Giandomenico Romagnosi

Le biografie dei giocatori - cinquantottesima biografia

Capitolo 141

La partita di calcio mondiale fra i filosofi

Claudio Simeoni

 

Le biografie dei filosofi che partecipano alla partita di calcio

 

La biografia di Giandomenico Romagnosi

 

Gian Domenico Romagnosi nasce a Salsomaggiore Terme l'11 dicembre 1761 da Bernardino e Marianna Trompelli. Romagnosi morirà nel 1835.

La filosofia di Romagnosi è strettamente legata alle vicende sociali del suo tempo. Romagnosi nasce trenta anni prima, circa, della Rivoluzione Francese, vive tutto il periodo napoleonico e morirà circa 20 anni dopo la sconfitta definitiva di Napoleone accusato di partecipare ai primi moti risorgimentali italiani per l'amicizia con Silvio Pellico.

Romagnosi non è il filosofo che si distacca dalla realtà e sulla realtà proietta una sua idea. Non è nemmeno il filosofo asservito ad una qualche forma di potere che deve giustificare filosofando. E' il filosofo che partecipando e riflettendo sulla realtà che sta vivendo tenta di elaborare un progetto di futuro possibile.

Pur rintracciando nella filosofia di Romagnosi elementi cristiani, massoni, illuministi o napoleonici (la necessità del codice civile), non si può imputare a Romagnosi di aver usato la filosofia al servizio del cristianesimo, della massoneria, dell'illuminismo o del bonapartismo.

Romagnosi appare come un filosofo anomalo nel contesto della filosofia italiana e mondiale.

Nel 1775 frequenta il collegio Alberoni di Piacenza fino al 1781. A Piacenza c'è il professor Giovanni Antonio Corni. Corni, professore di filosofia dell'Alberoni, commenta scritti e opere provenienti dall'estero, come Helvetius, Mettrie e d'Holbach. Commenta gli illuministi francesi e le idee della rivoluzione francese. Si tratta di un professore che eserciterà una notevole influenza su Romagnosi per tutta la vita.

Nel 1782 Romagnosi si iscrive all'università di Parma e si laurea nel 1786.

Nel 1789 Romagnosi scrive "Genesi del diritto penale" che sarà pubblicata a Parma nel 1791. Il libro sarà riveduto successivamente e ristampato a Milano nel 1824.

Nel 1790 fa parte dell'Accademia degli Ortolani di Piacenza.

Nel 1791 Romagnosi viene nominato pretore a Trento.

Nel 1792 Romagnosi pubblica "Cosa è eguaglianza".

Nel 1793 Romagnosi scrive "Cosa è libertà" e "Primo avviso al popolo", che mostrano simpatie rivoluzionarie. Il suo incarico gli procura contrasti con il principe vescovo di Trento, il conte Pietro Vigilio Thun: questi gli concede comunque il titolo di consigliere aulico d'onore.

Nel 1795 Romagnosi scrive "Ricerca sulla validità dei giudici del pubblico a discernere il vero dal falso". Scrive il testo per partecipare ad un concorso dell'Accademia di Mantova.

Nel 1799 Romagnosi viene arrestato e incarcerato a Innsbruck. La rivoluzione francese sta un po' contagiando l'Europa. Incarcerato per quindici mesi, sarà assolto e scarcerato. In prigione scrive "Delle leggi dell'umana perfettibilità per servire ai progressi delle scienze e delle arti".

Nel 1802 Romagnosi scopre gli effetti dell'elettromagnetismo. Scrive una relazione scientifica che pubblica sui giornali di Trento e Rovereto. Inoltre, Romagnosi invia una relazione scientifica all'accademia di scienze della Francia che ignora la sua relazione. La scoperta di Romagnosi aveva preceduto di dieci anni la scoperta dell'elettromagnetismo di Hans Christian Orsted.

Nel 1803 con l'arrivo di Napoleone a Trento, Romagnosi è in grado di lasciare la città chiamato da Parma per coprire la cattedra di Diritto pubblico di quella università.

Nel 1797 durante la campagna d'Italia del generale Napoleone, i giacobini istituirono la "Repubblica Cisalpina" che dal 1805 divenne il Regno Italico che durerà fino al 1814. Tutta l'azione del Romagnosi fino al 1814 si inserisce nel tentativo di definire il sistema giuridico del nuovo Regno Italico che sparirà con la fine di Napoleone.

Nel 1805 Romagnosi pubblica "Introduzione al diritto pubblico universale" e nel 1806 è invitato a Milano incaricato di rivedere il progetto del Codice di Procedura Penale. Durante il Regno Italico, Romagnosi a Milano fu iniziato massone nella Loggia "Reale Giuseppina". Come Massone raggiunse vari gradi diventando Oratore e Maestro Venerabile.

Nel 1807 Romagnosi consegna la modifica del nuovo Codice di Procedura Penale che entra in vigore in quell'anno. In sostanza Romagnosi fu molto insistente mettendo l'accento sui diritti dell'imputato, la riabilitazione del condannato e la possibilità di rivedere il processo. Nelle sedute e nei dibattiti Romagnosi si oppone affinché il ministro non potesse inserire nel Codice di Procedura Penale un istituto simile alle "lettere di cachet" come vigeva in Francia prima della rivoluzione. Una sorta di arbitrio con cui incarcerare le persone con motivazioni del tipo "sicurezza nazionale". Subito dopo Romagnosi viene incaricato di riorganizzare l'ufficio della Corte di Cassazione e nel 1807 è nominato consulente del ministero della Giustizia con l'incarico di Ispettore delle scuole legali.

Romagnosi è un elemento giuridicamente importante del Regno Italico voluto da Napoleone. Romagnosi porta nel sistema giuridico del Regno Italico alcuni principi della rivoluzione francese come modificati da Napoleone con l'introduzione del diritto alla proprietà privata e al codice civile. Con l'introduzione del codice civile, Stato e cittadino sono due entità che possono rivendicare i rispettivi diritti in giudizio. Questa è una novità storica portata dalla Rivoluzione Francese e attuata da Napoleone.

Nel 1808 Romagnosi viene nominato professore di Alta Legislazione nelle Scuole speciali di diritto del Regno Italico.

In questi anni Romagnosi scrive "Della costituzione di una monarchia costituzionale rappresentativa" il cui titolo sarà cambiato in seguito in "Scienza delle Costituzioni" che come opera più completa sarà pubblicata postuma nel 1849.

Romagnosi non tratta di ogni Costituzione o di ogni possibile Costituzione, ma solo delle Costituzioni monarchiche.

Scrive Romagnosi aprendo l'introduzione al volume primo:

«In tutti i paesi inciviliti dell'Europa si e sollevata una voce che implora costituzioni monarchiche adattate alla situazione dei diversi popoli. Alcuni principi illuminati hanno già secondato questa voce, ed altri vi sembrano propensi.»

Giandomenico Romagnosi, Opere scelte, Della Costituzione di una monarchia nazionale rappresentativa (La scienza delle Costituzioni), a cura di Guido Astuti e Federico Papetta, Reale Accademia d'Italia, Roma, 1937, p. V

Secondo Romagnosi in Europa si aspirava a Costituzioni monarchiche ed erano le Costituzioni monarchiche l'oggetto del suo studio. Romagnosi considerava le Costituzioni repubblicane "estremiste" e di difficile gestione. La situazione in Europa iniziò a cambiare solo dopo la morte di Romagnosi, dopo il 1848.

E' interessante, a questo proposito, ricordare come l'idea della necessità di una Costituzione entrò in Italia e si diffuse fra il popolo italiano.

Scrive nella prefazione Federico Patetta:

A far conoscere alla massa degli Italiani il regime costituzionale, a farlo desiderare da molti, a far divenir «una moda (come scriveva l'autore già citato delle Memorie sulla Costituzione immaginata da Pier Leopoldo) l'immaginar Costituzioni e crearne a fantasia dei pochi ragionatori come dei molti scrittori per trastullo accademico», concorsero in Italia, dopo l'invasione francese, due correnti opposte, la francese e l'inglese.
Le armate francesi, avanzando di vittoria in vittoria dalle Alpi al Regno di Napoli, divulgavano fra le popolazioni, insieme coi magniloquenti proclami e cogli scritti di propaganda, le raccolte delle loro canzoni e la Costituzione del 1795. Silvio Pivano, nel suo bel libro sugli Albori costituzionali d'Italia, fece appunto conoscere, da un esemplare di mia proprietà, un libricciuolo di piccolo formato, che doveva esser distribuito dall'Armata d'Italia: Acte constitutionnel de la République Française une et indivisible. Dans l'imprimerie de l'Armée d'Italie an … Il volumetto contiene il testo francese e a fronte la traduzione italiana della nuova Dichiarazione dei diritti e dei doveri dell'uomo e del cittadino, e della Costituzione del 5 fruttidoro anno II.
Napoleone, formatisi i nuovi piccoli Stati italiani, aveva gran fretta che ciascuno si desse una Costituzione propria. Curiose sono a questo proposito le notizie date da Giuseppe Compagnoni, inviato con due colleghi a Bologna per conferire con Napoleone sulla Costituzione di quella che fu l'efìmera Repubblica Cispadana.
Napoleone entrò in molti particolari della Costituzione che doveva farsi, e molti punti e molti principii additò, convenienti a seguirsi, terminando col dire che erano liberi di abbracciare qualunque forma di governo, anche la monarchica (che sarebbe stata, naturalmente, monarchica costituzionale). Inutilmente il Compagnoni fece osservare a Napoleone che commettere loro l'opera di una Costituzione era lo stesso che «commettere ad un ciabattino la fattura di un bel paio di stivali ». La sua franchezza non giovò. Il Congresso stava ancora faticosamente elaborando la disgraziata Costituzione, quando giunse al Presidente Bertolari l'ordine di mandare immediatamente una deputazione a Bologna. Ne fece di nuovo parte il Compagnoni, il quale annunziò a Bonaparte che la Costituzione gli sarebbe presentata fra due giorni, e si sentì rispondere: « Sapete che ho a dirvi? Che se fra due volte ventiquattro ore io non ho la Costituzione, metto il vostro paese sotto un governo militare. Voi vi siete là abbasso perduti a far un mondo di chiacchiere inutili. Al che il Compagnoni avrebbe ribattuto: «Cittadino Generale! dovete ricordanti che avete commesso la fattura di bei stivali a dei ciabattini, ed è meraviglia che pur siasi riuscito di fare una Costituzione, considerata la nostra inesperienza». Poichè il conoscere la propria e l'altrui ignoranza è il primo passo verso la scienza, fu provvido consiglio nominare poco dopo il Compagnoni professore di diritto costituzionale nell'Università di Ferrara, dove egli iniziò le sue lezioni in sui primi di maggio del 1797, e le pubblicò poi a Venezia, nel luglio dello stesso anno, col titolo di Elementi di diritto costituzionale, dedicandole al Direttorio esecutivo della Repubblica Cisalpina. Sarebbe troppo lungo e fuor di luogo parlare qui delle varie Costituzioni repubblicane promulgate in Italia. Trasformata la Repubblica Italiana in Regno d'Italia, nel Primo Statuto costituzionale, del 17 marzo 1805, era detto: « Entro l'anno corrente l'Imperatore Napoleone, col parere della Consulta di Stato e delle Deputazioni dei Collegi elettorali, darà alla Monarchia Italiana Costituzioni fondate sopra le stesse basi di quelle dell'Impero Francese, e sopra i principi medesimi delle leggi ch'egli ha già date all'Italia », Seguirono infatti nello stesso anno 1805 due altri Statuti costituzionali, e sei negli anni successivi, dal 1806 al 1810. Due articoli del primo Statuto, non dimenticati certo dagl'Italiani dopo la caduta di Napoleone, dicevano: «Tosto che le armate straniere si saranno ritirate dal Regno di Napoli, dalle Isole Jonie e da quella di Malta, l'Imperatore Napoleone trasmetterà la corona d'Italia ad uno de' suoi figli maschi legittimi, sia naturale o adottivo. Da quest'epoca, la corona d'Italia non potrà essere più unita colla corona di Francia nella stessa persona, ed i successori di Napoleone I nel Regno d'Italia dovranno stabilmente risedere sul territorio della Repubblica Italiana».
Nel proclama del 19 marzo, col quale la Consulta di Stato della Repubblica Italiana accompagnò la pubblicazione del Primo Statuto costituzionale, è detto che Napoleone sarebbe venuto fra poco ad occuparsi definitivamente d'una organizzazione che anche meglio assicuri la felicità dei Popoli d'Italia.

Giandomenico Romagnosi, Opere scelte, Della Costituzione di una monarchia nazionale rappresentativa (La scienza delle Costituzioni), a cura di Guido Astuti e Federico Papetta, Dall'introduzione di Federico Papetta, Reale Accademia d'Italia, Roma, 1937, p. X – XIV

Parlare di Costituzione prima dell'arrivo di Napoleone, era considerato eversivo. La Costituzione Repubblicana, nata dalla Rivoluzione Francese, terrorizzava l'Europa. La Costituzione Monarchica era una richiesta che i sudditi rivolgevano al re e il re, nella sua "bontà" concedeva loro salvo sospenderla quando gli avrebbe fatto comodo. Con l'arrivo di Napoleone gli italiani cominciarono a pensare che non solo Dio aveva dei diritti, ma che anche i cittadini avevano il diritto di rivendicare diritti nei confronti di Dio. All'inizio è un sussurro, una fantasia di sudditi che vorrebbero promuovere sé stessi nella società. Poi diventa una richiesta per la quale i sudditi si organizzano nel tentativo di diventare "cittadini". In Europa, tutti gli Stati erano retti da monarchie assolute.

Nel 1812 Romagnosi pubblica "Sulle prede marine" e "Sulla qualificazione dei fiumi" e "Sulle forme dei testamenti". E' direttore del Giornale di Giurisprudenza.

Romagnosi collabora a riviste varie fra la fine del Regno Italico e l'inizio dell'occupazione austriaca. "Gli Annali Universali di Statistica", "Conciliatore" e "Biblioteca italiana".

Nel 1814 Romagnosi pubblica "Sulla cittadinanza e la forensità" e "Sulla pubblicità dei giudizi criminali".

Nel 1814 Romagnosi pubblica "Principi fondamentali di diritto amministrativo".

Nel 1814 finisce il Regno Italico e il nord-Italia è sotto il controllo dell'Austria. Romagnosi pubblicando "Della costituzione di una monarchia costituzionale rappresentativa" viene messo sotto controllo dalla polizia austriaca. E' l'unica opera pubblicata da Romagnosi quand'era in vita. Quasi tutto il resto sarà pubblicato postumo.

Nel 1817 vengono soppresse le scuole speciali di diritto.

Dopo il 1815 la restaurazione dei regimi precedenti alla Rivoluzione Francese cancella molte delle libertà civili e in particolar modo la libertà di associazione e di pensiero. La neonata democrazia fu soffocata dapprima dall'impero napoleonico e poi dalla restaurazione dei vecchi regimi dittatoriali.

Nel 1821 il giudice Antonio Salvotti di Venezia (sembra che a Venezia vi sia una lunga tradizione di odio democratico fra i giudici) fa arrestare Silvio Pellico, elementi della Carboneria e anche Giandomenico Romagnosi. Antonio Salvotti trova negli scritti di Giandomenico Romagnosi indizi per la sua tesi (sembra quasi una riproduzione del "grande vecchio" del famigerato Pietro Calogero e della banda di torturatori che ha capeggiato). A differenza degli imputati da Pietro Calogero, gli imputati da Antonio Salvotti si possono difendere. Giandomenico Romagnosi contesta le considerazioni di Salvotti e nel dicembre del 1821 Romagnosi viene scarcerato.

Cosa trova Salvotti nei manoscritti di Romagnosi?

Fra i manoscritti di Romagnosi c'è né uno, in particolare, che verrà pubblicato nel 1849 come seconda parte del libro "Scienza delle Costituzioni". Si tratta della "Teoria speciale" in cui Romagnosi riflette sulla situazione del suo tempo e, mentre riflette elabora le considerazioni su una possibile Costituzione futura. L'assolutismo dei principi del suo tempo porta Romagnosi a manifestare la necessità di diluire un po' questo assolutismo.

Scrive Romagnosi nella Teoria Speciale:

Stato delle attuali cognizioni in materia di leggi fondamentali. Necessità della cognizione dei principi.

Nel mondo delle nazioni l'uomo tanto può quanto sa. Dunque prima di tutto conviene conoscere le dottrine di ragione di un temperato regime adatto ad una grande ed incivilita nazione. Poco è conoscere gli esempi, molto è conoscere i principii: tutto è conoscere l'arte di fondare e ordinare i poteri eminenti dello stato. Ho detto che noi conosciamo sufficientemente la teoria dell'eguaglianza, ma non conosciamo egualmente quella della libertà, e di quella libertà che deve risultare da un governo rappresentativo. Gli uomini più illuminati comprendono che la teoria dei governi rappresentativi è una teoria del tutto nuova. Le leggi quindi ordinatrici dei rappresentativi governi non possono secondo il corso naturale delle cose essere ancora perfette. Da Platone in qua fu ripetuto che le leggi non vengono perfezionate che colla scuola del tempo. Le leggi fondamentali dunque dei governi rappresentativi debbono subire il loro tirocinio al pari delle leggi di qualunque ordine. Diciamo ancor di più. Una lotta più terribile è riservata a queste leggi, perocchè si tratta della riforma dei poteri dominatori delle genti. L'impresa sarebbe disperata, se un potere che sfugge le baionette e le catene non venisse alle prese colla ragione armata dei re, e se questa ragione armata non avesse il suo principio nella stessa opinione.
Questa opinione può dirsi veramente trionfante sol quando sa ben distruggere e ben edificare. Io non esigo perciò da tutto il mondo una completa cognizione della meccanica politica dei rappresentativi governi. Basta che questa scienza si trovi presso coloro ai quali fu commesso di ordinare la repubblica, e che nei più arda il desiderio della riforma. Per buona nostra sorte le grandi verità politiche quando sono compiutamente esposte sono sentite senza abbisognare di penose dimostrazioni. La cautela con la quale una prudente famiglia commette i suoi interessi ad un terzo, è sostanzialmente la stessa colla quale un popolo commette i suoi al suo governo. L'analogia dunque serve mirabilmente a far comprendere ed approvare le cautele costituzionali dettate dalla necessità ed esposte senza riguardi. Facile è dunque l'accoglimento delle buone teorie costituzionali presso i popoli, ma non è egualmente facile la loro scoperta e la loro esposizione.
Improvvisare una legge costituzionale è opera d'una intelligenza infinitamente superiore alla comune comprensione umana. Ma colla scuola di trent'anni, colle dispute di uomini pensatori, col meditare le leggi vitali degli stati, non si può forse sperare di far progredire la scienza? Capisco che si è agito molto e pensato poco; capisco che dall'essersi più imitato che pensato, si è fabbricato male, e coll'essersi mal fabbricato si è lasciato un gran vantaggio alla causa del dispotismo: ma nello stesso tempo intendo, che studiando gli errori commessi e indagandone le cagioni si giunge finalmente a scoprire il sentiero della verità. Lunga e penosa maniera è questa di giungere al vero e al bene, ma per mala nostra sorte è quella che ci pare riservata su questa terra. So che a movere le popolazioni non basta ancora il mostrar loro il vero; ma che fa d'uopo di farlo loro praticare quasi per forza; ma so del pari che almeno i pochi lo abbracciano quando loro sia svelato. Debole è per se stessa la voce del saggio, ma divien trionfante per l'opera stessa de' suoi nemici. Essi vessano, percuotono ed opprimono in tante maniere che fanno nascere il bisogno delle politiche riforme. Quale un malato tormentato dai dolori, le afflitte popolazioni cercano allora un rimedio, e venendo loro proposto dall'autorità e dall'esempio stendono la mano per approfittarne.
Ma a colui che scrive delle cose di uno stato, bastar forse può il solo esempio? Non mai. E' d'uopo a lui conoscere la meccanica politica, non per autorità ma per principii. E' necessario inoltre comunicarli agli ordinatori degli stati con tanta pienezza, ch'essi possano far senza degli esempi e camminare per sè stessi nella nuova carriera delle politiche riforme. Ardito sembrerà il pensiero di camminar per sè stessi a quelle anime alle quali mancando la dimostrazione o la confidenza nella teoria, non trovano appoggio che nell'autorità: ma a dir vero se mi conviene lodare il sentimento che gli anima di non arrischiare la cosa pubblica, io non posso approvare il partito che abbracciano. Uno è lo spirito, una la forza delle cose, e talmente unica, che se non viene colta tutta e praticata sola, noi siamo defraudati del proposto intento. Colla imitazione siete forse sicuro di aver colto il meglio? Colla imitazione siete forse preparato ai casi inopinati? Colla imitazione sapete forse se dovete progredire od arrestarvi? Colla imitazione finalmente potete voi discernere le eque dalle inique, le legittime dalle spurie leggi fondamentali?

Delle Anti-Costituzioni

E per verità ognuno comprende che la costituzione politica di uno stato non è per sè stessa un bene, ma uno stromento per conseguirlo e guarentirlo. Io veggo una sentinella ad una porta e domando che cosa ella custodisca? Se mi vien risposto, ch'essa custodisce contro i ladri una casa di benefici cittadini, io la riguardo come un beneficio. Se per lo contrario mi venga risposto ch'essa custodisce i prigionieri di un tiranno, io la riguardo come un maleficio. Ecco l'immagine delle diverse costituzioni di fatto che presentare si possono agli occhi nostri. Veggo io un governo costituzionale nel quale sono effettuati i diritti dell'eguaglianza, della libertà e della sicurezza comune? Allora io chiamo la sua legge fondamentale col nome di "costituzione equa". Veggo all'opposto ch'essa protegge tutte le differenze odiose dell'avarizia e dell'ambizione ed inceppa i movimenti sociali? Allora io la chiamo col nome di "costituzione iniqua". La società custodita non è società umana, ma società leonina. La carta costituzionale non è carta di comuni diritti, ma carta di privilegi. Tale è l'inglese costituzione. Dove i cadetti sono per legge esclusi dalle eredità immobiliari; dove il re è considerato il proprietario eminente del regno; dove una classe privilegiata entra nel parlamento per solo conto proprio; dove due milioni sono tutto, e dodici milioni sono nulla, anzi positivamente servi oppressi e miseri; dove il parlamento è una larva per coprire l'oligarchia ministeriale ecc., la condizione della società è iniqua, e quindi iniquo il governo che la sostiene. La forma di lui e di altri simili non è dunque una costituzione, ma "un'anti-costituzione".
Io prescindo dal mostruoso congegno dei poteri di quel governo, e mi valgo del solo senso dell'eguaglianza violata per far sentire la sua iniquità. E come mai uomini stimabili hanno potuto presentarci una carta d'iniquità come modello di una libera costituzione? Essi hanno veduto alcuni ricchi insultare con fasto; molti mercanti cumulare oro assai; essi hanno sentito a gridar liberamente, e quindi hanno concluso che gli abitanti erano liberi e felici. Qui non v'è luogo a repliche. E' vero o no che l'inglese costituzione legalmente sanziona e vuole la civile disuguaglianza? E' vero o no che lo stato di fatto de' suoi popoli è afflitto da una dura aristocrazia? E' vero o no che la sorte della pluralità è vittima di questo mostro? E' vero o no che la natura e la religione proscrivono questo stato? E' vero o no che iniquo dicesi tutto ciò che è contrario alla naturale equità o equalità? Dunque la costituzione inglese e tutte quelle che si fondano sui privilegi e tollerano leggi di disuguaglianza sono inique. Come giudicare non si può d'un libro dal solo frontispizio, e di una fabbrica dalla sola facciata, così per giudicare d'una politica costituzione non basta di conoscerne le sole forme isolate. Egli è necessario internarsi nel suo meccanismo, rilevarne il giuoco pratico, vederne i frutti naturali, cioè l'indole delle leggi e le qualità dell'amministrazione. Se dopo riottosa e convocarne un'altra più docile, e se m fine può alterare o abolire lo statuto costituzionale? Una costituzione è essenzialmente una legge obbligatoria i governanti a reggere lo stato giusta il sociale contratto. Togliete alla legge la forza obbligante; lasciate al governante o una inopportuna latitudine di poteri o una forza soverchia per resistere o per paralizzare la legge, allora non esiste più una costituzione, ma solamente una pseudo-costituzione.
Invano per sottrarla da questa taccia, voi mi citerete o codici ragionevoli, o assemblee radunate, o corpi stabiliti, o forme osservate ecc. ecc. Quando la volontà del regnante non trova un'effettiva potenza che comprimer possa i suoi eccessi; quando essa spaventa e move a grado suo le volontà degli antagonisti nazionali; quando dal suo beneplacito dipende l'esistenza dell'assemblea, dei corpi, delle forme, tutto non è che apparenza di governo guarentito, tutto non è che precario, ossia sussiste a piacere del monarca. Sotto l'imperiale regime francese, non esisteva forse un corpo legislativo, un senato, un sistema di forme legali? ecc. ecc. Eppure chi oserebbe dire che in allora la volontà nazionale fosse libera e prevalente; che i freni al potere imperiale fossero energici; che infine il governo agisse sotto l'influenza del voto della società? Pseudo-costituzione fu dunque la imperiale al pari della borbonica, colla differenza che se colla imperiale era stata usurpata la libertà, si lasciava almeno intatta l'eguaglianza, dovecchè sotto la borbonica si attenta visibilmente anche a quest'ultima.
Forse mi si dirà che una vera e legittima costituzione non può essere nè accordata nè sostenuta tutta ad un tratto, e che convien saper buon grado a quei principi i quali accordano almeno qualche cosa e incominciano il tirocinio della libertà. Io non sono per impugnare questa osservazione e questo sentimento: io non voglio rigettare un bene anche imperfetto. Io insisto solamente nella distinzione delle pseudo-costituzioni dalle legittime onde formare un giusto criterio e preparare le vere dottrine della perfetta e durevole politica libertà. Niuno più di me è persuaso che la perfetta libertà è un peso che non si può tutto ad un tratto sopportare; ma ognuno deve pur essere persuaso che convien conoscere tutto il bene, ossia meglio tutta la guarentigia politica alla quale la natura chiama le nazioni incivilite. Se gli uomini ed i governi si potessero fermare a mezza strada, forse si potrebbe prescindere dal mostrare loro l'ultimo punto al quale la natura chiama i governi: ma a chi conosce la possanza infinita e segreta che agita il mondo morale e che forma la legge imperiosa della vita degli stati, si rende manifesto doversi conoscere anticipata mente il modello perfetto delle politiche costituzioni come lo stato vero di riposo delle nazioni incivilite. Senza di questa precedente cognizione il movimento progressivo delle genti non può riuscire che disastroso pei governanti e pei governati, perocchè il colmo della demenza sarà sempre quello di voler arrestare o far arretrare la ruota del tempo mossa dalla mano stessa di Dio.

Delle ultra-Costituzioni

Manca un intento, sia che i mezzi impiegati nol raggiungano, sia che lo sorpassino. Fu detto che l'intento proprio ed immediato d'ogni politica costituzione si è il temperare il potere dei governanti, sia individuali, sia collettivi in modo di ottenere perpetuamente l'esecuzione del sociale contratto. Questo intento è propriamente la funzione voluta dalla costituzione, come il segnare delle ore è la funzione voluta o l'intento proposto nel costruire un orologio. Ma temperare questo potere non è spegnerlo, scemarlo, imbarazzarlo, ma sol contenerlo entro l'orbita della giustizia. L'opposizione adunque, ossia meglio l'antagonismo non deve nuocere alla pienezza dell'amministrazione, ma solo prevenirne o correggerne gli eccessi. La costituzione dunque deve nello stesso tempo guarentire ed afforzare i diritti del popolo e del principato, ed in questa simultanea guarentigia e rinforzo consiste il giusto temperamento bramato.
Se dunque si dia troppo all'opposizione si nuoce all'amministrazione, e il popolo non può essere ben governato. Se dal complesso delle funzioni essenzialmente amministrative voi sottraete una parte per trasportarla a qualche antagonista costituzionale, voi commettete il doppio male di privare l'amministrazione d'una parte essenziale del suo esercizio a danno della cosa pubblica e di porre in altre mani senza opposizione una facoltà che rimaner doveva nel principe sotto l'opposizione. Voi per tema del dispotismo di uno o di pochi vi sottomettete al dispotismo dei molti, e nello stesso tempo suscitate una lotta fra gli ordini dello stato la quale non può finire che coll'usurpazione del potere della parte più forte o coll'anarchia. Ma sia che voi cadiate sotto il potere assoluto di un solo, sia che cadiate sotto quello di pochi, o di quello di molti, voi sarete sempre tiranneggiato, perocchè tutti sono della stessa pasta e tutti abuseranno sempre di un potere non contenuto. Col voler dunque angustiar troppo il potere amministrativo non si stabilisce una vera costituzione, ma "un'ultra-costituzione". Dicesi un'ultra-costituzione per significare ch'ella pecca per eccesso, dove che le pseudo-costituzioni peccano per difetto.
Le pseudo-costituzioni e le ultra-costituzioni sono i due estremi fra i quali saranno sbattuti gli stati fino a che si giunga a conoscere il giusto mezzo, e fino a che uomini i quali lo conoscano e lo amino possano farlo adottare. Prima di questa felice congiuntura il mondo civile non vedrà dominare che "pseudo-costituzioni" od "ultra-costituzioni". Quando la riforma politica sarà data dai principi avremo sempre pseudo-costituzioni ed anche anti-costituzioni. Quando sarà data dal popolo, non bene istrutto, avremo sempre ultra-costituzioni, I principi vorranno sempre dare il meno che possono ed anche collegarsi coi nobili e cogli stranieri per rinforzare il loro potere. I popoli vorranno sempre pigliare più che possono, anche con detrimento dell'autorità governativa, purchè nutriscano la lusinga di acquistare maggiore libertà. Ciò però non può aver luogo che nel periodo dell'ignoranza. Perocchè data la cognizione piena delle condizioni necessarie ad un'amministrazione guarentita, niuna nazione potrà mai avere interesse a rifiutarle atteso che una nazione vuole "il frutto" e non le forme. E se forme d'una influenza più o meno luminosa possono solleticare qualche ambizioso rappresentante, esse divengono sospette ed odiose all'universalità la quale vuol essere sicura, libera e protetta contro tutte le ambizioni.

Giandomenico Romagnosi, Opere scelte, Della Costituzione di una monarchia nazionale rappresentativa (La scienza delle Costituzioni), a cura di Guido Astuti e Federico Papetta, Teoria speciale, Reale Accademia d'Italia, Roma, 1937, p. X – XIV p. 865 – 872

In questo primo estratto Romagnosi individua quanto a suo parere concorre e necessita per imporre una Costituzione ai popoli.

Queste idee di Romagnosi guideranno tutta la sua attività sociale e giuridica finendo per porre le basi di una "filosofia della necessità sociale".

Le Costituzioni sono una risposta all'assolutismo monarchico. Romagnosi si pone la necessità di temperare, rendere meno assoluto, il potere del principe e dei suoi ministri. Si tratta di una necessità storica nella quale i popoli si stanno gettandosi a capofitto anche se i tempi, in cui Romagnosi scrive, non sono ancor maturi.

Il principe, il re, rimane ancora l'elemento centrale in cui si identifica lo Stato. A Romagnosi interessa allargare il numero delle persone che collaborano col re e che ne temperino le decisioni.

Romagnosi è stato testimone della Rivoluzione Francese e della nascita del primo sistema Costituzionale al mondo (quello americano non conta anche se Romagnosi era massone). Un sistema Costituzionale di diritti che ha unito la Francia, ma che è stato, in seguito, modificato da Napoleone Bonaparte. Quella modificazione che ha introdotto nella società il Codice Civile lo ha portato a riflettere sul come modificare il presente, in base alle condizioni del "principe" nel presente, per costruire un diverso futuro. Romagnosi non propone uno strappo con il passato, ma modifica il presente con un "sistema costituzionale capace di temperare l'assolutismo" per aprire ad un futuro possibile.

E ancora sempre nella Teoria Speciale:

Dei titoli fondamentali di ragione per istituire il governo temperato

Dell'obbligo naturale di istituire il governo temperato

La ragione costituzionale altro non è propriamente, che un ramo del diritto naturale politico, preso in tutto il suo rigore. Essa ne forma il complemento, come il sociale contratto ne forma il principio. Quegli scrittori pertanto che trattarono delle diverse forme dei governi, come di cose di convenienza, anzichè di rigoroso dovere di ragion naturale, o non conobbero o dissimularono i rapporti naturali e necessari dell'ordine di ragione delle umane società. Questi rapporti sono imperiosi tanto per determinare il titolo generale, quanto per dettare le forme particolari dei governi umani. Distinguiamo il "titolo legale" dalla pratica potenza od opportunità a farlo valere. I mali dell'anarchia fecero erigere in rigoroso dovere lo stabilimento del principato. E perchè dunque i mali del dispotismo non fecero erigere in rigoroso dovere lo stabilimento delle politiche costituzioni? Forsechè l'obbligo di evitare l'anarchia non. inchiuda essenzialmente il motivo di ottenere mediante il governo il sicuro esercizio dei naturali diritti? Forsechè il principato importa il diritto di malmenare, o non piuttosto l'obbligo di reggere con giustizia? Ora, se col potere assoluto è impossibile ottenere lo scopo del principato, egli è manifesto che il motivo stesso che induce la società a non dar luogo all'anarchia, deve indurre a non dar luogo agli arbitrii principeschi.
Parlando con esattezza si può dire, che la mancanza di costituzione forma l'anarchia principesca, come la mancanza di principato forma l'anarchia popolare. L'anarchia non è per sè stessa un male, ma è causa di mali solo fra uomini che "hanno bisogno di convivere" fra di loro con un cert'ordine. Fingete difatti gli uomini come animali bastanti a sè stessi: allora cessa la necessità non solo di qualunque governo, ma persino di qualunque società. Fingete anche gli uomini bisognosi di società, ma illuminati ed equi, ed allora non è. necessario nè giusto principato alcuno. Fingete finalmente i principi naturalmente illuminati e provvidi, ed allora non è necessaria costituzione alcuna. Ma se uomini bisognosi d'una data società, abbisognano del principato per effettuare e mantenere quel dato ordine di "convivenza", egli è perciò stesso evidente che il principato deve agire unicamente nel senso di quest'ordine per la esecuzione del quale fu instituito, Dunque se la natura stessa fallibile e cupida dei principi, che sono della stessa pasta dei privati, li fa traviare dal loro uffizio, egli ne verrà che il titolo stesso, per cui fu stabilita la società e il principato obbligherà pure a stabilire la politica costituzione.
Per la qual cosa, o convien lasciare di parlare della creazione e del mantenimento del principato, come di cosa di rigoroso diritto, o convien concedere che la creazione ed il mantenimento delle costituzioni cade sotto lo stesso titolo.
La forza di questa conseguenza è così irrefragabile che non può essere contrastata che o dall'ignoranza, o dalla servilità, o da una cieca ambizione. Direte voi che una costituzione è cosa desiderabile, ma non eseguibile salva l'integrità del principato? A ciò rispondo, che questa obbiezione versar può tanto sul fatto quanto sul diritto, Considerando i rapporti di fatto, noi per ora li possiamo separare dalla quistione. Altro è infatti il dire che posto il fine del principato, e data la natura dei principi assoluti, sia necessario un freno legale per essi, come è necessario per i cittadini, ed altro è il dire che questo freno non sia praticabile o compatibile colla integrità del principato. Per ora mi basta di provare che il "titolo legale" è lo stesso di quello di allontanar l'anarchia e che versa sullo stesso oggetto. A suo luogo io proverò che la pretesa impossibilità pratica dei freni costituzionali è palmarmente falsa. Quanto poi all'in- compatibilità obbiettata colla integrità del principato, io credo necessari alcuni schiarimenti onde fissare l'oggetto preciso del diritto, o almeno i "limiti", del medesimo.
Dico adunque che la giusta pretesa di dar costituzioni non versa sulla "sostanza" del diritto dell'impero, ma solamente sulla "forma" del di lui esercizio. Non confondiamo il potere assoluto col dispotico. Il primo altro non è, che il potere di eseguire e far eseguire il sociale contratto accordato "fiduciariamente", ossia senza altre cauzioni che la presunta buona volontà o la parola data dal principe. Il poter dispotico per lo contrario, è la facoltà d'imporre tutto quello che all'imperante piace. Egli è propriamente il diritto del più forte, considerato nel principe, cioè un assurdo in termini come in qualunque altro uomo. L'impero assoluto considerato rispetto al temperato non varia la competenza, ma sol la libertà di esercitarla. «Governaci in pace e giustizia, "noi confidiamo in te"». Ecco la formola dell'atto costituente l'impero assoluto. L'impero dispotico per lo contrario varia tanto la competenza quanto il libero esercizio. La sua formola è «governaci come ti piace». L'assoluto può essere legittimo, perocchè altro non si vuole che il fine dell'associazione. Il dispotico per lo contrario non può essere legittimo nè per la sua origine, nè per la sua natura. E per verità, o voi figurate un atto primitivo consensuale di un popolo che si dà un principe, o figurate un atto violento di un interno od esterno occupatore. Se figurate quest'atto primo consensuale, io vi dico che per due ragioni è impossibile di stabilire legalmente il diritto di dispotismo. La prima si è che la società concedente non godendo di una autorità dispotica sopra i suoi membri, non può trasmetterne l'esercizio in altri. "Nemo dea, quod non habet". La seconda si è che alla concessione del dispotismo corrisponde rigorosamente la schiavitù. Ora chi si rende schiavo di altri si pone fino nella impossibilità di adempiere i suoi doveri. Dunque perciò stesso la sua concessione è legalmente nulla ed anzi legalmente impossibile, perchè è impossibile conciliarla coi dettami della legge morale di natura. Se poi figurate un atto violento d'un interno od esterno occupatore, voi certamente nel suo governo non trovando altro titolo che quello della forza, voi non vi potreste ravvisare nemmeno il principio di civile e legittimo governo. E' chiaro in secondo luogo che il dispotismo non può essere legittimo per la sua natura. Fu detto che la sovranità viene da Dio; ma io soggiungo che la tirannia viene dal diavolo. Ora nel dispotismo si cumula tanto la sovranità quanto la tirannia. Dunque nel dispotismo si associa tanto l'autorità di Dio, quanto quella del diavolo. Chi sarà da tanto da legittimare questa lega?
Rigettato dunque l'assurdo diritto del dispotismo, resta quello del civile e giusto principato. Ora dico che fra il principato intiero ed il costituzionale non v'è incompatibilità, come non v'è incompatibilità fra l'obbligazione fiduciale e l'obbligazione guarentita. Il dar sicurtà di una buona gestione è forse incompatibile colle facoltà di un amministratore? 'Tutte le savie leggi civili ed amministrative esigono questa guarentigia, appunto perchè trattasi d'una funzione a pro d'altrui nella quale si presume sempre che l'interesse dell'amministratore lo faccia abusare delle sue facoltà a danno dell'amministrato. Dar leggi ad un popolo e farle eseguire sono due funzioni così inerenti al principato, come è inerente alla persona il pensiero e la funzione esecutiva. Ma altro è il dire che queste funzioni debbano necessariamente essere praticate dal principe e non sottratte dal principe; ed altro è il dire che debbano essere praticate da lui senza l'altrui voto e senza opposizione allorchè offendessero la società. Posto che la competenza legittima dell'impero è circoscritta dal dovere; quale incompatibilità essere vi può coi ritegni che impediscono la violazione di questo dovere? Coll'aggiungere cauzioni non si fa ingiuria al principe nè si diminuisce la facoltà legittima di governare, ma si assicura solamente il buon esercizio della medesima. Di che ti lagni tu, dir potrebbe, un popolo maturo al suo principe? O vuoi essere giusto o no. Nel primo caso devi rallegrarti di avere aiuti e di essere scaricato in molta parte di responsabilità: nel secondo caso io debbo premunirmi contro la cattiva tua volontà. Forse mi dirai che proponendoti una costituzione, io tacitamente disapprovo il tuo governo. Se questo potrebbe essere, quando tu il meritassi, non sarebbe però il motivo di massima della mia proposta. Questo motivo si è quello stesso che ti autorizza a munir di sanzione le leggi alle quali io privato debbo ubbidire. Non sono i difetti tuoi, ma quelli "del'uomo", ai quali si tratta di rimediare. Io pretendo di prevenire ne' tuoi successori la tentazione d'imitare i tuoi antecessori; io pretendo d'impedire la mal opera di un potere non cautelato senza impedire la facoltà di fare il tuo dovere. Io pretendo in fine di trattenere la possanza senza limitare la competenza e lo pretendo con diritto.

Che cosa importi il concetto di legge fondamentale

Come nella vita fisica la salute ed il vigore sono effetti della moderazione nata dalla proporzionale distribuzione dei poteri e dall'equa azione e riazione loro, così pure la salute e la potenza pubblica dei corpi politici risulta dalla universale moderazione. Per la qual cosa un potere predominante qualunque non trattenuto, operante in seno del corpo politico è incompatibile colla salute e colla potenza del medesimo. La verità di questo pensiero non isfuggì alla perspicacia di un celebre uomo amico della monarchia e lo scrisse prima della metà del passato secolo. Egli si espresse come segue: «La democrazia e l'aristocrazia non sono stati liberi per loro natura. La libertà politica non si trova che nei governi moderati; ma dessa non è sempre negli stati moderati: ella non v'è se non quando non si abusa del potere. Ma ella è una esperienza "eterna" che ogni uomo dotato di potere è portato ad abusarne: egli va fino a che trovi limiti. Chi lo direbbe! La virtù stessa abbisogna di limiti».
«Affinchè taluno abusar non possa del potere, fa d'uopo che le cose siano disposte in modo che il potere rattenga il potere. Una costituzione può essere tale che niuno possa essere costretto a far cose alle quali le leggi non l'obblighino ed a non far quelle che la legge gli permette».
Il potere deve trattenere il potere. Il poter dunque accordato al principe dev'essere trattenuto dal potere riservatosi dalla nazione. Tutto adunque il potere della nazione non deve stare in mano del principe, ma sol quello che basta per ben governare. Il rimanente dev'essere depositato in altre mani per guardar la nazione dagli eccessi del poter principesco e per soccorrerlo dove fa d'uopo.
Il potere del quale si parla qui, non riguarda propriamente il diritto di governare, ma la sola forza nazionale e più propriamente i motivi di questa forza. "In societate civili aut lex aut vis valet" disse Bacone. Egli più precisamente dir poteva: nella civile società vale la forza regolata o la forza sregolata, la forza retta dalla ragione, o la forza mossa dalle sole passioni. La prima dà valore alle leggi, il carattere precipuo delle quali consiste nell'obbligare. La seconda dà impero al dispotismo, il di cui carattere precipuo consiste nel far piegare tutto sotto alla privata volontà del principe. In fine però sì l'impero buono, che il tristo, sì il moderato che lo sfrenato riposano tutti sulla forza prevalente e traggono il loro vigore dalla sola forza prevalente.
Se dunque si vuol rattenere entro i termini del dovere un principe dotato di forza prevalente a quella d'ogni singolare privato, ne verrà non esservi altro mezzo che quello di far uso d'un'altra forza prevalente o almeno dei motori di lei. Se mi si domandasse qui per qual maniera, salva l'unità e la libera energia del principato, si possa riservare questa forza ed usarla senza nuocere alla cosa pubblica, io risponderei, essere questo uno dei più grandi problemi della meccanica politica, che non può essere dimostrato se non dopo l'esame dell'ordinamento necessario della repubblica rappresentativa nazionale. Frattanto giovami osservare, in via di massima fondamentale, non potersi effettuare costituzione alcuna senza la "riserva", non d'alcuna parte della competenza amministrativa, ma del poter costringente nazionale valevole a frenare le usurpazioni e gli eccessi del potere principesco,
Allorchè i pubblicisti ci parlano di "leggi fondamentali" di uno stato, hanno essi posto mente al vero significato di questa parola? Col nome di legge, che cosa essi hanno voluto esprimere? Forse gli articoli soli della volontà nazionale, senza munirli di un prevalente potere? In questo caso una nuda parola che percuote l'aria, o un muto scritto condannato a morire, si dovrebbero far valere come legge. Ma se al nome di legge annettono un comando munito di un potere prevalente, essi sono costretti a stabilire non solamente una "riserva di poter nazionale", ma a concedermi di più, che ogni governo con vere leggi fondamentali importa l'ordinazione della forza riservata suddetta. Ivi il potere principesco è essenzialmente indipendente da ogni delegazione nazionale ed essenzialmente soggetto alla nazionale sovranità. Ivi la maestà del popolo è posta solo in evidenza. Ivi la forza sociale nell'atto che tiene tutte le delegazioni al loro posto, si volge sopra sè stessa, agisce per sè stessa e riposa sopra sè stessa.
A che giova parlare a mezza bocca, o presentare soltanto una corteccia di verità? Che cosa è una legge anche nell'ordine fisico? Se non che, "quell'azione fra due o più potenze in virtù della quale l'una deve ubbidire all'altra"? Se dunque venga instituito un governo con leggi fondamentali, ne viene essenzialmente che il principe sarà tenuto ad osservare queste leggi e che dovrà ubbidire a queste leggi, e che il suo potere dovrà essere subordinato a queste leggi. Voi mi parlate dei vincoli della coscienza nata dai giuramenti prestati. Ma di grazia son questi, fra uomini, gli elementi che compongono le leggi o ne costituiscono l'autorità? Bastano forse ad un governo i giuramenti e i vincoli della coscienza dei cittadini per assicurare la privata moderazione? Sono forse i principi di una razza migliore di quella dei privati? Hanno essi almeno i mille e mille ritegni che circondano i privati in società? Se sarebbe una dabbenaggine il dare il nome di legge civile ai vincoli della coscienza dei privati, sarebbe dunque stoltezza il dar questo nome alla sola parola dei principi.
Lasciamo le adulazioni micidiali alla sorte dei popoli e parliamo il linguaggio della verità. Se ogni legge importa un'azione prevalente quale fu descritta, dunque collo stabilire una legge convien creare «un tale stato di cose pel quale s'induca nella potenza, cui si vuol fare ubbidire, la "necessità" di fare o non fare una data cosa, di agire o non agire in una determinata maniera». In questo stato di cose consiste il "principio originante" di qualunque legge fisica, morale e politica. Volendo dunque stabilire leggi fondamentali in società, converrà stabilire il poter pubblico in modo che s'induca nel principe la necessità di fare o non fare ciò che il contratto sociale esige. Egli fu delegato dalla comunanza per farlo eseguire a di lei nome. A lui furono affidati i poteri convenienti per farlo. Si vuole ch'egli non manchi al suo ufficio perchè la somma degli interessi di ognuno dipende dalla fedele osservanza di questo contratto. Si sa per ragione e per un'eterna esperienza di non potersi fidare o della di lui parola o di altre circostanze. Egli è dunque assolutamente necessario di porlo al pari del cittadino nella necessità di non mancare, come pure di soccorrerlo quando fa d'uopo e di correggerlo quando lo merita.
Dalle quali considerazioni risulta che il concetto di legge fonda- mentale, rispetto al principe, importa essenzialmente tre funzioni distinte. La prima consiste nel "prevenire" la mal'opera del poter principesco nell'eseguire l'affidata gli commissione. La seconda nell'ostare alle violazioni della legge le quali sì operando che omettendo si possono commettere. La terza finalmente nell'ordinare che il principato venga soccorso laddove la condizione inevitabile delle cose umane lo richiede.
Queste tre funzioni riguardano il principe. Ma le leggi fondamentali sono fatte per apportare i benefici del sociale contratto e procacciarli ad ognuno mediante l'ordinazione complessiva del pubblico potere. Dunque, riguardando le leggi fondamentali rispetto al cittadino, la loro comune funzione consisterà nell'atteggiare il poter pubblico in modo che ognuno, rispetto alia società ottenga lo scopo per cui fu contratta ed in conseguenza rispetto al governo, a cui ne furono affidati i poteri, ottenga la protezione ed i soccorsi voluti coll'associazione. Ma siccome l'azione del governo riposa sulla forza dei cittadini ed è tenuta in freno dalla somma dei poteri dei cittadini, quindi le cose debbono essere quanto al cittadino disposte dalla legge in modo ch'egli debba prestare al governo una facile ubbidienza ed un'opportuna resistenza e rispetto al suo simile possa e debba esercitare un'equa libertà ed un equo soccorso.
Questo è lo scopo primario della legge sociale. Le sue cure sono eminentemente rivolte a lui. Subalternamente a queste succedono le tre funzioni di prevenire, ostare e soccorrere riguardanti il potere principesco.
Abbracciando in complesso tanto questo scopo primario civico, quanto le dette mire secondarie delle leggi fondamentali, s'incomincia a travedere tutto lo spirito eminente delle medesime. Riassumete le cose discorse in questi due paragrafi e voi troverete quale sia il titolo originario di ragione delle leggi fondamentali, quali ne siano i limiti, quale ne sia l'attributo principale e quali finalmente ne siano le funzioni essenziali. Il truce orgoglio dei despoti e la stolida idolatria degli schiavi suole riguardare le leggi fondamentali come altrettante potenze ostilmente accampate contro l'autorità del principato e che stanno per mandare a fuoco e fiamma la società tutta. Ma l'uomo di sano giudizio le riguarda con quella serena affezione colla quale considera gli altri codici tutti meditati per introdurre e mantenere l'ordine e santificare la virtù. Egli vede che per quello stesso diritto e per quegli stessi motivi coi quali si sanzionano le leggi ordinarie per i cittadini, sanzionare pure si debbono le leggi fondamentali per i principi, per i magistrati e sopra tutto per i ministri.

Giandomenico Romagnosi, Opere scelte, Della Costituzione di una monarchia nazionale rappresentativa (La scienza delle Costituzioni), a cura di Guido Astuti e Federico Papetta, Teoria speciale, Reale Accademia d'Italia, Roma, 1937, p. X – XIV p. 883 – 891

Tutta la riflessione del Romagnosi che ho riportato conduce alla necessità di limitare il potere assoluto del re e di sottoporre il re e il principe a delle norme, a delle leggi, alle quali egli stesso deve obbedire.

Il dibattito a cui partecipava Romagnosi consisteva in questo: aveva diritto il Dio dei cristiani di macellare l'umanità col diluvio universale? Allo stesso modo: ha diritto il principe di disporre di un potere assoluto, senza essere limitato da regole e da leggi, che può esprimersi, arbitrariamente, in decisioni soggettive e arbitrarie capaci di distruggere la società civile?

Erano tempi in cui i cittadini si consideravano sudditi ed erano costretti a cercarsi un re buono per non essere vessati da poteri assolutisti distruttivi.

Con le sue tesi Romagnosi metteva in discussione il diritto di Dio di vessare l'umanità cercando di porre dei limiti all'azione di Dio sottoponendola alle leggi. Lo sapeva bene la chiesa cattolica che con Rosmini intraprese una feroce campagna contro Romagnosi al fine di difendere il dispotismo assoluto del suo Dio di cui lei si riteneva la custode.

Scarcerato ma lasciato senza lavoro, accettò di andare ad insegnare diritto a Corfù. Gli uffici amministrativi dell'Impero Austro-Ungarico gli negarono il passaporto e la possibilità di espatriare. Per vivere Romagnosi si ritirò nella sua casa a Milano e fu costretto a vendere i suoi libri.

Nel 1827 Romagnosi pubblica "Che cos'è la mente sana?".

Scrive Romagnosi in "Che cos'è la mente sana?":

A qual ramo di scienza appartenga la ricerca. Sua prima direzione

6. L'uomo non crea nulla, ma solo contempla il creato, argumenta su 'l creato, ed agisce su 'l creato. Dall'un canto sta una natura indefinita; dall'altro una intelligenza limitata. Come abbracciare questa natura? - Con l'artifizio delle nozioni generali, sia su l'essere, sia su 'l fare delle cose esterne ed interne, verificate da prima con adeguate e comprovate osservazioni.
7. Conoscere la storia naturale dell'uomo interiore forma l'oggetto logico della psicologia sperimentale; spiegare i fenomeni presentati da questa storia forma l'oggetto della psicologia razionale; ridurre le leggi scoperte e provate ad un sistema unito, e darne l'ultima espressione generale, forma l'oggetto della metafisica psicologica: lo scopo finale di tutte si è cultivare la mente sana. Questa mente sana viene supposta nelle ricerche psicologiche, come il corpo sano viene supposto nella fisiologia; ma alla perfine, dopo lo studio dei fatti e la spiegazione dei fenomeni, convien tornare da capo per determinare i caratteri e assegnare le condizioni di questa mente sana.
8. In questa operazione la metafisica psicologica si ripiega sopra sé stessa, per vedere se dai dettami raccolti emerga la cognizione ricercata. Taluni sogliono confundere la psicologia con la metafisica: questo sarebbe lo stesso che confundere la storia naturale e la fisica paricolare con la fisica generale. Ogni metafisica è una scienza derivata dai principi e dagli aforismi raccolti nello studio della empirica e della razionale. Per quanto sublime si voglia spingere il volo, non ci possiamo mai dispensare dal reale, a meno che non vogliamo professare una scienza falsa, o almeno illusoria. Esprimere dunque lo spirito il più eminente delle leggi di fatto dell'uomo interiore raccolte dalla esperienza, forma la sustanza di questa metafisica psicologica. Dico le leggi di fatto, per distinguerle da quelle di ordine razionale, le quali appartengono all'arte logica, in mira unicamente di scoprire la verità e di evitare l'errore.
9. Da ciò viene, che le cognizioni fondamentali e generali sopra l'uomo interiore di fatto formano il tessuto della metafisica psicologica. Sotto il nome di cognizioni fondamentali generali si vogliono indicare tanto quelle condizioni perpetue, le quali intervengono in tutti i fenomeni mentali (e però ricevono il nome di leggi universali e communis, quanto le nozioni ultime e le più depurate su le qualità dell'essere umano, e de' suoi rapporti intellettuali e morali. Da ciò surgono i principi intorno il conoscere e l'operare umano. Dunque la ricerca, quale sia la natura e quale i rapporti essenziali della umana intelligenza, forma il primo oggetto della metafisica psicologica; da questi si deduce la nozione reale della mente sana.
10. In tutta la psicologia l'io pensante studia sé stesso, onde conoscere sé stesso; egli è reso spettacolo e contemplatore ad un solo tratto di sé medesimo. Nello studiare il suo me intelligente egli non usa né può usare d'un modo diverso da quello ch'egli adopera nello studiare il non me. Egli è obligato a studiare sé stesso, com'egli studia il corso dei pianeti e la vegetazione delle piante; sì perché le leggi del raziocinio sono identiche; sì perché i fenomeni esterni sono, a guisa di camera ottica, da noi veduti in noi, e mai fuori di noi; e sì finalmente perché una parte di noi stessi è formata da un che non intelligente, senza del quale l'uomo non esisterebbe. Qui voglio indicare il corpo. L'unione di queste due parti forma l'umana persona. L'uomo infatti non è né una cert'anima, né un certo corpo; ma il concetto suo essenziale importa l'unione d'una cert'anima con un certo corpo. Da ciò dicesi che l'uomo è un essere misto.

Giandomenico Romagnosi, Che cos'è la mente sana, in Scritti filosofici vol. 1, a cura di Sergio Moravia, Casa editrice Ceschina, 1974, p. 119 – 121

Anche se Romanosi considera ancora valido il concetto Platonico del "conosci te stesso", non separa il corpo dall'anima, ma pensa alle due cose in una relazione capace di costruire un'unità. Quell'unità è l'uomo sociale che con la sua intelligenza vive nella società.

La stessa metafisica in Romagnosi è vissuta come l'attività psicologica con cui il soggetto percepisce il mondo, ma al centro degli interessi di Romagnosi ci sono i corpi umani che abitano le società e che si rapportano come cittadini portatori di diritti e non come individui sottomessi alla moralità della loro anima.

"Ogni metafisica," dice Romagnosi "è una scienza derivata dai principi e dagli aforismi raccolti nello studio della empirica e della razionale. Per quanto sublime si voglia spingere il volo, non ci possiamo mai dispensare dal reale, a meno che non vogliamo professare una scienza falsa, o almeno illusoria." E' la vita reale che determina il pensare metafisico. Senza la vita reale non c'è pensiero astratto, ma c'è solo il delirio folle che Romagnosi definisce " una scienza falsa, o almeno illusoria".

E ancora nello stesso testo:

Dei fattori dell'umana intelligenza

63. Primo fattore dell'umana intelligenza è il concepire assimilante ed unificante, tutto proprio del senso integrale originario. Da questo nascono le nozioni e i sistemi: il loro precipuo carattere si è d'essere dotati d'una semplicità così assoluta, che non può aggiungersi né levar nulla; e quand'anche si associano alla pluralità omogenea o variata, essi investono i complessi con una unità così semplice, che non può essere mutata senza essere distrutta: tutto porta il conio dell'unificazione, a meno che le differenze non siano incompatibili.
64. Secondo fattore dell'intelligenza è il discernimento, il quale non può agire su idee oscuramente presentite, ma abbisogna d'impressioni vivaci e finite. Questo discernimento appartiene al senso differenziale, il quale si può esercitare soltanto su le intuizioni finite e a bastanza vivaci: egli limita l'istinto integrante, che assorbirebbe tutto, e che ridurrebbe la vita mentale ad una specie di cieca vegetazione dell'anima umana. Il tuono proprio esplicito e distintivo dell'intelligenza risulta a punto dalle funzioni del discernimento: egli, a guisa di raggio luminoso e attivo, entra nella grande massa delle prime intuizioni del senso integrale, per diradarne e scomporne i tratti. Quindi dal conflitto del senso integrale e del differenziale sorgono le nozioni mentali: l'uno tende a condensare, l'altro a diradare. Da questo antagonismo, operato su lo stesso fondo dell'io pensante, nasce un produtto semplice di una natura veramente mentale, che si chiama nozione, la quale viene distinta dal confuso barlume e dal puro presentimento.
65. Il senso integrale e compatto ci pone, per così dire, nel pieno e immediato contatto con la natura esteriore che ne circonda; il differenziale, per lo contrario, avvicina l'intima nostra veduta a questo contatto, estraendo le più risaltanti apparenze, e adattandole ed assimilandole all'indole dell'io pensante. Dico le più risaltanti apparenze, e non tutta la sensazione; imperocché è notorio, che dove non si distingue non si può ragionare, nell'atto pure che si può oscuramente sentire o almeno presentire. Il solo vivace ed esplicito viene raccolto a pro dell'intelligenza: dunque questa non si può dire essere adeguata a tutta la sensazione di fatto, ma solamente alla somma dei tratti più risaltanti della sensazione. Prova ne siano tutti li oggetti visibili, ne' quali la maggiore o minore distanza, la maggiore o minore piccolezza varia l'aspetto discernibile, nell'atto pure che la ragione vi dimostra che i raggi di luce partono anche da que' tratti che sono da prima indiscernibili all'occhio nudo o ad una data distanza. Ma dall'altra parte è vero, o no, che la somma di questi tratti discernibili vi somministra spesso una idea assolutamente semplice di una data figura o di un dato colore? Dunque dobbiamo ritenere che il discernimento non opera su tutta la sensazione reale, ma solamente sui tratti più risaltanti e risentiti della medesima. Nel por mente al conflitto, dirò così, energico e perpetuo fra il senso integrale ed il senso differenziale noi afferriamo la prima e grande legge che fa sorgere tutto il mondo intellettuale: il senso integrale si può dire il rappresentante della natura; il differenziale il rappresentante dell'anima; dalla mutua loro azione e reazione nasce una transazione su lo stesso fondo dell'io pensante, la quale pone in armonia le leggi del mondo interiore con quelle del mondo esteriore, per formare così un ordine solo ed una sola vita. Il senso integrale si potrebbe rassimigliare all'Iside egiziana, con tutti li attributi della mitologìa; il senso differenziale, per lo contrario, si potrebbe rassimigliare all'Osiride, dotato anch'esso degli attributi a lui assegnati da questa stessa mitologia. Dall'azione combinata di questi due agenti surge il mondo mentale interiore, che potrebbe corrispondere all'Oro, figlio di ambidue, e che apporta ordine, vita e potenza.
66. Ma considerando lo spirito umano come una nuda potenza indefinita, non conosciamo ragione alcuna che lo determini a volgersi più tosto su d'una che su d'una data altra intuizione, su d'una più che su d'un'altra sensazione, fra quelle tante che si presentano in folla dai diversi nostri sensi. Dunque convien trovare un fattore sussidiario che invochi l'energia e l'opera di questo Osiride psicologico sopra di una determinata sensazione o forma d'essere di fatto primitivo. Ciò posto, domando se questo fattore sussidiario esista, e come egli agisca. Il piacevole ed il dispiacevole accompagnano ogni specie di idée, sia primitive, sia derivative, sia rappresentative, sia affettive: essi dir si possono fattori immediati dell'interessante, come i logici sono i fattori del razionale. Questi fattori dell'interessante intervengono per invitare l'attenzione, e quindi la consapevolezza, e per ciò stesso l'azione del senso intellettuale, e quindi le funzioni del discernimento: nell'esercizio di queste funzioni noi ravvisiamo le tre facultà del conoscere, del volere e dell'operare tutte in atto. Se da una parte il piacevole e il dispiacevole si presentano come idée assolute, dirette e di prima posizione, quanto all'intendere; dall'altra parte si presentano nell'economia psicologica come stimoli energici al senso intellettuale, onde volgerlo sopra dati oggetti più tosto che sopra dati altri. Provocatori logici pertanto, in vista di quest'officio, si potrebbero appellare il piacevole ed il dispiacevole.
67. Dall'intervento di questi provocatori si deve necessariamente ripetere la forma speciale e la tempra, dirò così, determinata che vien data tanto alla mente, quanto al cuore degli uomini; ma la direzione primitiva degli stimoli sta in mano della sola natura. Noi vediamo questa direzione nella qualità dei bisogni e degli affetti naturali; l'uniformità loro induce l'uniformità d'interessi, di pensieri e di azioni; senza di questa uniformità sarebbe impossibile verificare un carattere commune fra l'individui della specie umana, e però sarebbe impossibile raccozzare una nozione della mente sana commune agli umani. Ma i freni del conoscere e del volere posti in una sola mano, e diretti da una sola mente, prestano il carattere commune ai membri dell'umana famiglia: la natura move questi freni con le stesse leggi con le quali dirige l'università delle cose nell'atto che infuse nell'uomo tutti i costitutivi e tutti i mezzi competenti alla sua dignità ed alla sua possanza.

Giandomenico Romagnosi, Che cos'è la mente sana, in Scritti filosofici vol. 1, a cura di Sergio Moravia, Casa editrice Ceschina, 1974, p. 148 – 151

L'intelligenza, ci racconta Romagnosi, è la capacità dell'uomo di definire le proprie idee mediante una scelta dei fenomeni percepiti e la consapevolezza in intuizioni finite (descritte mediante la ragione) e "abbastanza vivaci" (tali da coinvolgere le emozioni e i desideri). Secondo Romagnosi l'intelligenza esercitata del discernimento limita quello che ritiene "istinto" che annichilirebbe la vita mentale riducendo l'esistenza psichica ad una specie di "cieca vegetazione dell'anima umana".

L'intelligenza per Romagnosi si esprime nelle capacità dell'individuo di scegliere che, in campo sociale, significa scegliere quali relazioni alimentare e a quali relazioni è necessario sottrarsi.

Romagnosi affronta anche il concetto di sensazione affermando che della sensazione la coscienza coglie "estraendo le più risaltanti apparenze", in sostanza selezionando su quanto della sensazione le conviene porre la propria attenzione. Solo quanto è "vivace ed esplicito" viene raccolto dall'intelligenza. Il che significa che solo quanto eccita le emozioni diventa fattore che interviene nell'intelligenza umana. La vita crea un conflitto fra il mondo interiore e le sensazioni che giungono dal mondo esteriore. Dice Romagnosi: " fa sorgere tutto il mondo intellettuale: il senso integrale si può dire il rappresentante della natura; il differenziale il rappresentante dell'anima; dalla mutua loro azione e reazione nasce una transazione su lo stesso fondo dell'io pensante, la quale pone in armonia le leggi del mondo interiore con quelle del mondo esteriore, per formare così un ordine solo ed una sola vita". In sostanza, Romagnosi ha identificato alcune leggi della dialettica dove la modificazione del soggetto in relazione col mondo consiste nel porre in armonia le leggi del mondo interiore con quelle del mondo esteriore.

A Romagnosi rimane il dubbio " Ma considerando lo spirito umano come una nuda potenza indefinita, non conosciamo ragione alcuna che lo determini a volgersi più tosto su d'una che su d'una data altra intuizione, su d'una più che su d'un'altra sensazione, fra quelle tante che si presentano in folla dai diversi nostri sensi". Il dubbio di Romagnosi è che l'uomo vive in un immenso di fenomeni e di sensazioni nelle quali esercita la sua intelligenza scegliendo. Sul perché l'uomo sceglie una cosa o un'altra, Romagnosi non lo sa dire a differenza dei fondamentalisti che hanno una risposta pronta, utile alla loro causa, ma sbagliata e malefica per l'uomo.

Queste risposte, facili ed immediate dei fondamentalisti, Romagnosi le definisce "dei provocatori", veri e propri violentatori dell'intelligenza umana. Dice Romagnosi " Se da una parte il piacevole e il dispiacevole si presentano come idée assolute, dirette e di prima posizione, quanto all'intendere; dall'altra parte si presentano nell'economia psicologica come stimoli energici al senso intellettuale, onde volgerlo sopra dati oggetti più tosto che sopra dati altri. Provocatori logici pertanto, in vista di quest'officio, si potrebbero appellare il piacevole ed il dispiacevole."

La visione filosofica di Romagnosi è centrata sull'uomo sociale, il cittadino, sempre e comunque un soggetto portatore di diritti le cui scelte hanno delle ragioni e delle spiegazioni. Nulla in Romagnosi è rimandato ad un'autorità superiore, altra, a Dio.

Nel 1828 Romagnosi pubblica "Della suprema economia dell'umano sapere in relazione alla mente sana". Interessante la teoria della formazione della conoscenza umana che diventa patrimonio sociale.

Scrive Romagnosi in "Della suprema economia dell'umano sapere in relazione alla mente sana":

Età e forme del sapere umano

114. L'imagine del Tempo, che guida per mano la Verità e ne stabilisce l'impero, forma, a mio avviso, il più bello ed il più significante simbolo cui la pittura e la poesia configurar potessero per rappresentare la economia universale, con la quale tutte le dottrine entro il mondo delle nazioni nascono, crescono, si propagano e si consolidano. Se l'uomo non è gratuitamente inventivo, non è né meno gratuitamente portato all'errore; se la verità è una sola in tutti i secoli, non è però una sola la maniera di ravvisarla, né la forma di annunziarla. Grezze, corpulente, e ravvolte in nube, sono le forme della prima età; fantastiche, emblematiche, e quindi ad un solo tratto materiali e sfumate sono quelle della seconda; più reali, ma sconnesse, troncate, insufficienti e arrischiate sono quelle della terza; piene, lucide, connesse e naturalmente generate sono alla fine quelle della quarta età. Qui è finalmente dove, gettare le spoglie straniere, sotto le quali dalle antecedenti generazioni fu travisata la verità, essa si mostra allo sguardo nostro con le forme sue genuine: allora ella apparisce piena, luminosa e trionfante; allora, con lo scoprirei la sua naturale generazione, ella assicura eziandìo la sua possanza: ecco in breve le diverse forme e le vicende dello scibile umano.
115. Noi saremmo tentati di pronunziare che in tutto questo corso si effettua veramente una serie di metamorfosi, nelle quali lo spirito umano, sospinto dagli stimoli, rattenuto dall'inerzia, e guidato dall'analogia, per una legge unica e graduale tende a soddisfare alla sua tendenza. Si può dunque figurare una vita dello scibile delle società, come si può figurare una vita politica delle medesime: sì l'una che l'altra hanno una legge certa; ma questa legge si effettua e si modifica con lo stato di fatto geografico-economico, morale e politico delle società medesime, esistenti in un dato tempo e in un dato luogo, e con date tradizioni.
116. Ma parlando specialmente della economia dell'umano sapere, essa propriamente tutta e sempre si compie co'l comprendere complessivo del senso integrale, co'l distinguere discretivo del senso differenziale, sì l'uno che l'altro appropriati e diretti dall'attenzione eccitata, avvivata e sostenuta dall'interessante: prima sotto l'impero dei sensi, nel quale la natura e la fortuna fanno tutto; indi sotto quello della fantasia, nel quale l'umana industria viene aggirata dalle malìe di una natura travestita; e finalmente sotto quello della ragione, nel quale i segni reali-ideali delle cose ridotti alla loro diretta espressione, e compendiati e tradotti di nuovo in termini maneggiabili dalla comprensione mentale, le procurano una padronanza ai destini dell'umanità.

Modi rispettivi degli studi umani

117. Durante queste quattro età volendo li uomini dar ragione dell'essere e del fare ideabile delle cose, essi impiegarono rispettivamente un metodo connaturale al grado del loro attuale sviluppamento, e del corredo delle osservazioni acquisite, seguendo per altro le leggi degli stimoli e dell'inerzia, e dei presentimenti delle analogie. Nella prima età si ragionò per via di fantastiche personificazioni assai compatte e indistinte, nelle quali si ravvisa allo scoperto il gretto istinto di trasportare tutto l'uomo fuori di sé stesso, e che pone mano su tutto, e stampa in cielo, in terra e negli abissi la sua figura, le sue passioni attuali, i suoi costumi e la sua industria. Nella seconda età si ragionò per via di imitazioni geometriche finite e valutate, nelle quali si pretese riscontrare un'energia misteriosa, ed una tendenza ingenita ad essere insieme atteggiate, supponendo che queste fossero rivelazioni della causa universale. Fu questa una evoluzione dello spirito umano sopra sé stesso, con la quale egli ardì attribuire alla natura leggi di vita e di armonia tratte dai rapporti di forme eterne e di certezza dimostrata. Una grande spinta allora fu data alla mente umana verso la sfera razionale, tanto con l'avvezzarla ad una stretta argomentazione, quanto co'l distaccare l'economia della natura da quella dell'uomo, e attribuire al mondo una propria personalità e possanza. Nella terza età si ragionò per via di parità ricavate da alcune più ovvie osservazioni su qualità e leggi conosciute per esperienza, talché ad archetipi prima imaginati furono sostituite analogie fisiche e morali applicate con premature generalità. Allora apparvero i primordi, comunque imperfetti, della filosofia fondata su la osservazione dei fatti, educata e resa confidente dallo studio delle funzioni logiche, delle matematiche fervidamente coltivate ed incessantemente adoperate nella precedente età. Finalmente nella quarta età s'incominciò a ragionare per via di logiche induzioni più o meno proporzionate alle osservazioni accertate, assumendo le analogie come puri presentimenti, onde incamminare le ricerche, e non per autenticare sentenze definitive. In questa età però conviene distinguere due tempi, che vanno gradatamente succedendo l'uno all'altro. Nel primo si fa uso molte volte di nozioni plausibili di senso comune, ma non depurate e preparate analiticamente, e di deduzioni più discontinue che stringate. Nel secondo tempo poi si usano nozioni accertate, esplicite, e preparate prima con analitico processo; e si praticano deduzioni concatenate con logico rigore, alle quali abbia preceduta la proposta del capo intero della ricerca. Ecco in sostanza la storia di quello studio, nel quale l'uomo aspira a conoscere le cose per via delle loro cagioni assegnabili, e che fu appellato co'l nome di filosofia.

Continuità ed effetto di questo procedimento

118. In questa storia si scorge a chiare note tutto il processo naturale e non interrotto della mente umana nell'intraprendere e nel progredire nello studio del mondo esteriore ed interiore. Continuo, graduale, connesso si ravvisa il suo andamento, e sempre mai sottoposto a quelle leggi che presiedono agli studi umani. Siami permesso di ripetere ciò che altrove parmi aver dimostrato. Nello sviluppamento morale l'attenzione, determinata dall'economia dei motivi in un essere che a bel bello si sviluppa, opererà sempre in tutti i sensi possibili con la legge della continuità: dunque nel dar urto ai progressi, nell'effettuarne la mossa, nell'ampliarne i confini, nel volgersi e riuscire più tosto in un senso che in un altro, l'attentività deve operare con la legge della continuità.
119. Ognuno sa che alla buona riuscita delle produzioni sì fisiche che morali ricercasi la maturità: ciò ìndica che i poteri produttivi non possono ben operare che co'l mezzo delle più vicine affinità; e però che tali poteri si debbono uniformare alla specie, alla misura, e alle connessioni fra le cose antecedenti e le susseguenti. E' noto che, ad onta di qualunque estranea urgenza, la natura rifiuta qualunque salto da noi tentato nelle nostre fattizie instituzioni.
120. Le affinità, delle quali io parlo, servono a guisa di ponti di passaggio per progredire fermamente e con buon successo: esse nel primo periodo dello sviluppamento intellettuale consistono nelle analogie e nelle concomitanze dei fenomeni appresi, le quali per una legge misteriosa, ma certa, formano la legge delle nostre ricordanze, e prestano persino i tropi alle locuzioni; nel periodo poi della ragionevolezza esse consistono nelle affinità logiche, o sia nella connessione continua dei rapporti di ragione fra le cose direttamente cognite precedenti, e le altre incognite che sopravengono.
121. Da queste legge universale e indeclinabile viene come risultato necessario il fatto, che la mente umana va frenando l'immensa sua escursione fantastica, con la quale osava affrontare il cielo, la terra, e tutto il visibile e l'invisibile; e ritratta a studiare il solo verifìcabile, essa procederà con un ordine, nel quale li studi fisici precederanno i morali, quelli del gusto precederanno quelli della filosofia: e se mal destre o male intenzionate instituzioni non si attraverseranno, il progresso delle cognizioni sarà conformato al posto che ogni argomento occupa naturalmente nell'albero logico delle cognizioni.
122. In forza di tutta questa economia intendiamo come naturalmente si operi quella finale ed augusta metamorfosi, per la quale la mente umana si sottrae dalla cieca e gretta schiavitù dei sensi, e passa alla libertà di una ragione illuminata, la quale renda l'uomo conscio di sé stesso, e lo ponga in grado di dominare la natura co'l secondaria. La scienza e la potenza si vedono camminare a pari passo, e l'una e l'altra ritornare sopra sé stesse mediante il deposito dei lumi e delle pratiche conservate dalle stabili umane congregazioni: così si comunica ad ogni età e ad ogni individuo il patrimonio ereditario di una sempre crescente potenza intellettuale e fisica, per cui alla perfine un giorno dell'ultima età equivale a molti secoli delle precedenti.

Similarità di queste età e di questo procedimento nelle famiglie e nelle nazioni

123. Il tipo di questa economia sta giornalmente sotto de' nostri occhi nelle varie età degl'individui umani, che nascono e crescono in seno delle civili associazioni. Studiando i caratteri morali delle varie età di questi individui, e seguendone le fasi successive, noi ricaviamo l'emblema di ciò che fu fatto e si farà nel mondo delle nazioni. Sortendo poi dalle nostre case e dalle nostre città, e scorrendo il globo, senza dimenticare le memorie passate, come vediamo la fanciullezza, l'adolescenza, la gioventù e la virilità esistere contemporaneamente nelle famiglie private, così pure vediamo queste stesse età esistere tuttavia nella grande famiglia del genere umano.

Economia della natura nel far nascere e conservare le dottrine

124. L'andamento della filosofia elaborata nel segreto della meditazione da alcuni di eminente ingegno non è punto diverso da quello della cultura intellettuale, che viene effettuata nell'universo mondo delle nazioni. Ponendo attenzione al carattere ideale delle opinioni, e seguendone le figliazioni, sia inventive, sia tradizionali, noi ci accorgiamo che le stesse leggi presiedono ai progressi tanto dei pensatori, quanto delle genti. Ma quì conviene tener conto dell'impero, dell'autorità e della credenza che si frappone nei reali progressi dello spirito umano. Le scuole e le sette sono figlie di quest'impero, al quale per altro si mescolano sempre i tentativi di un qualche pensatore indipendente. Tal volta si combatte con la scorta dell'autorità di un dato maestro, e tal'altra con quella della osservazione e della dialettica. Con la tradizione dell'autorità ricevuta si conservano le dottrine; con la disputa si depurano e si fanno progredire. Senza la prima sarebbe perduta ogni invenzione, o annientata ad ogni soffio di controversia; senza la seconda non si potrebbe mai giungere a nulla di adeguato allo scibile a cui l'uomo deve e può giungere. Ma in questo magistero della natura noi ravvisiamo sempre che da un tutto compatto, confuso e fantastico si passa gradualmente a divisioni sviluppate, distinte e razionali, le quali venendo indi recapitolate, compendiate e tradotte in certi simboli, formano la ricchezza depurata ad uso dello spirito umano.

Giandomenico Romagnosi, Sulla suprema economia dell'umano sapere in relazione alla mente sana, in Scritti filosofici vol. 1, a cura di Sergio Moravia, Casa editrice Ceschina, 1974, p. 175 – 180

Quando nel 1826 Comte in Francia inizia il suo Corso di Filosofia Positiva che interromperà per riprenderlo nel 1829, nel 1828 Romagnosi pubblica "Sulla suprema economia dell'umano sapere in relazione alla mente sana" che anziché la "legge dei tre stadi" dei positivisti, descrive una sorta di divenire del sapere e della conoscenza umana in quattro stadi.

A differenza di Comte, Romagnosi costruisce una sorta di trasformazione della cultura, come espressa dalla ragione, e in questo, comunque, individua un dato di realtà perché il fine della trasformazione non è un ideale "super uomo" o "super razza" al vertice delle trasformazioni dell'uomo cacciato dal paradiso terrestre, ma è la trasformazione della cultura razionale che forma la cultura sociale come espressa dalla ragione umana. Romagnosi non distingue un uomo primitivo da un uomo evoluto, ma partendo dalla ragione del suo tempo immagina un tempo in cui c'era la non-ragione e questa è venuta a definire il sapere scientifico, razionale, della specie umana.

La verità scientifica può essere considerata un oggetto in sé che alla ragione umana appare come sconosciuta. Nonostante questo, la ragione umana esplora il mondo e svela, giorno dopo giorno, aspetti del mondo che chiama "verità". La verità è un'idea soggettiva determinata dalla capacità del soggetto di esplorare il mondo. Il soggetto chiama "verità" la sua scoperta ma, dice Romagnosi: " L'imagine del Tempo, che guida per mano la Verità e ne stabilisce l'impero, forma, a mio avviso, il più bello ed il più significante simbolo cui la pittura e la poesia configurar potessero per rappresentare la economia universale, con la quale tutte le dottrine entro il mondo delle nazioni nascono, crescono, si propagano e si consolidano. Se l'uomo non è gratuitamente inventivo, non è né meno gratuitamente portato all'errore; se la verità è una sola in tutti i secoli, non è però una sola la maniera di ravvisarla, né la forma di annunziarla".

Non la verità, ma la ricerca del vero che porta l'individuo a svelare il mistero del mondo che lo circonda e trasformare questo mistero, che comunque vive e abita, in descrizione mediante la sua ragione.

C'è forse una contraddizione in Romagnosi fra la sua idea della formazione della conoscenza e la sua "Teoria speciale" sulla Costituzione? No! L'uno e l'altro discorso sono perfettamente coerenti e funzionali l'uno all'altro.

Nel 1830 Romagnosi pubblica "Dell'ordinamento della filosofia morale".

Nel 1832 Romagnosi pubblica "Vedute fondamentali sull'arte logica" e ancora " Dell'indole e dei fattori dell'incivilimento". Collabora anche con "Antologia fiorentina" di Vieusseux.

Nel 1835 Giandomenico Romagnosi, malato da tempo, muore nella sua casa a Milano assistito dal suo allievo Carlo Cattaneo.

 

Marghera, 31 agosto 2019

 

 

Hai imparato a chiedere l'elemosina?

 

Davvero vuoi continuare a navigare in questo sito?

Clicca qui e impara come si chiede l'elemosina

 

Claudio Simeoni

Meccanico

Apprendista Stregone

Guardiano dell'Anticristo

Membro fondatore
della Federazione Pagana

Piaz.le Parmesan, 8

30175 Marghera - Venezia

Tel. 3277862784

e-mail: claudiosimeoni@libero.it

 

2017

Indice Generale degli argomenti