bien Assis vicino a Clermont in casa di Fiorino e Gilberra Périer. La malattia lo tormentava e Blaise Pascal scrisse "Preghiera per il buon uso delle malattie". In sostanza, anziché combattere il male che lo affliggeva lo ha sublimato trasformandolo in un modello di santità. Si beava nel dolore e col dolore promuoveva sé stesso.

Maggiore era la sofferenza e maggiore era l'impegno di Blaise Pascal nell'imporre sofferenza a sé stesso con scelte di vita austere e privative.

Nell'autunno del 1660 recuperò un po' le forze e colse l'occasione per recarsi a Parigi dove intendeva dedicarsi all'educazione dei giovani, ma non quelli delle periferie, bensì del giovane duca Chevreuse.

Nel 1661 l'assembra del clero impose a tutti gli ecclesiastici la firma di un "formulario" antigiansenistico. Il "formulario" era stato preparato nel 1657, ma per ragioni di opportunità era stato accantonato fino ad allora.

Pascal si oppose alla firma e scrisse un testo, "Scritto sulla firma" con cui non riuscì a convincere i suoi amici. Da quel momento Pascal si disinteressò delle questioni teologiche.

Nel gennaio del 1662 Blaise Pascal riuscì ad avere la licenza per istituire i trasporti pubblici a Parigi. Le così dette "carrozze da cinque soldi". I trasporti furono inaugurati il 18 marzo del 1662.

Blaise Pascal passava i suoi giorni ritirato a vita privata e visitando le chiese.

Il 29 giugno 1662 Pascal subisce un violento acutizzarsi della malattia.

Biagio Pascal morì il 19 agosto 1662, all'età di 39 anni in casa della sorella.

A Pascal fu fatta un'autopsia. Dall'autopsia risultò che Pascal soffriva di gravi disturbi allo stomaco e all'intestino e rivelò gravi danni al tessuto cerebrale. La causa della morte non fu accertata. Fu chiaro il motivo che fece soffrire Pascal per quasi tutta la sua vita. Soffriva di emicranie croniche e di dolori allo stomaco, forse dovuti ad un tumore. E' da notare che Pascal seguiva una dieta vegetale e leggera giustificandola con ragioni etiche e morali. Molto probabilmente la dieta contribuì, se non a provocare, ad alimentare le sue malattie croniche. Questo spiega le allucinazioni, il bisogno di Dio e il suo amore per Gesù.

Solo la malattia è in grado di spiegare la qualità del pensiero malato proprio di Blaise Pascal. In Pascal la malattia governa la sua struttura emotiva e, nel governare la sua struttura emotiva, la malattia manifesta le idee di Pascal. La malattia ha la necessità di promuovere sé stessa mediante il controllo della struttura emotiva dell'individuo che viene asservito alla malattia.

La malattia, mediante il controllo della struttura emotiva, veicola sé stessa nel mondo attraverso le idee prodotte dal desiderio malato e tende a riprodursi negli altri uomini. La malattia diventa il modello alla quale piegare le scelte morali, etiche, esistenziali di altre persone affinché esse stesse siano malate e riconoscano la malattia come un modello della natura umana.

Scrive Pascal:

Ma ne concludano quello che vogliono contro il deismo, non concluderanno però niente contro la religione cristiana, che consiste propriamente nel mistero del redentore, che unendo in sé le due nature, umana e divina, ha tratto gli uomini fuori dalla corruzione del peccato, per riconciliarli a Dio nella sua persona divina. Essa insegna, dunque, agli uomini queste due verità insieme: che c'è un Dio di cui gli uomini sono capaci, e che c'è una corruzione nella natura, che li rende di ciò indegni. E' ugualmente importante per gli uomini conoscere entrambi i punti; è ugualmente dannoso per l'uomo conoscere Dio, senza conoscere la sua miseria, e conoscere la sua miseria, senza conoscere il redentore che lo può guarire. Una sola di esse o genera la superbia dei filosofi, che hanno conosciuto Dio, ma non la loro miseria, o la disperazione degli atei, che conoscono la loro miseria senza redentore.

Biagio Pascal, Antologia filosofica, editrice La Scuola, 1988, p. 196 – 197

Combattere il deismo del XVII secolo era per Pascal un imperativo. Il deismo liberava il Dio dei cristiani dall'oscurità e lo presentava nella ragione, nella natura e nella storia. Per i deisti la storia era la manifestazione di Dio, come lo era la natura e la parola della ragione, il logos. Al contrario, i cristiani volevano che il loro Dio abitasse l'oscurità prodotta dal "peccato degli uomini" e da quell'oscurità quel Dio alimentava la miseria umana, la malattia per la quale prometteva la grazia e la resurrezione. Era necessaria la miseria per consentire a Dio di riparare alla miseria. Così Pascal si fa paladino della miseria umana, la diffonde, la eleva a volontà di Dio per consentire a Dio di consolare la miseria dell'uomo.

In questa visione sociale le chiese cristiane diventano le costruttrici della miseria nelle società civili e useranno la miseria umana per la propria gloria e per la gloria di Dio. Sono i miserabili, coloro che sono stati privati di tutto, che hanno maggior bisogno di una consolazione e le chiese cristiane sono pronte a vendere questa consolazione in cambio di un buon prezzo.

E' la malattia di Pascal che parla attraverso la sua bocca.

Scrive Pascal:

Perciò, siccome appartiene ugualmente alla necessità dell'uomo di conoscere quei due punti, appartiene ugualmente alla misericordia divina di averceli fatti conoscere. La religione cristiana lo fa, essa consiste in ciò.
Si esamini l'ordinamento del mondo su quel fondamento, si vegga se tutte le cose non tendano, allora, alla conferma dei due caposaldi di quella religione: Gesù Cristo è l'oggetto di tutto e il centro a cui tutto tende. Chi lo conosce, conosce la ragione di tutte le cose.
Chi si smarrisce è per aver mancato di vedere una di quelle cose. Si può, invero, conoscere Dio senza la propria miseria e la propria miseria senza conoscere Dio; ma non si può conoscere Gesù Cristo, senza conoscere tutt'insieme e Dio e la propria miseria. Ecco perché non mi disporrò qui a provare con argomenti naturali l'esistenza di Dio, o la Trinità, o l'immortalità dell'anima, né alcun'altra cosa simile; non solo perché non mi sentirei abbastanza forte da trovar nella natura di che convincere degli atei ostinati, ma anche perché quella conoscenza, senza Gesù Cristo, è inutile e sterile. Quando un uomo fosse ben persuaso che le proporzioni dei numeri siano verità immateriali, eterne e dipendenti da una prima verità, nella quale sussistono, e che si chiama Dio, non lo reputerei molto avanti per la sua salute.
Il Dio dei cristiani non consiste in un Dio semplicemente autore delle verità geometriche e dell'ordine degli elementi: è la concezione dei pagani e degli epicurei. Non consiste solamente in un Dio che eserciti la sua provvidenza sulla vita e sui beni degli uomini: è la concezione degli ebrei. Ma il Dio di Abramo, il Dio d'Isacco, il Dio di Giacobbe, il Dio dei cristiani è un Dio d'amore e di consolazione; è un Dio che riempie l'anima e il cuore di coloro che possiede; è un Dio che fa loro sentire interiormente la loro miseria e la sua misericordia infinita; che si unisce al fondo della loro anima; che la riempie di umiltà, di gioia, di confidenza, e d'amore; che li rende incapaci d'altro fine che non sia lui.

Biagio Pascal, Antologia filosofica, editrice La Scuola, 1988, p. 197 – 198

Tutta la psicologia di Pascal tende a Dio e a Gesù. L'ordinamento del mondo, per Pascal, è un ordinamento voluto da Dio. E l'uomo può conoscere Dio solo se riconosce la propria miseria, ma l'uomo non può riconoscere la propria miseria se non vivendo nella miseria che gli consentirebbe di conoscere Dio.

La miseria diventa l'elemento centrale nell'ideologia pascaliana. Solo la miseria umana, la miseria indotta dal peccato che socialmente diventa la miseria sociale, permette all'uomo di conoscere Dio e con Dio poter compartecipare al dolore di Gesù, conoscendolo.

La malattia in cui Pascal vive è la sua miseria emotiva. Una miseria che lo imprigiona in un desiderio di Dio e di Gesù che "venendo sulle nubi con grande potenza" lo possa liberare del dolore che gli provoca la miseria nella quale vive.

Pascal attribuisce l'ostinazione agli atei, ma non attribuisce l'ostinazione della credenza nell'assurdo a sé stesso. Il sé stesso malato chiede di essere riconosciuto come il santo, colui che parla a nome di Dio e che condanna gli atei che non colgono nelle sue parole la presenza di Dio. C'è dell'ironia in tutto questo. Un uomo malato che chiede ai non malati di considerarlo sano e di adeguarsi alla sua stessa malattia.

E qui siamo davanti all'invenzione pascaliana che entrerà prepotentemente nella filosofia: il Dio cristiano è un Dio d'amore. Il Dio che si vanta di aver macellato l'umanità col diluvio universale, che si qualifica per il genocidio di Sodoma e Gomorra, per la malattia di Pascal, diventa un "Dio d'amore". Se questo è "amore", per favore, cambiamo Dio.

Diventa il dio della consolazione. Un Dio che ha bisogno di ridurre gli uomini alla miseria e alla sofferenza per poterli consolare. Un Dio che possiede gli uomini come del bestiame e che ama il suo bestiame che costringe alla sofferenza. In questo c'è tutta la malattia di Pascal che parla.

E alla fine, per Pascal, dov'è l'esistenza dell'uomo? L'esistenza dell'uomo si risolve nel padrone Dio che non porta l'uomo fuori dalla miseria esistenziale, ma lo mantiene nella miseria esistenziale colmando però la sua "anima" di umiltà, di gioia, di confidenza, e d'amore rendendoli incapaci di vivere per sé stessi in quanto dipendono da un Dio che li porta alla distruzione.

Scrive Pascal:

Tutti coloro che cercano Dio fuori di Gesù Cristo e che si fermano alla natura, o non trovano lume che li soddisfi o giungono a trovare un modo di conoscere Dio e di servirlo senza mediatore, e quindi cadono o nell'ateismo o nel deismo, due cose che la religione cristiana aborrisce quasi ugualmente.
Senza Gesù Cristo il mondo non sussisterebbe, perché bisognerebbe o che fosse distrutto o che fosse un inferno.
Se il mondo sussistesse per istruire l'uomo su Dio, la sua divinità ne rifulgerebbe da tutte le parti in modo incontestabile; ma poiché non sussiste che mediante Gesù Cristo e per Gesù Cristo e per istruire gli uomini sia della loro corruzione sia della loro redenzione, tutto in esso risplende delle prove di quelle due verità.
Ciò che si vede non indica né un'esclusione totale, né una presenza manifesta della divinità, ma la presenza di un Dio che si nasconde. Tutto mostra tale carattere.
Il solo che conosca la natura non la conoscerebbe che per essere miserabile? Il solo che la conosca sarà l'unico infelice?
Non bisogna che non veda niente affatto; non bisogna neanche che veda tanto da credere di possederlo, ma che veda tanto da sapere che l'ha perduto; giacché per sapere d'aver perduto bisogna vedere e non vedere; e tale è appunto lo stato in cui si trova la natura.

Biagio Pascal, Antologia filosofica, editrice La Scuola, 1988, p. 198 – 199

La missione di Gesù cristo è, secondo Pascal, quella di istruire gli uomini sulla loro corruzione e sulla loro redenzione. Pascal vede il carattere della corruzione dell'uomo e la salvezza in Gesù Cristo. Non può vedere altro mentre proietta lo stato psicologico della propria malattia sul mondo. Pascal soffre perché è normale soffrire. Tutto il mondo soffre allo stesso modo di Pascal e soffre per il suo peccato per il quale Dio si è nascosto all'uomo e Gesù Cristo pretende di redimere l'uomo.

Pascal è redento. Nella sua sofferenza Pascal incontra Gesù Cristo che lo redime dei suoi peccati così la sofferenza di Pascal rende Pascal uguale a Gesù Cristo. Lui è Gesù Cristo che soffre per redimere i peccati degli uomini. Se affermi che Gesù è un poveraccio che nell'impotenza di vivere pretende di rendere gli uomini impotenti di vivere, stai dicendo che Pascal è un individuo impotente che pretende di rendere impotenti gli uomini nella loro vita.

E ancora scrive Pascal:

133. Avendo fatto il cielo e la terra, che non sentono la felicità del loro essere, Dio ha voluto fare degli esseri, che la conoscessero e formassero un corpo di membra pensanti. Infatti, le nostre membra non sentono la felicità della loro unione, della loro mirabile intelligenza, della cura che ha la natura d'infondere in esse lo spirito e di farle crescere e durare. Come sarebbero felici, se la sentissero, se la vedessero! Ma dovrebbero, perciò, avere intelligenza per conoscerla e buona volontà per acconsentire a quella dell'anima universale. Se, avendo ricevuto l'intelligenza, se ne servissero per trattenere in sé il cibo, senza lasciarlo passare nelle altre membra, non solo sarebbero ingiuste, ma anche miserabili, e più che amarsi, si odierebbero, consistendo sia la loro beatitudine, sia il loro dovere nell'acconsentire alla condotta dell'anima intera, a cui appartengono, e che li ama più che non s'amino loro stesse.

Biagio Pascal, Antologia filosofica, editrice La Scuola, 1988, p. 257

Ecco che Pascal ci dice che cosa Dio voleva fare e perché lo voleva fare. Non sta parlando Dio, sta parlando Pascal che proietta i suoi pensieri nel mondo come se questi fossero i pensieri di Dio. Dio non è nascosto, Dio è Pascal che parla e che ci racconta le intenzioni di Dio.

Le membra umane devono essere grate a Dio e alla Natura che le ha fatte per durare. Ma chi ha fatto le membra? Se osserviamo, osserviamo le membra assemblate in un certo modo, non osserviamo un artefice di membra. Le membra sono un oggetto che ricade sotto i nostri sensi mentre l'artefice, e con lui le ragioni dell'artefice, sono il prodotto di una fantasia che necessita di delirare di onnipotenza nell'affermare sé stessa come realtà che definisce il mondo.

Se le membra avessero l'intelligenza e se ne servissero per danneggiare il corpo, non danneggerebbero anche le membra stesse? Che gli uomini delle società umane danneggiano le società umane, questo è dovuto agli insegnamenti di Gesù Cristo che ha voluto separare l'uomo dal mondo per renderlo un oggetto che possiede o una pecora del gregge che possiede. L'intelligenza non progetta il male, progetta sé stessa in un mondo in cui un infinito numero di intelligenze progettano. Infatti, oggi sappiamo che ogni singola cellula del nostro corpo ha la sua intelligenza che la rende capace di adattare sé stessa alle sollecitazioni del mondo.

Pascal procede in questa illogicità quando dice:

134. Se i piedi e le mani avessero una volontà particolare non troverebbero il loro ordine, se non sottomettendo quella volontà particolare alla volontà prima, che governa l'intiero corpo. Fuori di ciò, sono nel disordine e nell'infelicità; ma non volendo che il bene del corpo, fanno il loro proprio bene.

Biagio Pascal, Antologia filosofica, editrice La Scuola, 1988, p. 258

Proprio perché le mani e i piedi hanno una loro intelligenza agiscono intelligentemente. L'intelligenza è vivere, adattarsi alle sollecitazioni del mondo, trasformarsi, divenire cosa questa che non può essere fatta da nessun artefice. Mani e piedi hanno la loro volontà. Proprio perché hanno una loro volontà agiscono nel mondo per ciò che essi sono divenuti. La volontà del loro divenire non è stata sottomessa a Dio, non deve obbedire ad una morale imposta. Obbedisce solo alle loro singole esigenze e agiscono in base ai propri desideri.

Scrive Pascal:

135. La vera ed unica virtù è dunque di odiarsi, perché si è odiosi, per la propria concupiscenza, e di cercare un essere veramente amabile per amarlo. Ma siccome non possiamo amare ciò che è fuori di noi, bisogna amare un essere, che sia in noi, senza essere noi. E ciò è vero per ciascun uomo. Ora non c'è che l'essere universale, che sia tale. Il regno di Dio è in noi. Il bene universale è in noi, è noi stessi e non è noi stessi..

Biagio Pascal, Antologia filosofica, editrice La Scuola, 1988, p. 258

La "propria concupiscenza" è il nemico di Pascal. Uno dei segni del peccato originale dal quale Pascal ha voluto fuggire finendo per ammalarsi e passare tutta la sua breve vita nel dolore. L'amore senza desiderio che chiede di essere soddisfatto non è amore, è solo odio indotto dall'assenza di desiderio nel mondo. In questa malattia Pascal alimenta l'esistenza del suo "essere universale". Il trionfo della sua malattia che possa dominare l'intero genere umano.

Scrive Pascal:

136. Le condizioni più facili da vivere secondo il mondo sono le più difficili da vivere secondo Dio; e al contrario. Niente è tanto difficile, secondo il mondo, quanto la vita religiosa; niente è più facile che trascorrerla, secondo Dio. Niente è più facile che avere una gran carica e grandi beni, secondo il mondo; niente è più difficile che viverci, secondo Dio, senza prenderei parte e gusto.

Biagio Pascal, Antologia filosofica, editrice La Scuola, 1988, p. 258

Le imposizioni morali e comportamentali imposte dal cristianesimo agli uomini sono condizioni criminali che attentano allo sviluppo della vita e distruggono la libertà dell'uomo nella società e nella propria intimità. Distruggere la propria vita, annientare i propri desideri, distruggere ogni possibilità soggettiva di costruire il proprio futuro in funzione della gloria di un Dio che si nutre dei sacrifici e delle sofferenze che impone agli uomini con la promessa di una salvezza nel futuro è contro la vita stessa.

Il cristianesimo impone il piacere del padrone che impone sofferenza. Costringe le persone a vivere quella sofferenza con il piacere di soffrire perché la loro sofferenza compiace Dio. Se le persone malate e sofferenti possono trovare una consolazione nella futura promessa di un benessere garantito da Dio, la capillarità con cui la chiesa cattolica costruisce la miseria e la sofferenza costituisce un atto criminale sia nei confronti del singolo individuo che nei confronti dell'intero sistema sociale.

Scrive Pascal:

137. Ciò che ci svia nel paragonare ciò che è accaduto nella Chiesa in altri tempi a ciò che si vede adesso è che di solito si considerano sant'Atanasio, santa Teresa e gli altri come coronati di gloria e di anni, giudicati al disopra di noi, come dèi. Ora che il tempo ha chiarito le cose sembra così, ma al tempo in cui lo perseguitavano, quel gran santo era un uomo che si chiamava Atanasio e santa Teresa una fanciulla. Elia era un uomo come noi e soggetto alle nostre stesse passioni, dice San Pietro, per togliere dalla mente ai cristiani la falsa idea, che ci fa respingere l'esempio dei santi come sproporzionato al nostro stato. Erano dei santi, diciamo, non è come per noi. Che cosa accadeva, dunque, allora? Sant' Atanasio, era un uomo chiamato Atanasio, accusato di parecchi delitti, condannato nel tal concilio, per il tal delitto. Tutti i vescovi son d'accordo su ciò e alla fine anche il papa. Che cosa dicono a quelli che si oppongono? Che turbano la pace, che fanno scisma ecc. Quattro sorte di persone, zelo senza scienza, scienza senza zelo, né scienza né zelo, e zelo e scienza. Le prime tre lo condannano, gli ultimi lo assolvono e sono scomunicati dalla Chiesa, e salvano tuttavia la Chiesa. Zelo, luce.

Biagio Pascal, Antologia filosofica, editrice La Scuola, 1988, p. 258 – 259

Atanasio, chi era costui? Uno dei terroristi assassini di Alessandria d'Egitto. Omicidi, guerre, stupri, violenze erano le attività di Attanasio. Con tali attività edificò la chiesa cattolica di Alessandria d'Egitto. Morì nel 373.

A Pascal piacciono gli assassini purché siano assassini per la gloria di Dio. Per la gloria della sua malattia che, gestendo le sue emozioni represse, alimenta un'esistenza di negazione della concupiscenza identificandosi con Dio e con "l'amore di Dio" che ricompenserebbe il dolore delle privazioni.

Per Pascal è necessario uccidere gli uomini, come fece Attanasio, per promuovere la fede perché gli uomini che non si mettono in ginocchio davanti alla malattia di Pascal sono peccatori che devono essere redenti.

In questo pensiero si è voluto fare un parallelismo fra la condizione di Attanasio, che andava processato per delitto, e la situazione di Port-Royal i cui membri erano accusati di essere dei "cripto-calvinisti" dai gesuiti. In questo modo, secondo alcuni, Pascal traccia un parallelismo fra l'attività criminale di Attanasio e l'attività dei giansenisti di Port-Royal che, dichiarati eretici, sono in realtà coloro che "salvano" la chiesa cristiana dal fallimento davanti alle tesi filosofiche dei libertini.

L'accostamento con un criminale come Attanasio serve a Pascal per legittimare il diritto di omicidio della chiesa cattolica per imporre la fede agli uomini che "vanno salvati dal peccato".

Scrive Pascal:

138 Siccome le due sorgenti dei nostri peccati sono l'orgoglio e l'accidia, Dio ci ha mostrato in sé due qualità per guarirle: la sua misericordia e la sua giustizia. E' proprio della giustizia di abbattere l'orgoglio, per sante che siano le opere, et non intres in iudicium ecc. e della misericordia di combattere l'accidia, invitando alle buone opere, secondo il passo seguente: «La misericordia di Dio invita a penitenza», e quest'altro dei niniviti: «Facciamo penitenza per vedere se mai abbia pietà di noi». Quindi, lungi dall'autorizzare la rilassatezza, la misericordia è la qualità che la combatte formalmente. Sicché, anziché dire: se non ci fosse misericordia in Dio, bisognerebbe fare ogni sorta di sforzi per la virtù, bisogna dire, al contrario, che proprio perché c'è in Dio misericordia, bisogna fare ogni sorta di sforzi.

Biagio Pascal, Antologia filosofica, editrice La Scuola, 1988, p. 259 – 260

Se ci sono due peccati da attribuire a Dio, qualora il Dio dei cristiani esistesse, sarebbero proprio l'orgoglio e l'accidia. L'orgoglio in quanto si pensa il padrone degli uomini e l'accidia per tutta l'ignavia che ha dimostrato facendo della diffusione della miseria il male che affligge l'umanità.

Avere gli occhi, con cui Pascal legge la bibbia, per identificarsi col diritto del Dio della bibbia di violentare gli uomini che non si sottomettono a lui, e non vedere il dolore degli uomini uccisi da Dio, significa comprendere il delirio della malattia che attraversa Pascal.

Scrive Pascal:

140. Che distanza fra la conoscenza di Dio e amarlo!
141. Se avessi visto un miracolo, dicono, mi convertirei. Come fanno ad assicurare ciò che ignorano? Pensano che la conversione consista in un'adorazione di Dio e che si faccia come un commercio, una conversazione quale essi se l'immaginano. La vera conversione consiste nell'annientarsi davanti all'essere universale, che abbiamo irritato tante volte, e che può perderci legittimamente in ogni momento, nel riconoscere che non si può niente senza di lui e non s'è meritato da lui nient'altro che la propria disgrazia. Essa consiste nel riconoscere che c'è un'opposizione invincibile fra Dio e noi e che senza un mediatore non ci può essere commercio.

Biagio Pascal, Antologia filosofica, editrice La Scuola, 1988, p. 263

La distanza fra la conoscenza di Dio e amarlo è costituita dalla malattia mentale che annullando il mondo in cui viviamo, chiude l'individuo in sé stesso costringendolo ad immaginare un assoluto col quale identificarsi. Pascal non ama Dio, ama sé stesso e nella sua sofferenza chiama il sé stesso che ama Dio.

Infatti, in Pascal non c'è conoscenza di Dio, ma c'è conoscenza del dolore che Pascal sta vivendo. Quel dolore costringe Pascal a rinunciare alla vita. Costringe Pascal a rinchiudersi in sé stesso e nel suo sé stesso Pascal trova la sua onnipotenza che chiama Dio.

E Dio parla a Pascal. Gli parla del suo dolore e di come Dio si compiace della sua sofferenza che rappresenta l'espressione di amore di Pascal per Dio. E sorge l'idea in Pascal. Sorge l'idea di come definire il suo amore per Dio. Il suo annientamento non è l'atto di chi rinuncia alla vita perché incapace di affrontare i problemi che la vita presenta, ma è un atto di amore per Dio. Pascal si annienta per la gloria di Dio.

La disgrazia di Pascal è stata meritata da Pascal che ha irritato Dio. Pascal riconosce il diritto di Dio di inviargli ogni disgrazia, legittimamente e in ogni momento.

Fintanto che la questione rimane conchiusa fra Dio e Pascal, sono affari che riguardano Pascal. Solo che la questione non è circoscritta con Pascal, i cristiani producono miseria nel mondo asserendo che Dio punisce i peccatori nel mondo mentre sono solo i cristiani che dalla miseria imposta agli uomini traggono profitto. Di questo delitto Pascal si è assunto la responsabilità filosofica e teologica.

Scrive Pascal:

142. Le profezie, gli stessi miracoli e le prove della nostra religione non sono di tal natura da potersi dire che siano assolutamente convincenti, ma sono anche di tal sorta da non potersi dire che sia senza ragione crederli. C'è dunque dell'evidenza e dell'oscurità, per illuminare gli uni e oscurare gli altri, ma l'evidenza è tale da superare o almeno uguagliare l'evidenza del contrario, sicché ciò che può determinare a non seguirla non è la ragione, e perciò non può essere che la concupiscenza e la malizia del cuore. E in tal modo c'è abbastanza evidenza per condannare, e non abbastanza per convincere, affinché sia chiaro che, in coloro che la seguono, non la ragione la fa seguire, ma la grazia, e in coloro che la sfuggono, non la ragione, ma la concupiscenza la fa sfuggire.

Biagio Pascal, Antologia filosofica, editrice La Scuola, 1988, p. 263

Lo sporco gioco del dubbio! E' uno sporco gioco che la malattia di Pascal usa per legittimare sé stessa. Quando il delirio partorisce un'immagine, questa appartiene al delirante. Quando il delirante pretende di oggettivare il proprio delirio, o questo è utile alla collettività oppure i contenuti devono essere dimostrati con dei dati di realtà.

Se io dico che la montagna mi può cadere sulla testa, non devo dimostrare questa possibilità, ma nella mia ricerca cerco di trovare le ragioni per le quali la montagna non mi cadrà sulla testa. Quando Pascal dice che Dio esiste, non mi manifesta le ragioni dell'esistenza di Dio e nemmeno mi dimostra che il possesso dell'uomo da parte di Dio sia una cosa utile all'uomo. La sua dimostrazione è chiusa nella dimensione di Pascal, nel suo delirio. Un delirio che non rappresenta la necessità del mondo, ma solo la necessità di Pascal.

Con Pascal non parliamo di filosofia, ma di malattia psichiatrica. Della sua malattia psichiatrica che viene usata dai cristiani per diffondere la malattia psichiatrica fra gli uomini.

Cosa condanna della mia vita Pascal? Condanna la vita stessa condannando la concupiscenza che permette alla vita di riprodurre sé stessa e condanna le mie strategie esistenziali, la mia capacità di progettare la mia esistenza nelle condizioni in cui sono nato che Pascal chiama "la malizia del cuore".

Pascal è un nemico della vita. Un agente feroce pronto ad azzannare qualunque persona che tenti di vivere per sé stessa.

Scrive Pascal:

146. Non ci si allontana che allontanandosi dalla carità. Le nostre preghiere e le nostre virtù sono abominevoli davanti a Dio, se non sono le preghiere e le virtù di Gesù Cristo. E i nostri peccati non saranno mai oggetto della giustizia di Dio, se essi non sono Gesù Cristo. Egli ha adottato i nostri peccati e ci ha (ammessi alla sua) alleanza, perché le virtù gli sono proprie e i peccati stranieri, e le virtù (ci sono) straniere e i nostri peccati ci sono propri ( ... )
147. Non meravigliatevi di vedere delle persone semplici credere senza ragionamento. Dio dà loro l'amore per lui e l'odio per loro stessi. Egli inclina il loro cuore a credere. Non si crederà mai utilmente e per fede, se Dio non inclina il cuore; e si crederà, tosto che l'avrà inclinato. Davide lo sapeva bene: Inclina cor meum Deus in ecc. 9.
148. Coloro che credono senza aver letto i testamenti è perché hanno una disposizione interiore interamente santa, e ciò che sentono dire dalla nostra religione le è conforme. Essi sentono che un Dio li ha fatti. Non vogliono amare che Dio, non vogliono odiare che sé stessi. Sentono che da soli non ne hanno la forza, che sono incapaci di andare a Dio, e che se Dio non viene a loro, sono incapaci di qualunque comunicazione con lui; e sentono dire nella nostra religione che non bisogna amare che Dio e non odiare che sé stessi, ma che essendo tutti corrotti e incapaci di Dio, Dio s'è fatto uomo per unirsi a noi. Non occorre di più per persuadere degli uomini che abbiano quella disposizione nel cuore e quella conoscenza del loro dovere e della loro incapacità.

Biagio Pascal, Antologia filosofica, editrice La Scuola, 1988, p. 265 – 266

E concludiamo la nostra breve visione del delirio pascaliano. Che cos'è la carità? E' l'azione di bontà del padrone per i pezzenti. Il gettar loro le briciole dopo aver rubato loro la vita, l'intera esistenza. Questo è in concetto di carità cristiano che è usato in sostituzione del concetto di solidarietà fra gli uomini e di mutuo soccorso.

E' Dio che odia gli uomini, ma non può rinunciare al bestiame umano per la propria sopravvivenza. Un Dio che mantiene gli uomini nella miseria e, per costringerli alla miseria, non riconosce il loro diritto di essere uomini, ma elargisce la sua elemosina, la carità: il disprezzo di Dio per gli uomini.

Pascal, il sofferente, gradisce questa elemosina e vorrebbe che tutti gli uomini siano ridotti in miseria affinché possano apprezzare le briciole che il suo padrone, secondo Pascal, darebbe loro.

Le vite degli uomini sono abominevoli per il Dio dei cristiani. Solo Gesù Cristo è "amato" da Dio e Gesù Cristo ha adottato i feroci peccati che Pascal ha commesso garantendo a Pascal che Dio sarebbe stato "generoso" nei suoi confronti.

Cosa dà il Dio dei cristiani alle "persone semplici"? Fa in modo che si odino, che odino loro stessi, il loro padre, la loro madre, i loro figli, ma che amino Dio. Ha ucciso l'esistenza delle persone semplici e le ha violentate affinché facciano dipendere la loro vita dall'idea di Dio.

Non è vero, come dice Pascal, che le persone credono perché hanno un'inclinazione a credere. Le persone credono nel Dio dei cristiani e in Gesù Cristo perché sono state violentate nella loro psiche, nella loro struttura emotiva. Sono state private della possibilità di usare gli strumenti che ha fornito loro la loro specie per renderle persone incapaci di vivere, bisognose di un gregge entro cui cercare sicurezza mentre cercano la benevolenza del pastore anche se sanno che quel pastore le condurrà al macello della loro vita.

 

Marghera, 23 marzo 2019

 

 

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