Arthur Schopenhauer

Le biografie dei giocatori - trentaquattresima biografia

Capitolo 117

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Claudio Simeoni

 

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La biografia di Arthur Schopenhauer

 

Arthur Schopenhauer nasce a Danzica il 22 febbraio 1788 e morirà a Francoforte sul Meno il 21 settembre 1860.

Il padre, Heinrich Floris Schopenhauer, era un ricco mercante di origine ebrea che ha educato Arthur nella mentalità mercantile in modo tanto insistente che tutta la lettura della futura filosofia di Arthur Schopenhauer è caratterizzata dall'impronta ideologica del mercante: il soggetto, Dio, che compra e vende come ente separato dalle sue prede; i clienti, da cui compra e vende che devono essere poveri e aver bisogno delle merci offerte dal commerciante. Questa impostazione ideologica è la caratteristica della filosofia di Schopenhauer dove la stessa separazione fra sé e Dio non è la separazione del filosofo (come Kant ad esempio) disilluso davanti alle prove filosofiche dell'esistenza di Dio, ma è quella del commerciante che non può ammettere nessun ente esterno che possa condizionare le sue scelte commerciali. Il pessimismo di Schopenhauer è la condizione psicologica dell'incertezza che vive il commerciante di essere preda di chi gli fornisce le merci o di essere abbandonato dalle sue prede, i clienti, che possono scegliere altri commercianti e privarlo dei guadagni.

La madre di Arthur Schopenhauer, Johanna Trosiner, fu un personaggio particolare nella sua epoca. Donna attiva e intraprendente nata a Danzica nel 1766 in una famiglia di ricchi mercanti di origine olandese. Si sposa con Heinrich Floris Schopenhauer a 18 anni, anche lui ricco commerciante ebreo, 20 anni più anziano di lei. Dalla relazione nascono due figli, Arthur e Louise Adelaide, soprannominata Adele.

Mentre Heinrich Floris preme affinché Arthur segua le sue orme nelle tradizioni commerciali di famiglia, la madre Johanna Trosiner coltiva la sua passione letteraria.

Nel 1793 Danzica venne incorporata nel regno di Prussia, perse la sua funzione di porto principale della Polonia e iniziò un periodo di decadimento economico. Arthur ha 15 anni, la famiglia Schopenhauer si trasferisce da Danzica ad Amburgo. Ad Amburgo la famiglia Schopenhauer, di alto rango sociale, intrattiene rapporti letterari con varie personalità fra le quali alcuni illuministi.

Fra il 1797 e il 1799 Arthur Schopenhauer segue il padre in un viaggio in Francia e si ferma per due mesi a Le Havre dove studia la lingua francese.

Nel 1799 ad Amburgo frequenta l'istituto Runge per gli studi commerciali necessari per affiancare il padre nella sua attività.

Nel 1800 accompagna in estate i genitori a Weimar, dove conosce Schiller, e continuare per Praga, Berlino e Lipsia.

Fra il 1803 e il 1804 quando Arthur Schopenhauer dice al padre che vorrebbe intraprendere una carriera letteraria, il padre, per convincerlo a desistere, gli propone un lungo viaggio in giro per l'Europa assieme ai genitori: Olanda, Inghilterra, Francia, Svizzera, Austria, e Germania. In questo modo Heinrich Floris Schopenhauer ottiene dal figlio la promessa che avrebbe continuato nell'attività commerciale.

Nel 1805 Arthur Schopenhauer entra nella compagnia commerciale del senatore di Amburgo Jenisch per imparare la professione di mercante. Quello stesso anno Heinrich Floris Schopenhauer, a cinquantotto anni, si suicida. Non sono chiari i motivi del suicidio, ma come commerciante fu sicuramente sopraffatto dalla paura del fallimento. Accumulare denaro è l'unico scopo esistenziale del commerciante che, non avendo altri interessi nella propria esistenza, vive con assoluta angoscia le alterne fortune della sua professione.

Scrive Schopenhauer:

«a diciassette anni, digiuno di qualsiasi istruzione scolastica di alto livello, fui turbato dallo strazio della vita proprio come Buddha in gioventù, allorché prese coscienza della malattia, della vecchiaia, del dolore, della morte. La verità, che mi parlava in modo così chiaro e manifesto del mondo, presto ebbe la meglio sui dogmi giudaici che erano stati inculcati anche in me, e ne conclusi che un mondo siffatto non poteva essere l'opera di un essere infinitamente buono, bensì di un demonio, che aveva dato vita alle creature per deliziarsi alla vista dei loro tormenti».

Tratto dall'articolo di La Repubblica del 27 maggio 2007 di Franco Marcoaldi "Schopenhauer incontrò Budda" che presenta il libro di Schopenhauer "Il mio oriente" curato da Giovanni Gurisatti edito da Adelphi.

Questa, secondo Schopenhauer, è l'origine del suo pessimismo. Un pessimismo che gli servirà per nascondersi agli occhi del mondo per tutta la vita.

Alla morte del marito, Johanna Trosiner si trasferisce da Amburgo a Weimar dove intende coltivare i suoi interessi letterari. In quel momento scoppia la guerra franco-prussiana e Napoleone entra in Germania. Johanna Trosiner coglie l'occasione mettendo la sua casa a disposizione dei funzionari tedeschi, accoglie alcuni nobili e notabili della città le cui case sono state requisite dai soldati francesi. Fece anche la volontaria per curare i soldati tedeschi feriti. Così, alla fine del conflitto, era una donna molto famosa e rispettata in città. Il piano per conquistare l'"intelligenza" letteraria di Weimar messo a punto da Johanna Trosiner era andato a buon fine. Il suo salotto divenne un salotto famosissimo e ambito da quando Johanna Trosiner, della classe alta e potente di Weimar, introdusse nel suo salotto Christiane Vulpius moglie di Goethe, prima sua amante, che, considerata di classe inferiore, era emarginata dall'alta borghesia cittadina. Goethe inizia a frequentare assiduamente il salotto di Johanna Trosiner e più cresce l'importanza di Goethe, più cresce l'importanza del salotto di Johanna Trosiner. Il salotto è frequentato da Christoph Martin Wieland, i fratelli Schlegel August e Friedrich , e Tieck.

Nel 1807 Arthur Schopenhauer inizia gli studi classici a Gotha con Friedrich Jacobs e Friedrich W. Doering. Non rimane molto a Gotha perché con le sue satire avvelena l'ambiente che gli diventa ostile. Per questo subito dopo va a Weimar, dove però la madre non accetta e di accoglierlo e lui va a vivere da Passow, un grecista. Sciolta la promessa che Arthur Schopenhauer ha fatto a suo padre, si immerge negli studi classici e, sfruttando il successo della madre a Weimar, viene da questa introdotto nell'ambiente filosofico e letterario della città dove conosce Wieland e Goethe.

Nel frattempo fa la vita del ricco. Teatro, feste, concerti e intrattiene rapporti con un'attrice, Karoline Jagemann, di cui si innamora. Al compimento del 21esimo anno d'età riceve la sua parte di eredità, 19.000 talleri

Nel 1809 Arthur Schopenhauer entra nella facoltà di medicina di Gottinga. Non rimane molto, abbastanza per crearsi la convinzione che seguendo un certo regime di vita diventa quasi immortale. Subito dopo si trasferisce alla facoltà di filosofia e segue le lezioni di Gottlob Ernst Schulze e inizia a studiare Kant e Platone che saranno fondamentali nella formazione del suo pensiero filosofico.

Nel 1811 inizia la carriera filosofica di Schopenhauer che si trasferisce alla facoltà filosofica berlinese per seguire le lezioni di Fichte. Ma Fichte, l'uomo che chiamò alla guerra e alla resistenza contro Napoleone, non soddisfa Schopenhauer che si vede frustrato nella sua ideologia pessimistica. E' il primo gesto del filosofo che inizia a separare il proprio pensiero dall'ambiente filosofico cercando una propria identità.

Nel 1812 Schopenhauer segue le lezioni di Schleiermacher. Contesterà anche l'idea di Schleiermacher sulla relazione fra religione e filosofia affermando che la filosofia non necessita della religione. Affermazione ambigua fatta da chi attinge dalle religioni orientali per le proprie affermazioni.

Mentre la guerra napoleonica si avvicina, nel 1813 Schopenhauer se ne va da Berlino a Rudolfstadt, vicino a Jena, per preparare la sua tesi. Nell'ottobre del 1813, l'università di Jena concede la laurea ad Arthur Schopenhauer "in absentia". Tornato a Weimar intrattiene una relazione con Goethe che gli spiega la sua teoria sui colori.

Nel 1814 Schopenhauer conosce Weimar l'orientalista Frederich Majer che gli insegna le filosofie orientali. In quello stesso anno avviene la rottura definitiva con la madre e se ne andrà da Weimar per prendere residenza a Dresda. Rimarrà a Dresda fino al 1818 lavorando alla stesura de "Il mondo come volontà e rappresentazione".

Nel 1816 Schopenhauer pubblica "Riguardo agli occhi e ai colori".

Nel dicembre del 1818, l'editore Brockaus di Lipsia pubblica "Il mondo come volontà e rappresentazione". Sulla prima edizione appare la data del 1819. L'opera, invenduta, finirà al macero.

Scrive Arthur Schopenhauer in "Il mondo come volontà e rappresentazione":

«Il mondo è mia rappresentazione»: - questa è una verità che vale in rapporto a ciascun essere vivente e conoscente, sebbene l'uomo soltanto sia capace d'accoglierla nella riflessa, astratta coscienza: e s'egli veramente fa questo, con ciò è penetrata in lui la meditazione filosofica. Per lui diventa allora chiaro e ben certo, ch'egli non conosce né il sole né la terra, ma appena un occhio, il quale vede un sole, una mano, la quale sente una terra; che il mondo da cui è circondato non esiste se non come rappresentazione, vale a dire sempre e dappertutto in rapporto ad un altro, a colui che rappresenta, il quale è lui stesso. Se mai una verità può venire enunciata a priori è appunto questa: essendo l'espressione di quella forma d'ogni possibile e immaginabile esperienza, la quale è più universale che tutte le altre forme, più che tempo, spazio e causalità; poi che tutte queste presuppongono appunto quella. E se ciascuna di tali forme, che noi abbiamo tutte riconosciute come altrettante determinazioni particolari del principio della ragione, ha valore solo per una speciale classe di rappresentazioni, la divisione in oggetto e soggetto è invece forma comune di tutte quelle classi: è la forma unica in cui qualsivoglia rappresentazione, di qualsiasi specie, astratta o intuitiva, pura o empirica, è possibile ed immaginabile. Nessuna verità è adunque più certa, più indipendente da ogni altra, nessuna ha minor bisogno d'esser provata, di questa: che tutto ciò che esiste per la conoscenza, - adunque questo mondo intero, - è solamente oggetto in rapporto al soggetto, intuizione di chi intuisce; in una parola, rappresentazione. Naturalmente questo vale, come per il presente, così per qualsiasi passato e qualsiasi futuro, per ciò che è lontanissimo come per ciò che è vicino: imperocché vale fin anche per il tempo e lo spazio, dentro i quali tutto viene distinto. Tutto quanto è compreso e può esser compreso nel mondo, deve inevitabilmente aver per condizione il soggetto, ed esiste solo per il soggetto. Il mondo è rappresentazione.
Questa verità è tutt'altro che nuova. Ella era già nella concezione degli scettici, donde mosse Cartesio. Ma Berkeley fu il primo ad esprimerla risolutamente, e si acquistò così un merito immortale verso la filosofia, quantunque il resto delle sue dottrine non possa reggere. Il primo errore di Kant fu la negligenza di questo principio, come verrà esposto nell'appendice. Quanto remotamente invece tal fondamentale verità fosse riconosciuta dai saggi indiani, apparendo come base della filosofia Vedanta attribuita a Vyasa, ci attesta W., Jones, nell'ultima sua memoria On the pbilosopby of the Asiatics; « Asiatic Researches », voI. IV, p. 164: «the fundamental tenet of the Vedanta school consisted not in denying the existence of matter, that is of solidity, impenetrability, and extended figure (to deny which would be lunacy), but in correcting the popular notion of it, and in contending that it has no essence independent of mental perception; that existence and perceptibility are convertible terms» («Il dogma fondamentale della scuola Vedanta non consisteva nel negare l'esistenza della materia, cioè della solidità, impenetrabilità ed estensione (ciò che sarebbe stolto negare), bensì nel correggere il concetto volgare di quella: affermando che la materia non ha un'esistenza indipendente dalla percezione mentale, che esistenza e percettibilità sono termini a vicenda convertibili.»).
Queste parole esprimono sufficientemente la coesistenza della realtà empirica con l'idealità trascendentale. Dunque solo dal punto di vista indicato, solo in quanto è rappresentazione, noi consideriamo il mondo in questo primo libro. Che nondimeno questa considerazione, malgrado la sua verità, sia unilaterale, e quindi ottenuta mediante un'astrazione arbitraria, è fatto palese a ciascuno dall'intima riluttanza ch'ei prova a concepire il mondo soltanto come sua pura rappresentazione; al quale concetto d'altra parte non può mai e poi mai sottrarsi. Ma l'unilateralità di questa considerazione verrà integrata nel libro seguente con un'altra verità, la quale non è di certo così immediata come quella da cui qui muoviamo; bensì tale che vi si può esser condotti solo da più profonda indagine, più difficile astrazione, separazione del diverso e riunione dell'identico - una verità che deve apparire molto grave e per ognuno, se non proprio paurosa, almeno meritevole di riflessione: ossia questa, che egli appunto può dire e deve dire: «il mondo è la mia volontà ».
Ma per ora, in questo primo libro, è necessario considerare, senz'allontanarsene, quell'aspetto del mondo da cui prendiamo le mosse - l'aspetto della conoscibilità - e perciò, lasciando ogni riluttanza, esaminare tutti gli oggetti esistenti, compreso perfino il nostro corpo (come sarà spiegato meglio ben presto), esclusivamente quali rappresentazioni; e quali pure rappresentazioni definire. In tal modo si viene a fare astrazione, unicamente e sempre, dalla volontà, secondo più tardi sarà per apparire evidente, spero, a tutti; come da quella che da sola costituisce l'altro aspetto del mondo: perché come il mondo è da un lato, in tutto e per tutto, rappresentazione, così è, dall'altro, in tutto e per tutto, volontà. Una realtà invece che non sia né questa né quella, ma sia bensì un oggetto in sé (com'è pur troppo divenuta la cosa in sé di Kant degenerando nelle sue mani) è una chimera di sogno, e la sua assunzione un fuoco fatuo della filosofia.

Schopenhauer, "Il mondo come rappresentazione e volontà", Laterza, 1986, p. 29 – 31

Per Schopenhauer il mondo è una rappresentazione che il soggetto fa a sé stesso della realtà in cui vive.

Il concetto filosofico da cui parte Schopenhauer è contrario al "mondo come oggettività percepito in quanto tale dal soggetto". L'uomo di Schopenhauer viene isolato dal mondo e, isolato dal mondo, fonda la propria rappresentazione del mondo. Con quella rappresentazione l'uomo di Schopenhauer costruisce le sue relazioni che non sono relazioni con gli oggetti del mondo, ma sono relazioni con le sue proprie rappresentazioni degli oggetti del mondo. Gli oggetti del mondo diventano quelli che il soggetto vuole che siano perché solo in quel modo il soggetto può rappresentarli alla propria coscienza.

Ciò che forma la rappresentazione del mondo è la volontà del soggetto e questo presuppone l'esistenza di una volontà in ogni soggetto che rappresenta il mondo a sé stesso.

Ma come si esprime la volontà nel mondo?

Scrive Franco Marcoaldi:

L'autore de Il mondo come volontà e rappresentazione è convinto che l'individuo non si muova sorretto dall'intelletto e dalla conoscenza, ma irresistibilmente sospinto da una volontà cieca e smodata, dalla tirannia di un desiderio che non conosce fine e sbocco, procurando di conseguenza una sofferenza senza limiti. E poiché il Nostro non è uomo di balletti intellettuali, ma ama andare direttamente al punto, sostiene senza mezzi termini che il vero cuore della "volontà di vita" è il rapporto sessuale. «Dietro una maschera di morigeratezza, esso diventa sempre il protagonista assoluto: è la causa della guerra e lo scopo della pace, il fondamento del contegno e il fine dello scherzo la fonte inesauribile del motto di spirito, la chiave di tutte le allusione e lo scopo di tutti i cenni misteriosi, di tutte le proposte non rifatte e di tutti gli sguardi furtivi è l'ossessione quotidiana di giovani e di anziani, l'idea fissa della lussuria e il sogno della castità, sempre ricorrente a dispetto della propria volontà. In forza del suo potere assoluto di legittimo e autentico padrone del mondo, lo si vede in ogni attimo piantarsi sul trono che gli spetta, e da lassù deridere con gesto beffardo le misure adottate per imprigionarlo, se possibile, e tenerlo completamente nascosto, o almeno imporgli dei limiti in modo che si manifesti esclusivamente come una faccenda della vita del tutto secondaria e subordinata». Certo, se si pensa alle vicende biografiche del filosofo tedesco raccontate in Entretiens (Crìterion), viene spontaneo rimandare questa ossessiva insistenza teoretica al senso di tortura patito da chi, a dispetto di una conclamata misoginia, si era sentito a lungo schiavo della «cagna della sessualità»: preso in trappola dall'eterno femminino che «come la seppia, fugge e uccide sparando il suo inchiostro, navigando poi a suo agio in quell'acqua melmosa».
D'altronde, il filosofo de Il mio Oriente avrebbe buon gioco a rispondere che il suo pensiero (a differenza dei mistici) non muove dall'«interiorità» ma dall'«esteriorità», e che comunque soltanto gli eunuchi o gli ipocriti possono considerare la centralità attribuita alla libido sessuale come un'esagerazione. Altrimenti perché gli indiani avrebbero eletto il «linga» e la «yoni» a simboli religiosi della vita della natura? Non v'è dubbio, «la pulsione sessuale è di per se il nocciolo della volontà di vita». Di più: «è ciò che perpetua e tiene unito l'intero mondo delle apparenze». Ed è proprio qui, sempre secondo Schopenhauer, che si apre la grande distinzione tra religioni dell'errore e della verità. Al primo ceppo apparterrebbero ebraismo e islam, che attribuiscono «la massima realtà all'apparenza», che «fanno dell'esistenza uno scopo in sé», che sono rigidamente monoteiste e aborriscono gli idoli, che prevedono un inizio e una fine del mondo. La religione della verità invece è quella dei Veda, da cui derivano il buddhismo e «il Cristianesimo del Nuovo Testamento nel senso più stretto». In questo caso il mondo è riconosciuto «come una mera apparenza, l'esistenza come un male, la redenzione da essa come la meta, la completa rassegnazione come via». Peccato che la «bitorzoluta mitologia del Cristianesimo» sia figlia «di due genitori assai eterogenei, nata com' è dal conflitto tra la verità sentita e il monoteismo giudaico esistente, che le si contrappone in modo essenziale. Ne deriva anche il contrasto tra i passi morali del Nuovo Testamento - che sono eccellenti, ma che occupano soltanto 10-15 pagine circa - e tutto il resto, che consiste, da un lato, di una metafisica incredibilmente barocca, forzata a dispetto di ogni umano buon senso, dall'altro di favolette fatte per destar meraviglia». Il cristianesimo che affascina Schopenhauer, dunque, è quello che conserva «sangue indiano» nelle vene, mentre al contrario il suo entusiasmo nei confronti della tradizione orientale è pressoché assoluto. Due punti, in particolare, lo riconfermano nel sentimento di affinità: l'antiteismo («la parola "Dio" mi risulta così sgradevole in quanto trasferisce sempre all'esterno ciò che è interiore») e un pessimismo radicale, senza remissione: «la vita è una strada sbagliata da cui dobbiamo tornare indietro». Come però mette bene in luce Gurisatti nella sua postfazione, proprio qui, all'apice di questo tragitto di comunione spirituale, si apre una crepa insanabile tra Schopenhauer e l'India. Forzando oltremisura l'aspetto negativo del pensiero buddhista, egli ammanta la figura capitale del nirvana di un tratto nichilista che non gli è proprio. E al contempo sottovaluta l'autentica saggezza buddhista, che, «rifiutando ogni ontologizzazione del dolore, del sé e del carattere prevede la possibilità per tutti della guarigione e della trasformazione di se stessi, dunque l'oltrepassamento della sofferenza tramite la cosiddetta "via di mezzo"». E' il Buddha stesso a dire: «come si saggia l'oro sfregandolo, spezzandolo e fondendolo, così fatevi un giudizio sulla mia parola». E lo dice perché la cosa che più gli sta a cuore è la concreta applicazione del suo insegnamento: «un superamento della sofferenza nella vita e non fuori di essa», attraverso il riconoscimento dell'inconsistenza e dell'impermanenza del mondo dei sensi: mondo vacuo perché strutturato da elementi interdipendenti privi di natura propria. Solo così sarà possibile raggiungere quello stato neutro, quel vuoto da cui discendono muta contemplazione, apatia perfetta, felicità. - Ma a chi, scrive ancora Gurisatti, pensava alla salvezza come a un radicale ripudio e annichilimento dell'esistenza, non si attagliavano parole come quiete, gioia, serenità. Tutt'altre furono le caratteristiche di «un uomo malinconico, malato di solipsismo, un misantropo-misogino sdegnosamente arroccato su se stesso», e soprattutto inestricabilmente legato a un «occidentalissimo senso tragico della vita»,

Tratto dall'articolo di La Repubblica del 27 maggio 2007 di Franco Marcoaldi "Schopenhauer incontrò Buddha" che presenta il libro di Schopenhauer "Il mio oriente" curato da Giovanni Gurisatti edito da Adelphi.

A Dresda Schopenhauer intrattiene una relazione con una donna, una domestica, dalla quale nascerà un figlio che morirà poco dopo. Forse per questo nel settembre del 1818 Schopenhauer inizia un nuovo viaggio, questa volta in Italia. Visiterà Venezia, Bologna, Firenze, Roma e Napoli. Tornerà a Danzica per il fallimento della Banca A. L. Nuhl. Col patrimonio minacciato, Schopenhauer rifiuta di aderire al concordato e inizia una lotta contro l'amministratore. Questa lotta contribuirà ad un più radicale allontanamento dalla madre e dalla sorella che, al contrario, hanno accettato il concordato.

In Italia Schopenhauer intreccia una relazione con una nobile veneziana, Teresa Fuga.

Nel 1820 Schopenhauer ottiene di insegnare come libero docente all'università di Berlino. Fin dalla prima lezione di prova si scontra con Hegel. Stabilisce le ore di lezione in concorrenza con Hegel, Quando inizia il corso, deve sospenderlo per mancanza di allievi.

Nel 1921 Arthur Schopenhauer intreccia una relazione con Caroline Richter che lavora nel coro all'Opera di Berlino. Una relazione che si concluderà nel 1826. Nell'agosto del 1821 Schopenhauer litiga con una vicina, Louise Marquet e la getta giù dalle scale. In tribunale Schopenhauer viene assolto giustificato dai rumori che la vicina faceva davanti a casa sua, ma in secondo grado Schopenhauer è condannato a pagare alla vicina 50 talleri al mese per tutta la vita.

Nel 1822, perso l'insegnamento e con grane giudiziarie, Schopenhauer decide un secondo viaggio in Italia. Visita Milano, Genova e Firenze.

Nel 1823 Schopenhauer è a Monaco, di ritorno dall'Italia, e si sottopone ad un trattamento contro la sifilide.

Nel 1824 Schopenhauer si trasferisce a Dresda e nel 1825 ritorna a Berlino dove tenterà di riprendere l'insegnamento.

A Berlino non riesce a riprendere l'insegnamento e un'epidemia di colera, che uccide fra l'altro Hegel, lo fa scappare da Berlino. Seguono peregrinazioni per varie città finché si accasa definitivamente a Francoforte sul Meno.

Nel 1936 pubblica "Sulla volontà nella natura".

Nel 1939 Schopenhauer partecipa ad un concorso norvegese dell'Accademia di Trondheim con uno scritto su "Sulla libertà della volontà umana". Per questo lavoro Arthur Schopenhauer viene premiato.

Il 17 aprile 1839 muore la madre di Arthur Schopenhauer.

Nel 1840 Schopenhauer partecipa ad un altro concorso istituito dalla Società Reale di Danimarca con un lavoro dal titolo: "Sui fondamenti della morale" che viene contestato nei contenuti per lo scarso rispetto dei maggiori filosofi dell'epoca.

Nel 1841 riunisce i due testi dei concorsi e li pubblica insieme in un libro dal titolo "I due grandi problemi dell'etica".

Nel 1843 esce uno scritto di Friedrich Dorguth (1776 – 1854) "La falsa radice dell'ideal-realismo". Dorguth, un vicino di casa di Schopenhauer, odiava gli hegeliani quanto Schopenhauer. Dorguth fu nominato al "Consiglio giudiziario del tribunale regionale superiore" che agiva con l'Alta corte regionale del Magdeburgo. E' il primo individuo autorevole che parla della filosofia di Schopenhauer, ma le speranze di Schopenhauer di poter contrapporsi ad Hegel vengono frustrate.

Nel 1844 muore la sorella di Schopenhauer. Nello stesso anno Schopenhauer conosce Adam Ludwig von Doss che sarà uno dei suoi discepoli (come li chiama lui). Doss farà conoscere a Schopenhauer le opere di Leopardi, dalle operette ai pensieri e il pessimismo di Leopardi si innesta sul pessimismo di Schopenhauer.

Nel 1844 Schopenhauer ristampa "Il mondo come volontà e rappresentazione".

Scrive Schopenhauer nell'appendice in relazione ad altri filosofi (critica alla filosofia kantiana):

Il più grande merito di Kant è la distinzione del fenomeno dalla cosa in sé, - fondata sulla dimostrazione, che tra le cose e noi sussiste sempre l'intelletto, per cui esse non possono essere riconosciute secondo quello, che esse possono essere in se stesse. Egli venne condotto su questa via da Locke (vedi i Prolegomeni ad ogni metafisica, 13, nota 2). Questi aveva dimostrato, che le proprietà secondarie delle cose, come suono, odore, colore, durezza, mollezza, liscezza e simili, essendo fondate sulle affezioni dei sensi, non apparterrebbero al corpo obiettivo, alla cosa in se stessa, a cui egli invece assegnò solo le qualità primarie, ossia quelle, che presuppongono solo lo spazio e l'impenetrabilità, come estensione, forma, solidità, numero, mobilità. Solo che questa distinzione di Locke, facile a trovarsi, e che si mantiene alla superficie delle cose, fu quasi soltanto un preludio giovanile di quella di Kant. Questa invero, partendo da un punto incomparabilmente più alto, spiega tutto ciò, che Locke aveva lasciato valere come qualitates primarias, ossia proprietà della cosa in se stessa, come del pari appartenente solo alla manifestazione di essa nella nostra facoltà intellettiva, ed invero proprio perciò, che le condizioni di essa, spazio, tempo e causalità, ci sono note a priori. Dunque Locke aveva sottratto dalla cosa in sé la parte, che gli organi dei sensi hanno nella sua manifestazione; Kant però ora ne sottrasse anche la parte delle funzioni cerebrali (quantunque non sotto questo nome); per cui adesso la distinzione del fenomeno dalla cosa in sé acquistò un significato infinitamente più grande ed un senso assai più profondo. A questo scopo egli dové imprendere la grande separazione della nostra conoscenza a priori da quella a posteriori, il che prima di lui non era ancor mai avvenuto con la debita precisione e perfezione, né con chiara conscienza; nondimeno questo ora divenne la materia principale delle sue profonde investigazioni. Qui ora noi vogliamo subito notare, che la filosofia di Kant ha con quella dei suoi predecessori una triplice relazione: primo, di conferma ed ampliamento a quella di Locke, come ora appunto abbiamo visto; secondo, di correzione ed utilizzazione di quella di Hume, come si trova chiarissima mente espressa nella prefazione ai Prolegomeni (la più bella e più intelligibile di tutte le opere principali di Kant, che viene letta troppo poco, mentre essa allevia straordinariamente lo studio della sua filosofia); terzo, decisamente polemica e distruttiva contro la filosofia di Leibniz e di Wolf. Bisogna quindi conoscere tutt'e tre le dottrine, prima di procedere allo studio della filosofia kantiana. Se dunque, giusta il suddetto, la distinzione del fenomeno dalla cosa in sé, ossia la dottrina della completa diversità dell'ideale dal reale, è il tratto fondamentale della filosofia kantiana; allora l'affermazione dell'assoluta identità di questi due, apparsa subito dopo, dà una triste conferma alla su citata sentenza di Goethe; tanto più che essa non s'è appoggiata su altro, che sulla millanteria della intuizione intellettuale, e quindi è solo un ritorno alla rozzezza della comune opinione, mascherato sotto l'imponenza di aspetto ragguardevole, stile tronfio e vaniloquio. Essa divenne il degno punto di partenza per il nonsenso ancor più grossolano del goffo ed insulso Hegel. Come ora dunque la separazione del fenomeno dalla cosa in sé, concepita da Kant nella su esposta maniera, nella sua fondazione superò di gran lunga, per profondità e riflessione, tutto quello che sia mai esistito; così essa fu anche infinitamente ricca di conseguenze nei suoi risultati. Giacché egli, ricavandola interamente da se stesso, in una maniera completamente nuova, secondo un nuovo lato ed una nuova via, espose lì dentro la stessa verità, che già Platone instancabilmente ripete ed esprime nel suo linguaggio per lo più così: questo mondo, manifestantesi ai sensi, non ha un vero essere, ma solo un incessante divenire, è e non è, e la sua comprensione non è tanto una cognizione, quanto una illusione. Questo è appunto quel che egli esprime miticamente nel punto più importante di tutte le sue opere, al principio del settimo libro della Repubblica, già menzionato nel terzo libro del presente scritto, quando dice, che gli uomini sono simili a prigionieri incatenati in una scura caverna, coi dorsi verso l'ingresso ed incapaci di voltarsi, in modo da non poter vedere la vera luce originaria' né le cose reali, ma solo il fioco lume d'un fuoco, collocato tra essi e l'entrata della caverna, e la proiezione, sul fondo della caverna, delle ombre loro e delle cose reali, che passano tra le loro spalle ed il fuoco, e pensano però, che quelle ombre siano la realtà, e che la determinazione del succedersi di quelle ombre sia la vera sapienza. La stessa verità, esposta in tutt'altro modo, è anche una delle dottrine principali dei Vedas e dei Puranas, la dottrina della maya o illusione, con cui non s'intende altro, che quel che Kant chiama fenomeno, in contrapposto della cosa in sé: perché quale opera della maya viene appunto indicato questo mondo visibile, in cui noi siamo, una magia incantata, una parvenza vana e insussistente, simile all'illusione ottica ed al sogno, un velo, che avvolge la conscienza umana, un quid, di cui è egualmente falso ed egualmente vero, dire che sia e che non sia. Kant però non solo espresse la medesima dottrina in una maniera completamente nuova ed originale, ma ne fece anche, mediante la più calma e sobria esposizione, una verità dimostrata ed indiscutibile; mentre sia Platone che gli Indiani avevano fondato le loro affermazioni solo sopra una generale intuizione del mondo, le addussero come diretto enunciato della loro conscienza, e le esposero più miticamente e poeticamente, che filosoficamente e chiaramente. Per questo riguardo essi stanno a Kant, come i pitagorici Hiketa, Filolao ed Aristarco, che già affermavano il movimento della terra e l'immobilità del sole, stanno a Copernico. Tale chiara conoscenza e tranquilla, meditata esposizione di questa costituzione, simile a sogno, del mondo intero è propriamente la base di tutta la filosofia kantiana, è la sua anima ed il suo più grande merito. Egli la portò ad effettuazione con ciò, che con mirabile avvedutezza e destrezza scompose e mostrò pezzo per pezzo tutto il meccanismo della nostra facoltà conoscitiva, mediante la quale viene ad effettuarsi la fantasmagoria del mondo obiettivo. Tutta la precedente filosofia occidentale, che di fronte alla kantiana appare indicibilmente rozza, aveva disconosciuto quella verità, ed appunto perciò aveva parlato sempre come in sogno. Kant per primo improvvisamente ne la svegliò; perciò anche gli ultimi dormienti (Mendelssohn) lo chiamarono l'Onnischiacciante (Alleszermalmer). Egli mostrò che le leggi, le quali con inviolabile necessità dominano nell'esistenza, cioè principalmente nell'esperienza, non sono applicabili per dedurre e spiegare l'esistenza stessa, che quindi il loro valore è solo relativo, ossia comincia solo quando l'esistenza, generalmente il mondo dell'esperienza, è già stabilita e presente; che per conseguenza queste leggi non possono essere le nostre guide, quando noi procediamo alla spiegazione dell'esistenza del mondo e di noi stessi. Tutti i precedenti filosofi occidentali avevano immaginato, che queste leggi, secondo le quali tutti i fenomeni sono tra loro congiunti e che io comprendo tutte, sia tempo e spazio che causalità e conseguenza, sotto l'espressione del principio della ragione, fossero leggi asolute e da nulla determinate, aeternae veritates, che il mondo stesso fosse solo in conseguenza e conformità di esse, e che perciò secondo la loro guida si dovesse poter risolvere l'intero problema del mondo. Le ipotesi fatte a tal fine, che Kant critica sotto il nome di idee della ragione, servivano propriamente solo per innalzare ad unica e somma realtà il puro fenomeno, il prodotto della maya, il mondo delle ombre di Platone, metterla al posto della più intima e vera essenza delle cose, e renderne così impossibile l'effettiva conoscenza: ossia, con una parola, addormentare ancora più profondamente i sognatori. Kant mostrò quelle leggi, e per conseguenza il mondo stesso, come determinate dalla maniera conoscitiva del soggetto; da cui seguiva, che, per quanto anche con la guida di quelle si continuasse tuttavia a scrutare e dedurre, pure nell'argomento principale, cioè nella conoscenza dell'essenza del mondo in sé e fuori della rappresentazione, non si sarebbe fatto un passo avanti, ma ci si sarebbe solo mossi come lo scoiattolo nella ruota. Si possono perciò paragonare tutti i dogmatici con persone, le quali pensavano, che, procedendo solo assai a lungo diritto innanzi, sarebbero giunte alla fine del mondo; Kant però avrebbe poi circumnavigato la terra e mostrato, che, siccome essa è rotonda, non si può uscirne con movimento orizzontale, ma che forse ciò non è impossibile con movimento verticale. Si può anche dire, che la dottrina di Kant dia la cognizione, che il principio e la fine del mondo sia da cercare non fuori, ma dentro di noi.

Schopenhauer, "Il mondo come rappresentazione e volontà", Laterza, 1986, p. 542 – 546

In Schopenhauer si manifesta la necessità di negare il presente in cui vive. Tutto è un'illusione, ma questa illusione diventa un fattore di realtà quando la banca, nel suo fallimento, minaccia i suoi soldi. Allora il vissuto diventa reale, la banca cessa di essere un'illusione e lui pretende la restituzione dei suoi soldi che non sono un dato illusorio.

In sostanza, per Schopenhauer considerare la realtà come una mera illusione è una verità che si vende ad un soggetto altro e che serve a sé stesso per giustificare un proprio sottrarsi alle modificazioni che la realtà, sia modificandosi sia producendo fenomeni, sollecita in Schopenhauer.

Lo stesso vale per l'esempio della caverna di Platone con cui Schopenhauer si serve per giustificare la propria inettitudine. La caverna imprigiona la conoscenza che viene raggiunta solo da ombre della realtà e Schopenhauer non intende rompere quella prigionia perché la realtà, secondo le catene che lo imprigionano, è sempre un'illusione. Platone usava l'esempio della caverna per giustificare le sue farneticazioni perché, dal momento che il reale è illusorio, le sue farneticazioni avevano lo stesso valore di chi verificava empiricamente il suo vissuto. E' in questo modo che Platone spaccia il concetto di anima allo scopo di privare l'uomo delle prerogative del suo essere persona per attribuire a quelle prerogative il controllo di un ente esterno. La stessa tecnica viene usata da Schopenhauer che priva i corpi della loro capacità di sentire e di abitare il mondo, di trasformarsi nel mondo mediante quella relazione hegeliana della dialettica che tanto odia, perché tutto è innato e nulla è costruito mediante l'attività dell'uomo.

Come Platone per privare il singolo uomo della volontà di trasformazione del suo divenuto inventa l'idea della reminiscenza, così Schopenhauer usa l'ideologia dell'innatismo che concede a pochi uomini facoltà superiori.

Solo che si è dimenticato che il velo di Maya copre la realtà, ma la volontà, nel costruire la conoscenza, permette all'uomo distrugge il velo di Maya e anche se un altro velo di Maya lo sta coprendo, con l'uso della sua volontà l'uomo distrugge anche quel velo di Maya e così via. Si chiama: cammino. Si chiama: costruire la conoscenza. Si chiama: modificare sé stessi. Schopenhauer si esalta nella sua condizione di prigioniero, di misogino. Una condizione che gli permette di farneticare, di immaginare, ma soprattutto di non dover affrontare le condizioni della propria esistenza.

Nel 1848 la Germania è attraversata dal vento della trasformazione sociale. A Francoforte si riunisce l'Assemblea nazionale tedesca che deve elaborare una Costituzione basata sull'uguaglianza di tutti i cittadini davanti alla legge. I lavori per la determinazione di una Costituzione Democratica vanno avanti lentamente. La destra prende il controllo dell'Assemblea e offre la corona all'imperatore prussiano Federico Guglielmo IV che la rifiuta. Il Parlamento viene annientato, disperso. Nascono tentativi insurrezionali per la democrazia che vengono repressi dall'esercito dell'impero Austro-ungarico e dall'esercito prussiano.

Nel 1849 Schopenhauer assiste alla repressione prussiana dei democratici. Assiste al massacro con cui l'assolutismo afferma sé stesso contro le richieste democratiche. Schopenhauer è terrorizzato, questi pezzenti che l'esercito prussiano sta ammazzando, un giorno potrebbero governare la Germania. Per questo Schopenhauer, il profeta del nuovo assolutismo, esalta i soldati prussiani nella loro attività di genocidio.

Questa posizione sociale di Schopenhauer è ben espressa ne "Il mondo come volontà e rappresentazione" nelle sue affermazioni sull'innatismo dove le idee dell'uomo, come in Platone, sono poste al di fuori della volontà.

Scrive Schopenhauer:

Quindi genialità è l'attitudine a contenersi nella pura intuizione, a perdersi nell'intuizione, e la conoscenza, che in origine esiste soltanto in servizio della volontà, sottrarre a codesto servizio; ossia il proprio interesse, il proprio volere, i propri fini perdere affatto di vista, e così spogliarsi appieno per un certo tempo della propria personalità per rimanere alcun tempo qual puro soggetto conoscente, chiaro occhio del mondo. E ciò non per pochi istanti; ma così durevolmente e con tanta conscienza, quanto è necessario per riprodurre con meditata arte il conosciuto, e « ciò che fluttua in ondeggiante apparizione fissare in durevoli pensieri ». Gli è come se - perché il genio si riveli in un individuo - dovesse a questo esser toccata in sorte una tal misura di forza conoscitiva, da superare di molto quella che occorre al servizio d'una volontà individuale; e questo più di conoscenza, divenuto libero, diventa allora un soggetto sciolto da volontà, un lucido specchio dell'essenza del mondo. Così si spiega la vivacità spinta all'irrequietezza in individui geniali, di rado potendo loro bastare il presente, perché non riempie la loro conscienza: questo dà loro quella tensione senza posa, quell'incessante ricerca di oggetti nuovi e degni di considerazione, quindi anche quell'ansia quasi mai appagata di trovare esseri a loro somiglianti, fatti per loro, coi quali possano comunicare; mentre l'ordinario figlio della terra, tutto riempito ed appagato dall'ordinario presente, in esso si assorbe, e trovando inoltre dappertutto pari suoi, possiede quello speciale benessere nella vita quotidiana, che al genio è negato. S'è riconosciuto come parte essenziale della genialità la fantasia, anzi talora la si è tenuta identica a quella: nel primo caso con ragione, a torto nel secondo. Imperocché oggetti del genio in quanto tale sono le eterne idee, le permanenti essenziali forme del mondo e di tutti i suoi fenomeni; ma la conoscenza dell'idea è, per necessità, intuitiva, non astratta: in tal modo sarebbe la conoscenza del genio limitata alle idee degli oggetti effettivamente presenti alla sua persona, e dipendenti dalla catena delle circostanze che a lui li condussero, se la fantasia non allargasse il suo orizzonte molto di là dalla realtà della sua personale esperienza e non lo ponesse in grado di ricostruire, dal poco che è venuto nella sua effettiva appercezione, tutto il rimanente; e così far passare davanti a sé quasi tutte le possibili immagini della vita. Inoltre, gli oggetti reali quasi sempre non sono che manchevoli esemplari dell'idea in loro manifestantesi: quindi il genio ha bisogno della fantasia, per veder nelle cose non ciò che la natura ha in effetti formato, bensì ciò ch'ella si sforzava di formare, ma che a causa della lotta - nel precedente libro ricordata - delle sue forme tra loro, non è riuscita a compiere. Torneremo su questo proposito in seguito, trattando della scultura. La fantasia allarga dunque la cerchia visuale del genio oltre gli oggetti offrenti si in realtà alla sua persona; e l'allarga sia per la qualità che per la quantità. Quindi una non comune forza della fantasia è compagna, anzi condizione della genialità. Invece, quella non è prova di questa; anzi, possono anche uomini tutt'altro che geniali aver molta fantasia. Imperocché come si può considerare un oggetto reale in due modi opposti - o in modo puramente obiettivo, geniale, cogliendo l'idea di esso, o in modo comune, sol nelle sue relazioni con altri oggetti e con la propria volontà, conformi al principio di ragione - così anche un fantasma si può considerare nell'un modo e nell'altro: nel primo, esso è un mezzo per la conoscenza dell'idea, della quale è comunicazione l'opera d'arte; nel secondo, il fantasma è impiegato a costruir castelli in aria, che piacciono al nostro egoismo e al nostro capriccio, e momentaneamente ingannano e rallegrano. E così, facendo dei fantasmi in tal guisa intrecciati, vengono invero conosciute sempre le sole relazioni. Chi pratica questo giuoco è un cervello fantastico: facilmente confonderà le immagini, della sua fantasia, come fanno i romanzi ordinari d'ogni specie, che sollazzano i pari suoi ed il gran pubblico, per ciò che i lettori sognano di trovarsi al posto dell'eroe e trovano quindi il racconto molto piacevole.
L'uomo comune, questa merce all'ingrosso della natura, che ne produce migliaia al giorno, è, come abbiamo detto, capace solo fugacemente di guardare le cose in maniera affatto disinteressata in ogni senso - ciò che costituisce la vera contemplazione. Può alle cose volgere la sua attenzione solo in quanto esse abbiano una qualsiasi relazione, anche se molto indiretta, con la sua volontà. Poi che sotto questo riguardo, il quale sempre richiede solamente la conoscenza delle relazioni, è bastevole ed anzi è spesso più valido il concetto astratto della cosa, non s'indugia a lungo l'uomo comune nell'intuizione pura, e quindi non poggia a lungo lo sguardo sopra un oggetto; bensì egli cerca sollecito in tutto ciò, che gli si offre, soltanto il concetto, al quale la cosa va ricondotta, come l'accidioso cerca la sedia - e non se ne interessa più oltre. Perciò si sbriga di tutto così alla svelta: di opere d'arte, di belli oggetti naturali, e dell'ognora significante spettacolo della vita in tutte le sue scene. Egli non s'indugia: cerca soltanto la sua strada nella vita, o anche, per ogni caso, tutto ciò che potrebbe essere un giorno la sua strada, ossia cerca notizie topografiche nel senso più ampio della parola: con l'osservazione della vita stessa come tale non sta a perder tempo. L'uomo geniale invece, la cui forza conoscitiva si sottrae, per la propria prevalenza, al servizio della sua volontà, si trattiene a considerar la vita per se stessa, si sforza di raggiunger l'idea d'ogni cosa, e non già le relazioni di ciascuna con le altre: perciò trascura sovente la considerazione del suo proprio cammino nella vita, e lo percorre quindi il più delle volte in modo abbastanza maldestro. Mentre per l'uomo comune il proprio patrimonio conoscitivo è la lanterna, che illumina la strada, esso è per l'uomo geniale il sole, che disvela il mondo. Questa sì dissimile maniera di guardar dentro alla vita, si fa presto visibile perfino dall'apparenza esterna dei due. Lo sguardo dell'uomo, in cui il genio vive e opera, fa distinguere costui facilmente, perché, vivace e fermo insieme, ha il carattere della contemplazione; quale possiamo vedere nelle immagini delle poche teste geniali, che la natura ha di quanto in quanto prodotto fra gli innumeri milioni. Invece nell'occhio dell'altro - quando non sia, come è il più spesso, opaco o insignificante - si osserva facilmente il vero contrapposto della contemplazione: il cercare. Per conseguenza 1'«espressione geniale di una testa consiste nel palesarvisi un risoluto prevaler del conoscere sul volere, e quindi anche nell'esprimervisi un conoscere senz'alcuna relazione con un volere, ossia un puro conoscere». Viceversa, in teste quali sono di regola, predomina l'espressione del volere, e si vede che il conoscere entra sempre in azione solo in seguito a spinta del volere, e perciò è sempre indirizzato secondo motivi.
Poi che la conoscenza geniale, ossia conoscenza dell'idea, è quella che non segue il principio di ragione, l'altra invece che lo segue dà nella vita saggezza e raziocinio, e produce le scienze; perciò individui geniali avranno quelle manchevolezze che trae con sé la trascuranza dell'altro modo di conoscere. Tuttavia va qui notata la restrizione, che ciò ch'io verrò dicendo sotto tale riguardo, li tocca solo in quanto e mentre essi sono veramente in atto di aver la conoscenza geniale, e questo non è punto il caso in ogni momento di lor vita; imperocché la grande - sebbene spontanea - tensione, che si richiede per vedere le idee fuori della volontà, necessariamente si rilascia ed ha grandi pause; in cui gli uomini geniali vengono, sia riguardo ai pregi che ai difetti, su per giù a somigliare agli uomini comuni. Perciò s'è dai tempi più remoti indicata l'attività del genio come un'ispirazione; anzi, secondo esprime la parola stessa, come l'attività di un essere sovrumano distinto dall'individuo medesimo, che sol periodicamente s'impadronisce di questo. La ripugnanza degli individui geniali a diriger l'attenzione sul contenuto di principio di ragione, si rivelerà dapprima rispetto al principio d'esistenza, come ripugnanza per la matematica, la cui cognizione va alle forme più universali del fenomeno, tempo e spazio, che per l'appunto non sono se non forme del principio di ragione; ed è quindi proprio l'opposto di quella cognizione, che cerca viceversa il contenuto del fenomeno, l'idea esprimentevisi dentro, prescindendo da ogni relazione. Inoltre anche la trattazione logica della matematica ripugnerà al genio, perché questa, sbarrando la via alla vera e propria penetrazione, non appaga; bensì, presentando semplicemente una catena di sillogismi, secondo il principio della ragione di conoscenza, tra tutte le forze dello spirito occupa prevalentemente la memoria, per tenere ognora presenti le proposizioni anteriori, a cui ci si riferisce. Anche l'esperienza ha confermato, che grandi genii dell'arte non hanno alcuna attitudine per la matematica: mai è esistito un uomo eccellente in pari tempo nell'una e nell' altra. Alfieri narra di non aver mai potuto capire neppur il quarto teorema di Euclide. A Goethe la mancanza di cognizioni matematiche fu a sazietà rimproverata dagli stolti avversari della sua teoria dei colori: e invero quivi, dove non si trattava di calcolare e misurare su dati ipotetici, bensì d'immediata conoscenza intuitiva della causa e dell'effetto, era quel rimprovero così storto e fuori posto, che coloro hanno appunto tanto con esso mostrato alla luce del giorno la lor completa assenza di ragione, quanto con le altre lor sentenze degne del re Mida. Che oggi ancora, quasi un mezzo secolo dopo l'apparir della teoria goethiana dei colori, possano perfino in Germania rimanere indisturbate in possesso delle cattedre le fandonie neutoniane, e che si continui in tutta serietà a discorrere delle sette luci omogenee e della lor varia rifrangibilità, conterà un giorno tra le maggiori caratteristiche intellettuali dell'umanità in genere e del germanesimo in ispecie. Con lo stesso motivo sopra indicato si spiega il fatto notissimo, che viceversa 'eccellenti matematici hanno poca comprensione per le opere delle arti belle; secondo è espresso in modo particolarmente ingenuo dal noto aneddoto di quel matematico francese, che dopo aver letta l'Ifigenia di Racine domandò alzando le spalle: Qu'est-ce-que cela prouve? Poi che inoltre un'acuta comprensione dei rapporti secondo la legge di causalità e motivazione costituisce l'intelligenza, mentre la conoscenza geniale non è rivolta alle relazioni, ne viene che un uomo intelligente, in quanto e nel mentre è tale, non ha genio; e l'uomo di genio, in quanto e nel mentre è tale, non è intelligente. Infine la conoscenza intuitiva in genere, nel cui dominio esclusivo è l'idea, sta proprio di fronte alla conoscenza razionale O astratta, guidata dal principio di ragione del conoscere. è anche raro, com'è noto, trovar grande genialità unita a predominante ragionevolezza, ché anzi al contrario individui geniali sono spesso in preda ad effetti violenti e irragionevoli passioni. E di ciò non è punto causa debolezza di ragione, bensì, in parte, eccezionale energia di tutto il fenomeno della volontà, che forma l'uomo di genio, e che si manifesta con la vivacità di tutti gli atti volitivi; e in parte predominio della conoscenza intuitiva, mediante sensi e intelletto, sull'astratta; quindi tendenza risoluta al campo intuitivo; - l'espressione del quale, energica in sommo grado, di tanto supera negli uomini geniali gl'incolori concetti, che non più questi, bensì quella dirige l'azione divenuta appunto perciò irrazionale: e per conseguenza l'impressione del presente è su di loro potentissima, li trascina all'atto inconsapevole, all'affetto, alla passione. Anche perciò, e soprattutto perché la lor conoscenza s'è in parte sottratta al servizio della volontà, nella conversazione baderanno non tanto alla persona, con la quale parlano, quanto alla cosa di cui parlano, che vivacemente aleggia loro dinnanzi: quindi giudicheranno in un modo troppo obiettivo, senza riguardo al proprio interesse, o racconteranno, invece di tacere, cose che, prudenza vorrebbe taciute, e così via. Quindi, finalmente, sono inclinati a monologare, e possono in genere lasciar scorgere in sé tante debolezze, da avvicinarsi davvero alla follia.

Schopenhauer, "Il mondo come rappresentazione e volontà", Laterza, 1986, p. 258 – 263

Il genio come una condizione innata che separa l'individuo dall'insieme e lo costringe isolandolo nella sua immaginazione che diventa l'unica fonte del conoscere in contrapposizione all'uomo qualunque che agisce nel mondo e che pratica "il volere" legato alle cose pratiche e ai suoi bisogni.

Il genio che si avvicina alla malattia psichiatrica e la malattia psichiatrica che diventa espressione di genialità.

Chi sono questi "uomini qualunque", questa "merce all'ingrosso che la natura sforna a milioni" che praticano il loro volere in una realtà che vogliono modificare, ma che, per Schopenhauer, è immodificabile perché nella storia si rappresentano sempre le "stesse idee"?

Questa lunga dissertazione di Schopenhauer serve per dimostrare il disprezzo di Schopenhauer per l'uomo che è lo stesso disprezzo manifestato da Platone. Il disprezzo per l'uomo che non accetta la sua condizione di sottomesso è la caratteristica della filosofia di Schopenhauer come lo era quella di Platone.

In ossequio a questo disprezzo per l'uomo Schopenhauer finanzierà la cura dei soldati feriti nella loro attività di sterminio dei democratici.

Nel 1850 con il trattato di Olmuz, fra Prussia e Austria, le possibilità di democrazia in Germania vengono definitivamente affossate.

Ora alla Prussia serve un altro filosofo di riferimento. La filosofia hegeliana si è divisa fra "destra" e "sinistra" e mentre la "destra" non ha forza per sostenere l'impero Prussiano, la "sinistra" appoggia i tentativi di democrazia. Serve, dunque, un altro filosofo. Un filosofo che neghi la necessità della trasformazione sociale e che indichi nella Democrazia il male assoluto legittimando la repressione sociale.

Scrive Schopenhauer in "Il mondo come volontà e rappresentazione":

Alla migliore e più compiuta conoscenza di quel che noi, nell'astrazione e nell'universalità del nostro modo d'esporre, chiamiamo negazione della volontà di vivere, molto contribuirà, inoltre, lo studio delle massime etiche le quali in questo senso furono date da uomini pieni di cotale spirito. Esse ci mostreranno insieme, come antica sia la nostra concezione, per quanto nuova possa essere la sua formula filosofica. Più dappresso a noi sta il cristianesimo, la cui etica è tutta animata da quello spirito, e non solo conduce al più alto grado dell'amore verso il prossimo, ma anche alla rinunzia. Quest'ultima è già ben visibile in germe negli scritti degli Apostoli, ma tuttavia solo più tardi si sviluppa appieno e viene explicite enunciata. Troviamo che gli Apostoli prescrivono: amar del prossimo eguale all'amor di sé; carità, amore e benevolenza in cambio di odio; pazienza, mitezza, sopportazione d'ogni possibile offesa senza opporvisi: sobrietà nel cibo per mortificare il piacere; resistenza all'istinto sessuale, ove sia possibile, completa. Vediamo qui già i primi gradi dell'ascesi, o propriamente negazione della volontà. E questa nostra espressione indica proprio ciò che negli Evangeli si chiama rinnegar se medesimo e prender su di sé la croce (Math. 16, 24.25; Marc. 8, 34.35; Luc. 9, 23.24; 14, 26.27.33). Quest'indirizzo si sviluppò presto sempre più, e diede origine ai penitenti, agli anacoreti, al monachismo; il quale era in sé puro e santo, ma appunto perciò in nulla adatto alla maggioranza degli uomini, per modo che soltanto finzione e turpitudine poté venirne: imperocché abusus optimi pessimus. Col Cristianesimo meglio sviluppato possiamo poi vedere quel germe ascetico aprirsi nel suo pieno fiore, ne- gli scritti dei santi e mistici cristiani. Costoro predicano, oltre il puro amore, anche rassegnazione intera, volontaria, assoluta povertà, verace calma, completa indifferenza riguardo a ogni cosa terrena, morte della volontà individuale e rinascita in Dio, perfetto oblio della propria persona e assorbimento nella contemplazione divina. Di ciò si ha una compiuta esposizione in Fénelon, Explication des maxi- mes des Saints sur la vie intérieure. Ma forse mai lo spirito del Cristianesimo in questo suo sviluppo fu espresso con tanta perfezione e vigore come negli scritti dei mistici tedeschi, e quindi di Meister Eckhard e nel libro a ragione celebrato Die deutsche Theologie (la teologia tedesca), di cui Lutero, nella prefazione che vi fece, disse di non aver da nessun altro libro, eccettuati la Bibbia e sant' Agostino, imparato meglio che da questo, che cosa siano Dio, Cristo e l'uomo. Ma il suo testo genuino l'abbiamo avuto solo il 1851, nell' edizione di Stuttgart curata da Pfeiffer. I precetti e ammaestramenti quivi impartiti sono la più completa illustrazione, inspirata dalla più intima e profonda certezza, di ciò ch'io ho presentato come negazione della volontà di vivere. Colà bisogna quindi imparare a meglio conoscerla, prima di sdottrineggiarvi su con ebraico-protestante saccenteria. Scritta nel medesimo, altissimo spirito, sebbene non tale da mettersi proprio a paro di quell'opera, è l'Imitazione della povera vita di Cristo (Nachfolgung des armen Leben Christi) di Tauler, e anche, dello stesso autore, la Medulla animae. Secondo me gl'insegnamenti di questi genuini spiriti cristiani sono rispetto a quelli del Nuovo Testamento ciò che l'alcool è rispetto al vino. Ossia: ciò che nel Nuovo Testamento ci appare come attraverso velo e nebbia, ci si fa incontro nelle opere dei Mistici scopertamente, in piena chiarità ed evidenza. E si potrebbe, per concludere, considerare il Nuovo Testamento come la prima consacrazione, i Mistici come la seconda. […]
Ma ancor più sviluppato, sotto più aspetti formulato, e più vivacemente rappresentato che non fosse possibile nella Chiesa cristiana e nel mondo occidentale, troviamo ciò che noi chiamammo negazione della volontà di vivere nelle antichissime opere della lingua sanscrita. Che quella grave considerazione etica della vita potesse colà raggiungere uno sviluppo ancora più ampio, e più risoluta espressione, è forse principalmente da attribuire al fatto, che quivi essa non fu limitata da un elemento a lei del tutto estraneo, com'è nel Cristianesimo la religione ebraica, alla quale l'alto fondatore di quello dové per necessità, parte consapevolmente e parte forse inconsapevolmente, conformarsi e adattarsi: per modo che il Cristianesimo risulta di due elementi molto eterogenei, dei quali io l'elemento ch'è soltanto etico amerei di preferenza, anzi in modo esclusivo, chiamar cristiano; e vorrei distinguerlo dal dogmatismo ebraico ch'esso trovò innanzi a sé. Se, come già spesso, e in particolar modo nell'età presente si è temuto, quell'alta e redentrice religione dovesse un giorno decadere del tutto, io troverei di ciò la ragione nel fatto, ch'ella consta non già di un elemento semplice, bensì di due elementi in origine eterogenei, e venuti a collegarsi sol per il corso degli eventi. La loro scomposizione, causata dalla naturale disuguaglianza e dal contrasto col progredito spirito di quest'età, non mancherebbe di produrne lo scioglimento; ma in seguito rimarrebbe tuttavia integra la parte puramente morale, perché questa è indistruttibile. Venendo all'etica degli hindù, quale noi già ora, per incompiuta che sia la nostra cognizione di quella letteratura, la troviamo espressa nel modo più vario e più vivace nei Vedas, nei Puranas, nelle opere poetiche, nei miti, nelle leggende dei santi indiani, nelle massime e regole di vita, vediamo che vi si prescrive: amore del prossimo con piena rinunzia ad ogni egoismo; amore non limitato al genere umano, ma estendentesi a ogni cosa viva; carità spinta fino a dare lo stentato guadagno quotidiano; illimitata pazienza verso tutti gli offensori; bontà e amore in cambio d'ogni male, per duro che sia; volontaria e gioiosa tolleranza d'ogni umiliazione; astinenza da ogni nutrizione animale; completa castità e rinunzia a tutti i piaceri da parte di chi aspira alla vera santità; donazione d'ogni patrimonio, abbandono d'ogni domicilio, e di tutti i parenti; profonda, assoluta solitudine, trascorsa in silenziosa contemplazione, con volontaria penitenza e terribile, lenta macerazione, per venire alla compiuta mortificazione della volontà, mortificazione che giunge fino alla morte volontaria per fame, o con l'esporsi ai coccodrilli, o col precipitarsi da una sacra vetta dell'Himalaja, o col farsi seppellire vivi, o col gettarsi sotto le ruote dell'immane carro recante attorno in processione le immagini degli Dei tra canto, giubilo e danza delle bajadere. E a codeste regole, la cui origine risale indietro di quattro millenni, s'informa oggi ancora la vita di quel popolo, per quanto in molte cose degenerato; taluni le seguono addirittura fino agli ultimi eccessi. Ora, quel che sì a lungo, in un popolo comprendente tanti milioni d'uomini, è stato praticato, sebbene imponga i più gravi sacrifici, non può essere un'ubbia inventata a capriccio, ma deve avere il suo fondamento nell'essenza dell'umanità. A ciò si aggiunga, che non ci si meraviglierà mai abbastanza della somiglianza uniforme, che si trova quando si legge la vita di un penitente o santo cristiano, e quella di un indiano. Con dogmi, costumi e luoghi sì fondamentalmente diversi, affatto identica è l'aspirazione e l'interna vita di entrambi. Lo stesso si dica per le loro prescrizioni. Per esempio, Tauler parla dell'assoluta povertà, che bisogna ricercare, e che consiste nel disfarsi appieno di tutto ciò da cui potrebbe trarsi un conforto o una soddisfazione terrena: evidentemente, perché tutto ciò dà sempre nuovo alimento alla volontà, che si mira invece a spegnere del tutto. Ora, come analogia indiana troviamo nelle regole del Fo raccomandato al Saniassi, il quale non deve aver domicilio né proprietà alcuna, di non adagiarsi, per di più, troppo sovente sotto lo stesso albero, affinché non abbia a concepire per quest'albero qualche preferenza o inclinazione. I mistici cristiani e i maestri della filosofia Vedanta s'incontrano anche nel considerar superflue tutte le opere esteriori e pratiche religiose, per colui che abbia raggiunto lo stato perfetto. Tanta concordanza, in tempi e popoli sì diversi, è una prova di fatto che quivi non si esprime, come volentieri afferma l'ottimistica insulsaggine, una stramberia e stoltezza dell'animo, bensì un lato essenziale dell'umana natura, il quale sol per la sua eccellenza di rado si manifesta. Oramai ho indicata la fonte, dalla quale si possono direttamente conoscere, attingendo alla vita stessa, i procedimenti in cui si palesa la negazione della volontà di vivere. In un certo modo è questo il punto più importante di tutto il nostro studio: nondimeno io l'ho esposto tenendomi sempre sulle generali, meglio essendo rimandare a quelli, i quali ne parlano per diretta esperienza, che non ingrossare senza bisogno questo libro con l'affievolita ripetizione di ciò ch'essi hanno detto.
Ma poco altro voglio aggiungere per definire genericamente il loro stato. Vedemmo più indietro il malvagio, per vivacità del suo volere, soffrire perenne, divorante intimo affanno, e da ultimo, quando tutti gli oggetti del volere sono esauriti, placar la rabbiosa sete dell'egoismo con la vista della pena altrui; quegli viceversa, in cui s'è affermata la negazione della volontà di vivere, per quanto povero, scevro di gioia, di privazioni pieno sia il suo stato visto dal di fuori, è pieno d'intima gioia e di vera calma celeste. Non sono più l'irrequieto impulso vitale, l'esuberante gioia, che ha per condizione precedente o successiva un vivo dolore, quali costituiscono la vita di un uomo amante dell'esistenza; ma è invece un'incrollabile pace, una profonda quiete ed intima letizia, uno stato che noi, se ci vien posto davanti agli occhi o alla fantasia, non possiamo guardare senza altissimo desiderio, perché tosto lo riconosciamo come l'unico a noi conveniente, di gran lunga superiore a ogni altra cosa, e verso di esso il nostro spirito migliore ci spinge col grande sapere aude. Sentiamo allora come ogni appagamento dei nostri desideri strappato al mondo è appena simile all'elemosina, che oggi tiene in vita il mendico perché domani ancor soffra la fame. La rassegnazione somiglia invece alla proprietà ereditaria, che libera per sempre il possessore da tutte le angustie.
Ci sovviene il terzo libro, che la gioia estetica del bello consiste per gran parte nel fatto che noi, entrando nello stato della pura contemplazione, siamo pel momento liberati da ogni volere, ossia da tutti i desideri e gli affanni, quasi fossimo sciolti da noi medesimi; non più individuo dotato d'una conoscenza in servizio del suo perenne volere, non più correlato dell'oggetto singolo, a cui le cose divengono motivi; bensì eterno soggetto del conoscere, liberato dalla volontà, correlato dell'idea. E sappiamo come gl'istanti, in cui sciolti dal feroce impulso della volontà veniamo quasi a tenerci sollevati sulla greve aria terrestre, siano i più beati che noi conosciamo. Da ciò possiamo ricavare, come felice debba esser la vita di un uomo, la cui volontà sia non per fugaci istanti domata, come accade nel godimento del bello, ma per sempre, e sia anzi spenta del tutto, eccettuata solamente l'ultima estinguentesi scintilla, che regge il corpo e con questo si estinguerà. Un siffatto uomo, che dopo molte amare lotte contro la propria natura, riporta finalmente piena vittoria, non sopravvive più se non come semplice essenza conoscente, come limpido specchio del mondo. Nulla più perviene ad angustiarlo, nulla a scuoterlo: perché tutte le mille fila del volere, che ci tengono legati al mondo, e di qua e di là in forma di sete, paura, invidia, ira ci trascinano dilaniandoci, con assiduo dolore, egli le ha tagliate. Sereno e sorridente egli si volge ora a guardare le finte immagini del mondo, che un tempo sapevano scuotere e affliggere anche l'animo suo, ma ora gli stanno innanzi indifferenti come i pezzi d'una scacchiera a giuoco finito, o come al mattino i vestiti da maschera smessi e dispersi, le cui parvenze ci avevano stuzzicati ed eccitati nella notte di carnevale. La vita e le sue forme ondeggiano oramai davanti a lui come una fuggitiva visione, o come appare nel dormiveglia un lieve sogno mattutino, attraverso il quale già traluce la realtà, e che più non perviene ad illuderei: e appunto come questo sogno svaniscono, senza un brusco passaggio. Da queste considerazioni possiamo intendere in qual senso si esprima spesso così M.me de Guyon, verso la fine della sua autobiografia: «Tutto m'è indifferente; io non posso più nulla volere: spesso non so, se esisto o non esisto». Mi sia anche concesso, per esprimere come, dopo la morte della volontà, pur la morte del corpo (il quale non è che il fenomeno della volontà, soppressa la quale perde anch'esso ogni significato) non abbia più nulla d'amaro, e sia anzi la benvenuta -, di trasportar qui le parole stesse di quella santa penitente, sebbene non siano formulate con eleganza: « Midi de la gloire; jour où il n'y a plus de nuit; vie qui ne craint plus la mort, dans la mort mème: parceque la mort a vaincu la mort, et que celui qui a souffert la première mort, ne goùtera plus la seconde mort» (Vie de M.me de Guyon, voI. II, p. 13).
Non dobbiamo tuttavia ritenere che, una volta subentrata, attraverso la conoscenza ridotta a quietivo, la negazione della volontà di vivere, questa non tentenni mai più, e si possa su lei posare come su d'una proprietà guadagnata. Invece dev'essere con diuturna battaglia sempre di nuovo riconquistata. Perché il corpo è la volontà medesima, ma sol nella forma dell'oggettività, ossia fenomeno nel mondo quale rappresentazione; quindi, finché il corpo vive, sussiste ancora nella propria possibilità tutta intera la volontà di vivere, e tende perennemente a entrar nella realtà, ad ardere di nuovo in tutto il proprio ardore. Quindi troviamo, che nella vita dei santi quella descritta calma e beatitudine è come il fiore, che sorge dalla continua vittoria sulla volontà; il suolo, da cui essa germoglia, è la permanente battaglia con la volontà di vivere: imperocché durevole calma non può aver nessuno sulla terra. Perciò vediamo le narrazioni della vita interna dei santi esser piene di lotte spirituali, tentazioni, e abbandoni della grazia: ossia offuscamenti di quel modo di conoscenza, che facendo inefficaci tutti i motivi doma come universal quietivo tutti i voleri, dà la pace più profonda e apre la porta della libertà. E vediamo quindi anche coloro, i quali son giunti alla negazione della volontà, tenersi con tutti gli sforzi su questo cammino, costringendosi a rinunzie d'ogni maniera, con una espiante dura regola di vita e con la ricerca di ciò che loro spiace: tutto per soffocare la volontà sempre divampante. Da qui vengono infine, poiché essi già conoscono il pregio della redenzione, la loro cura angosciosa per la osservazione del bene raggiunto, i loro scrupoli di coscienza per ogni innocente piacere, e per ogni piccolo moto della vanità, che anche in essi è l'ultima a morire, essendo di tutte le inclinazioni umane la più tenace, la più attiva e la più stolta.

Schopenhauer, "Il mondo come rappresentazione e volontà", Laterza, 1986, p. 504 – 511

Il filosofo della negazione della volontà di vivere pronto a servire il nuovo assolutismo prussiano. Addomestica gli uomini affinché non anelino al benessere lui, che al benessere non intende rinunciare. Il nuovo filosofo che parla della necessità di annientare la volontà di vivere per giungere alla beatitudine. La Prussia deve far diventare "famoso" l'emarginato Schopenhauer perché così avrebbe contribuito ad addomesticare gli spiriti ribollenti della democrazia in una perenne negazione della volontà di vivere nelle persone.

Lo "spirito" commerciale che il padre gli aveva infuso lo aveva portato a costruire la filosofia del fallimento esistenziale ad immagine del fallimento economico che popola i sogni di ogni commerciante. Tutto il mondo doveva essere povero, negare la propria volontà di esistenza in funzione di una beatitudine che consentisse al commerciante di camminare onnipotente sui cadaveri della miseria che supplicava briciole pagandole a caro prezzo.

La Prussia aveva bisogno di un filosofo che esaltasse la sottomissione, la miseria, l'obbedienza, la rinuncia ad affermare sé stessi nella vita quotidiana, da opporre alla "sinistra hegeliana" che rivendicava una vita quotidiana fatta di diritti sociali che l'imperatore non voleva concedere. Questo filosofo era il filosofo che serviva al potere della nuova Prussia.

Nel 1851 Schopenhauer pubblica "Parerga und Paralipomena" una raccolta di scritti minori, appunti, sottotitoli, frammenti, aforismi, ecc. che non essendo impegnativi vengono accolti dal grande pubblico. Questo piccolo successo permette all'Impero Prussiano di arruolare il dimenticato Schopenhauer come il filosofo rappresentativo dell'Impero.

Nel 1852 uno storico della filosofia Johann Eduard Erdmann (1805 – 1892) professore straordinario ad Halle scrive un saggio su Schopenhauer che viene pubblicato sulla rivista "Zeitschrift fur Philosophie".

Nel 1853 esce un altro articolo a firma di John Oxenford. Un articolo dal titolo "Iconoclasm in German Philosophy" finalizzato a promuovere la filosofia di Schopenhauer in contrapposizione alla filosofia di Hegel.

Altri articoli di propaganda usciranno nel 1856 sulla "Revue des deus mondes" e l'università di Lipsia, sempre nel 1856, bandisce un concorso studio sulla filosofia di Schopenhauer.

Nel 1858 De Sanctis sulla rivista di Torino "Rivista contemporanea" pubblica un saggio su "Schopenhauer e Leopardi".

Nel 1859 viene ripubblicato "Il mondo come volontà e rappresentazione".

Nel 1860 viene ripubblicato "I due grandi problemi dell'etica".

Il 21 settembre muore Arthur Schopenhauer.

Il patrimonio di Schopenhauer, per testamento, viene versato a "L'Istituto di soccorso fondato a Berlino a favore dei soldati prussiani caduti e feriti per il ristabilimento dell'ordine dei moti del 1848-49". Il patrimonio di Schopenhauer viene devoluto contro le "cialtronerie" democratiche (come se i figli di quei soldati non avessero dovuto beneficiare delle regole democratiche). Il mondo di Bismark stava arrivando e i democratici andavano ammazzati. Dà disposizioni affinché ci si occupi del suo cane, della casa e i documenti favorendo la domestica Margaretha Schnepp.

 

Marghera, 31 dicembre 2018

 

Pagina tradotta in lingua Portoghese

Tradução para o português: Capítulo 117 A biografia de Arthur Schopenhauer - trigésima quarta biografia

 

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Claudio Simeoni

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