Giovanni Gentile

Le biografie dei giocatori - cinquantaquattresima biografia

Capitolo 137

La partita di calcio mondiale fra i filosofi

Claudio Simeoni

 

Le biografie dei filosofi che partecipano alla partita di calcio

 

La biografia di Giovanni Gentile

 

Giovanni Gentile è nato il 29 maggio 1875 a Castelvetrano. Figlio di Giovanni, un farmacista e di Teresa Curti figlia di un notaio. Giovanni Gentile nasce da una famiglia agiata e frequenta le scuole elementari di Campobello di Mazzara. Poi, frequenta il ginnasio a Castelvetrano e, infine, il liceo classico a Trapani.

Fra il 1893 e il 1897 frequenta la Scuola Normale Superiore di Pisa. Frequenta la facoltà di Lettere e Filosofia. Diventa allievo di Donato Jaja già allievo di Bertrando Spaventa. In questo periodo ha un'intensa attività di pubblicista scrivendo articoli sulla rivista "Helios", "Rassegna bibliografica della letteratura italiana" o "Studi storici".

Nel 1896 Giovanni Gentile conosce Benedetto Croce con cui inizierà un'amicizia e una collaborazione.

Nel 1897 Giovanni Gentile si laurea con una tesi su Rosmini e Gioberti.

Nel 1898 Giovanni Gentile all'Istituto di studi superiori dell'Università di Firenze frequenta un corso per perfezionarsi in filosofia e questo gli consente di essere ammesso all'insegnamento liceale che esercita a Campobasso.

Nel 1899 Giovanni Gentile pubblica "La filosofia di Marx" comprendente due scritti di cui uno "Una critica del materialismo storico" già pubblicato due anni prima.

Nel 1900 Giovanni Gentile insegna al liceo Vittorio Emanuele di Napoli dove scriverà "L'insegnamento della filosofia nei licei" e un'introduzione alla filosofia di Spaventa.

Nel 1901 si sposa con Erminia Nudi con la quale avrà sei figli. Pubblicherà "Il concetto scientifico della pedagogia".

Nel 1903 Giovanni Gentile con Benedetto Croce fondano la rivista "La critica". Giovanni Gentile scriverà "Dal Genovesi al Galluppi", "La rinascita dell'idealismo" che presenta nel 1903 all'Università di Napoli e una storia della filosofia che si interromperà con Lorenzo Valla.

Nel 1906 diventa professore di filosofia all'Università di Palermo. Rimarrà a Palermo fino al 1913 dove elaborerà le sue tesi sull'attualismo. Scrive "L'atto del pensare come atto puro", "La riforma della dialettica hegeliana" e nel 1913 "Sommario di pedagogia come scienza filosofica". Fonda la rivista "Nuovi doveri" e continua la pubblicazione de "La critica". Molti scritti vengono riuniti nel volume "Il modernismo e i rapporti fra religione e filosofia" pubblicato nel 1909.

Nel 1914 Giovanni Gentile si trasferisce a Pisa dove gli viene conferita la cattedra di filosofia teoretica lasciata da Jaja morto nel 1914.

Nel 1915 Giovanni Gentile è membro del Consiglio Superiore della pubblica istruzione. Pubblica in quell'anno "Studi vichiani".

Nel 1916 Giovanni Gentile inizia la sua elaborazione dell'ideologia fascista con la pubblicazione "Teoria generale dello spirito come atto puro". L'ideologia fascista, come ogni ideologia assolutista, parte dalla necessità di negare la centralità ai corpi viventi per sottometterli ad uno "spirito", ad "un'anima" che determina i comportamenti dei corpi.

Scrive Giovanni Gentile in "Teoria generale dello spirito come atto puro":

1. Soggettività dell'oggetto in quanto spirito

Intendere, anzi conoscere la realtà spirituale, è assimilarla a noi che la conosciamo. E' una legge, si può dire, della conoscenza della realtà spirituale, che l'oggetto si risolva nel soggetto. Niente per noi ha valore di spirito, se non finisce con l'essere risoluto in noi che lo conosciamo. Gli oggetti spirituali della nostra cognizione si sogliono distinguere in due classi: o si tratta di uomini, esseri intelligenti, soggetti: o non si tratta propriamente di soggetti, ma di ciò che presuppone un soggetto spirituale, e che noi diciamo fatto spirituale, opera dello spirito. Questa distinzione empirica svanisce appena ci si rifletta un po' su; non, beninteso, con la riflessione che è propria dell'empirismo, ma con quella che è propria della filosofia, ossia di quel pensiero che comincia dalla scepsi sulle ferme credenze del pensiero comune. La detta distinzione, infatti, non è più ammissibile appena si consideri la natura di codesti fatti spirituali che noi distinguiamo dai veri e propri soggetti. Noi distinguiamo, p. e., la scienza degli uomini, - quella scienza che è determinata storicamente, appartenente a un soggetto via via determinato nella storia, - dalla scienza in sé. Così la lingua, pur essendo un prodotto storico, si comincia a distaccare da ogni soggetto particolare che è unico, e di cui è, momento per momento, un linguaggio unico; si estende a un popolo. Si stacca mentalmente anche da tutti i popoli; e parliamo, non più di una determinata lingua, ma del linguaggio in generale, mezzo, come si dice, di espressione degli stati d'animo, forma del pensiero. La lingua, così concepita e fissata dalla nostra mente, pare si liberi da ogni contingenza o particolare determinazione, e si libri nel mondo dei concetti, che non è soltanto il mondo che si realizza, ma anche il mondo che, semplicemente, si può realizzare. La lingua allora diventa un fatto ideale. Ed ecco, da una parte, la lingua sonante sulle labbra dell'uomo, che è un uomo vivo, in carne e ossa: lingua la cui realtà consiste nell'uomo stesso che parla; e dall' altra parte, la lingua in sé, che può essere parlata, ma che è quel che è, anche se nessuno la parli.

Da: Giovanni Gentile, Teoria Generale dello spirito come atto puro, in: L'Attualismo, Bompiani, 2014, p. 88 – 89.

L'operazione che fa Giovanni Gentile è quella di affermare una "realtà spirituale" partendo da illazioni e trasformarla in un oggetto di cui discutere come se fosse una realtà oggettiva. Giovanni Gentile non dimostra l'esistenza di una "realtà spirituale", si limita ad affermarla mettendola a fondamento dello sviluppo del proprio pensiero.

Quali sono gli oggetti spirituali per Giovanni Gentile? Innanzi tutto gli uomini come soggetti spirituali, intelligenti, separati alla natura in cui sono venuti in essere e dalla quale dipendono per la loro esistenza. E poi ci sono "i fatti spirituali". Quali fatti spirituali? "… ciò che presuppone un soggetto spirituale, e che noi diciamo fatto spirituale, opera dello spirito". Giovanni Gentile, in sostanza, non dice assolutamente niente.

Quel niente è pesante come un macigno. Qualche cosa, che chiama spirito, è indipendente dall'uomo, dalla vita. Un oggetto in sé, frutto di illazione, da usare come arma contro l'uomo che è un corpo che abita il mondo come ogni altro Essere della Natura.

La separazione dei corpi e dello spirito è il fondamento del fascismo come era il fondamento della dittatura la separazione operata da Platone fra anima e corpo; come era la fonte dell'assolutismo, che impone la schiavitù, la distinzione anima e corpo operata dal cristianesimo.

Quale pensiero comincia con la scepsi? La scepsi è l'esercizio del controllo critico sugli oggetti del sapere. E come può esserci un controllo critico sullo "spirito" che fugge dall'analisi dei sensi in quanto abita nel regno della farneticazione che si presenta nella cultura sotto forma di illazione?

E non è forse un'illazione, prodotta dalla farneticazione, affermare che esiste una scienza degli uomini appartenente ad un soggetto e la scienza come "oggetto in sé"? La scienza è la capacità dell'uomo di descrivere il mondo. Senza l'uomo che descrive il mondo, il mondo continua ad essere in sé, ma manca la descrizione razionale del mondo per cui, la scienza non è né può esserci. Se un uomo non descrive il mondo, la scienza non è.

Questa propensione ad inventare oggetti capaci di privare il corpo dell'uomo del suo abitare il mondo è proprio delle ideologie assolutistiche il cui fine è la giustificazione della violenza con cui sottomettere l'uomo.

La lingua è un prodotto costruito dall'uomo nel corso della storia e modificato generazione dopo generazione adattandolo alle esigenze proprie dell'uomo. Non esiste una "lingua in sé" né esistono "lingue in sé" per popoli diversi. Non esiste un oggetto "lingua" che non sia il mezzo costruito dall'uomo per vivere nel mondo esattamente come ogni specie animale e vegetale ha prodotto il proprio linguaggio per comunicare all'interno della propria specie.

Affermare che la lingua " … così concepita e fissata dalla nostra mente, pare si liberi da ogni contingenza o particolare determinazione, e si libri nel mondo dei concetti", significa affermare che la lingua, il linguaggio, precede la formazione del concetto. Ma nel bambino prima si forma il concetto e poi, il bambino adeguandosi al mondo in cui vive, elabora il linguaggio per poter definire e comunicare quel concetto. Giovanni Gentile non pensa che il bambino possa piangere ben prima di parlare per tentare di comunicare all'ambiente i propri bisogni? I propri concetti?

Una volta entrati nel regno della farneticazione di Giovanni Gentile, si è costretti a seguire lo svolgimento logico di un discorso il cui fine è giustificare la farneticazione aggiungendo illazioni ad illazioni.

Scrive Giovanni Gentile:

2. Concretezza dello spirito

La verità è che la lingua, quando la si voglia conoscere in concreto, si presenta come lo svolgimento della lingua; ed è la lingua che suona sulla bocca degli uomini che la usano. La quale lingua non si stacca più dal soggetto, non è un fatto spirituale che si possa distinguere dallo spirito in cui avviene. Quest'atto spirituale, che si chiama linguaggio, è appunto lo spirito nella sua concretezza. Così quando, anzi che parlare di una lingua storica, crediamo parlare della lingua come fatto psicologico, o come fatto ideale concepibile fuori della storia, quasi inerente alla stessa natura dello spirito quale idealmente è da ricostruire quando se ne sia inteso il principio; anche in questo caso, noi crediamo di esserci distaccati dall'individuo, che è quello che parla a volta a volta un determinato linguaggio; e invece non facciamo altro se non, nel nostro concetto del linguaggio, ricostruire un momento della nostra coscienza, della nostra esperienza spirituale. Tolto il filosofo che ricostruisce il linguaggio, il linguaggio stesso come momento dello spirito vien meno: poiché questo linguaggio, per quanto ideale, trascendente e posto fuori del tempo e dello spazio, è il linguaggio così concepito dall'uomo, dall'individuo, che non può effettivamente rappresentarselo altrimenti che parlandolo: e tanto se lo rappresenterà, quanto lo parlerà. Distinguiamo pure la Divina Commedia da Dante che la scrisse e da noi che la leggiamo; ma avvertiamo poi che questa Divina Commedia, che così distinguiamo da noi, è da noi ed in noi, dentro la nostra mente, pensata come distinta da noi. E' cioè, essa stessa, in noi, malgrado la distinzione: in noi, in quanto la pensiamo. Sicché non è nulla di estraneo a noi che la pensiamo. Staccare, dunque, i fatti dello spirito dalla vita reale di questo, è come perderli di vista e non ravvisarli più nella loro intima natura, per quel che essi sono quando si realizzano.

Da: Giovanni Gentile, Teoria Generale dello spirito come atto puro, in: L'Attualismo, Bompiani, 2014, p. 89 – 90.

Per Giovanni Gentile la lingua non è un mezzo mediante il quale gli uomini comunicano, ma è un oggetto in sé, al di sopra e al di fuori dell'uomo. E' la lingua che suona sulla bocca degli uomini, non è la bocca che usa la lingua. Non è l'uomo che si serve del mezzo, ma è il mezzo, la lingua, che si serve dell'uomo.

Per Giovanni Gentile questo sarebbe un atto spirituale, lo spirito della concretezza. In questa dimensione l'uomo è la vittima e Giovanni Gentile l'aguzzino che impone la sottomissione dell'uomo alla lingua. Siamo all'interno del concetto nazista di "volk" dove lo "spirito di un popolo" governa e domina gli uomini rendendoli schiavi di sé stesso togliendo a quegli uomini le dinamiche emotive con cui abitano e vivono nel mondo.

Giovanni Gentile riproduce il concetto di "logos", "verbo", che sta alla base del vangelo di Giovanni. La parola con cui Dio crea il mondo che è oggetto in sé e che si impossessa dell'uomo. La Divina Commedia non è linguaggio, è una storia. Una storia che letta diventa un vissuto e quel vissuto diventa un modo per veicolare le nostre emozioni nella direzione che la storia impone. Poi arriverà anche il cinema, la radio, la televisione. Ambienti che circoscrivono il nostro vissuto, circoscrivono la direzione in cui siamo indotti a veicolare le nostre emozioni,

Il linguaggio è un mezzo, solo un mezzo, perché il soggetto che usa il linguaggio è l'uomo.

L'ideologia dell'idealismo e dell'attualismo, sviluppato in Italia, presenta delle caratteristiche molto simili all'esistenzialismo di Heidegger.

Scrive Giovanni Gentile:

3. Il soggetto come atto

Chi dice fatto spirituale, dice spirito. E dire spirito è dire sempre individualità concreta, storica: soggetto che non è pensato come tale, ma attuato come tale. Non dunque spirito e fatto spirituale è la realtà spirituale, oggetto del nostro conoscere: ma, puramente e semplicemente, spirito, come soggetto. E come tale essa non è conosciuta se non al patto che s'è detto: in quanto la sua oggettività si risolve nell' attività reale del soggetto che la conosce.

Da: Giovanni Gentile, Teoria Generale dello spirito come atto puro, in: L'Attualismo, Bompiani, 2014, p. 90.

I corpi che abitano il mondo sono carne. Sono contraddizioni vissute. Sono l'oggetto di attenzione di una società che si serve di corpi per vivere. Questi corpi sono desideri, sono emozioni, sono tensioni proiettate verso un futuro possibile mentre si adattano alle condizioni in cui sono nati.

Il corpo è l'oggettività di ogni tensione emotiva che si può scambiare per "spirito" allo stesso modo in cui Platone lo scambia per "anima". Ma si tratta di corpi che sanguinano, amano, mangiano, defecano, soffrono, affrontano la trasformazione del loro presente manifestando la loro volontà d'esistenza. Corpi! Corpi fisici, perché nessuno può discutere di oggetti che non rientrano sotto i sensi se non per privare i corpi fisici della loro realtà fattuale.

La vita non si divide fra materia e spirito, la vita si può dividere fra corpi viventi e cadaveri. Fra corpi che esercitano la loro volontà di vivere e corpi passivi in relazione alla volontà che riconosciamo. La vita si può dividere fra soggetti che si emozionano e soggetti le cui, eventuali, emozioni ci sono talmente estranee da farci dire che quei corpi "non si emozionano".

Dividere la realtà fra materia e spirito significa rubare alla materia le sue caratteristiche dell'essere nel mondo e rendere quella materia, quella specifica materia, schiava di coloro che vogliono determinare la "qualità" della rappresentazione dello spirito in quella materia. Se io affermo come deve essere il comportamento della tua "anima", il tuo corpo è schiavo di quel comportamento. Questo perché io censuro il tuo comportamento non conforme a quella morale e colpisco, in vari modi, il tuo corpo affinché si adegui.

La separazione corpo e spirito è il fondamento dell'ideologia fascista dove i corpi viventi sono di proprietà di chi determina la morale entro cui i corpi viventi devono muoversi ed agire. Da qui l'ideologia dell'etica del dovere e dell'obbedienza, l'etica della sottomissione. Quella sottomissione dei corpi tanto cercata e tanto voluta in filosofia da Platone fino ad oggi e alla quale i corpi si sono ribellati senza mai costruire una filosofia unitaria della libertà dell'uomo nei confronti di un assoluto, qualunque ne sia la descrizione, che lo vuole sottomettere ed usarlo come uno strumento per sottomettere altri uomini.

Scrive Giovanni Gentile:

4. Gli altri e noi

Un mondo spirituale è concepibile soltanto in questo modo: che non si contrapponga all'attività di chi lo concepisce, se a da concepirlo veramente come spirituale. Altri, oltre di noi, non ci può essere, parlando a rigore, se noi lo conosciamo, e ne parliamo. Conoscere è identicare, superare 1'alterità come tale. L'altro è semplicemente una tappa attraverso la quale dobbiamo passare, se dobbiamo obbedire alla natura immanente del nostro spirito. Passare, non fermarci. Quando ci troviamo dinanzi a quest'essere spirituale come a qualche cosa di diverso da noi, da cui ci dobbiamo distinguere, e che presupponiamo anteriore alla nostra nascita, e tale che, se anche noi non ci pensiamo più, rimanga pur sempre, possesso, almeno possibile, degli altri uomini: allora è segno che noi non siamo ancora propriamente in presenza di quest'essere come essere spirituale, e non ne scorgiamo propriamente la spiritualità.

Da: Giovanni Gentile, Teoria Generale dello spirito come atto puro, in: L'Attualismo, Bompiani, 2014, p. 90 – 91.

Non esistono le relazioni. L'altro è un fantasma e noi lo attraversiamo perché, secondo Giovanni Gentile, l'altro non esiste mentre l'essere spirituale che siamo, secondo Giovanni Gentile è "anteriore alla nostra nascita". Sarebbe interessante sapere da dove Giovanni Gentile ha preso questa informazione. Forse che questa è una nozione "concreta" o non sta sfiorando il ridicolo e l'insulsaggine? Noi siamo nati e nascendo è nato tutto ciò che manifesta un corpo vivente mentre abita il mondo.

Per Gentile l'altro non è il soggetto della relazione che modifica sia noi che l'altro, ma è un non oggetto, una non esistenza, che io attraverso perché reca disturbo al mio "spirito".

Uno "spirito" che presupponiamo (presupponiamo, desideriamo, fantastichiamo, affermiamo, immaginiamo, ecc.) anteriormente alla "nostra nascita" e, pertanto, superiore a noi e davanti al quale ci dobbiamo inchinare.

Scrive Giovanni Gentile:

5. L'Io empirico e i problemi morali

Ma questa proposizione, che il mondo spirituale è concepibile soltanto come la realtà stessa della mia attività spirituale, sarebbe evidentemente assurda se non si tenesse ben ferma la distinzione richiamata nel precedente capitolo, tra Io trascendentale e io empirico; e non si tenesse egualmente ben fermo il concetto, che la realtà del primo è la realtà fondamentale, fuori della quale non è possibile pensare la realtà del secondo. Giacché, se si guarda l'io empirico, la proposizione non ha senso. Empiricamente, io sono un individuo non solo contrapposto a tutte le cose materiali, ma a tutti egualmente gli individui a cui attribuisco valore spirituale: poiché tutti gli oggetti dell'esperienza, quale si sia il loro valore, sono non pure distinti, ma separati tra loro, in modo che ognun d'essi esclude assolutamente da sé, a causa della sua particolarità, tutti gli altri. E sul terreno dell'esperienza tutti i nostri problemi morali sorgono appunto da questa opposizione assoluta in cui l'io empiricamente si distingue da tutte le persone, e deve tuttavia instaurare, come suprema aspirazione del suo proprio essere, un'armonia, un'unità, con tutti gli altri e con tutto l'altro. Sorgono, s'intende, in quanto avvertiamo l'irrealtà del nostro essere concepito empiricamente come io che si opponga alle persone diverse e alle cose che lo circondano, e in cui pure si attua la sua vita. Sorgono, per altro, i problemi morali su tale terreno; ma non si risolvono, se non quando l'uomo arrivi a sentire i bisogni altrui come bisogni propri, e la propria vita, quindi, non chiusa nell' angusta cerchia della sua empirica personalità, ma intesa sempre ad espandersi nell'attuosità di uno spirito superiore a tutti gli interessi particolari, e pure immanente al centro stesso della sua personalità più profonda.

Da: Giovanni Gentile, Teoria Generale dello spirito come atto puro, in: L'Attualismo, Bompiani, 2014, p. 91 – 92.

Non "sarebbe assurda", ma è assurda come è assurda la pretesa di dividere il corpo fra un Io trascendentale, che appartiene all'ambito dell'immaginazione, da un Io empirico che appartiene al corpo nel suo uso dei sensi e nella sua percezione della realtà del mondo entro la quale agisce.

Io sono un individuo che separa il sé stesso "Io sono" dal mondo in cui vivo che è "cosa o cose diverse da me". Ma lo faccio come azione materiale. Come azione del mio corpo. Io mi distinguo nel mondo dal mondo. Non ho un problema morale. I problemi morali sorgono quando qualcuno vuole circoscrivere i miei comportamenti entro ciò che lui pensa come e per cosa io mi debbo comportare. Non è un problema morale, è un problema di violenza che il singolo individuo vive col proprio corpo.

Ciò che è irreale non è l'empiricità della mia esistenza, ma la trascendenza del "mio spirito" che, manifestazione del mio corpo, si modifica ogni volta che entra in relazione con altri soggetti, altri attori, che agiscono nel mondo.

Scrive Giovanni Gentile:

6. Unità dell'Io trascendentale e molteplicità dell'io empirico

Non si creda tuttavia che il concetto di questa più profonda personalità, della Persona che non ha plurale, escluda ed annulli affatto ogni concetto dell'io empirico. L'idealismo non vuol essere misticismo. L'individuo particolare non svanisce nel seno dell'Io assolutamente e veramente reale. Perché questo Io assoluto, che è uno e in sé unifica ogni io particolare ed empirico, unifica, non distrugge. La realtà dell'Io trascendentale importa pure la realtà di quello empirico; di cui malamente e indebitamente si parla soltanto quando si prescinda dal suo rapporto immanente con l'Io trascendentale.

Da: Giovanni Gentile, Teoria Generale dello spirito come atto puro, in: L'Attualismo, Bompiani, 2014, p. 92.

Il mio corpo unifica la realtà di ciò che Io sono, ma solo nell'ambito della ragione, non nell'ambito dell'esistenza. La mia flora batterica, gli infiniti virus che abitano il mio corpo (e che sono parte indistinguibile del mio corpo) gli infiniti batteri che abitano il mio corpo (e che sono parte indistinguibile del mio corpo) sono, ognuno di loro, delle individualità che affermano "Io sono" e che permettono a me di dire "Io sono".

Razionalmente io formo un'unità, ma nella realtà Io è una molteplicità di Io che non trascendono il mio corpo, ma che sono il mio corpo. Quella di Giovanni Gentile è solo misticismo vuoto, violento e cattivo perché privando l'uomo della sua empiricità fa dipendere l'attività dell'uomo da una fantasiosa trascendenza che incatena i desideri di un corpo privandolo dello slancio di espansione soggettiva nell'oggettività in cui è nato.

Scrive Giovanni Gentile:

7. Processo costruttivo dell'Io trascendentale

Affinché si possa intendere la natura di questo stesso soggetto che risolve sempre ogni oggettività degli esseri spirituali, e non è possibile che si arresti dinanzi a un essere spirituale diverso da sé, e non ha perciò dinanzi a sé se non se medesimo, bisogna prima di tutto considerare che questo soggetto unico e unificatore non è un essere o uno stato, ma un processo costruttivo. Il nostro Giambattista Vico nel Ve antiquissima Italorum sapientia (1710) disse una profonda verità in quel suo famoso motto: verum etfactum convertuntur. Il concetto della verità coincide con quello del fatto. Vero è quel che si fa: il vero della natura è, secondo il Vico, per l'intelligenza divina che è creatrice della natura stessa; e il vero per l'uomo non può essere quello della natura, che non è fatta da lui, e nei cui segreti perciò non è dato a lui penetrare. Possiamo vederne solamente i fenomeni nei loro legami estrinseci di fatto (come dirà indi a poco David Hume), ma non possiamo sapere perché un fenomeno debba succedere a un altro, né in generale perché quel che è, sia. Dentro alla natura non vediamo se non buio, mistero. Di tutto quello invece che noi intendiamo come opera nostra, evidentemente il criterio della verità sta dentro di noi. Che cosa è, per esempio, la linea retta? Noi lo sappiamo perché siamo noi a costruirla per mezzo della nostra stessa fantasia, nel seno stesso del pensiero. La retta non è in natura, e noi la intendiamo mentalmente, non immediatamente, sibbene costruendola. Così nella Scienza nuova (1725) lo stesso Vico dirà che può la mente umana conoscere la legge dell'eterno processo storico (ossia dello svolgimento dello spirito), perché nella stessa mente umana è la causa e la prima origine di tutti gli avvenimenti storici.

Da: Giovanni Gentile, Teoria Generale dello spirito come atto puro, in: L'Attualismo, Bompiani, 2014, p. 92 – 93.

Molte cose la nostra ragione può non sapere, ma il fatto che io non posso sapere molte cose, non significa che io debba accogliere ogni semplicistica spiegazione il cui scopo è privare il mio corpo della sua attività in funzione di illazioni trascendentali che possono essere solo il frutto di menti malate che delirano di onnipotenza.

C'è un eterno processo storico che ebbe inizio quando, ipoteticamente, in un antico brodo primordiale il primo bione agì per rendere persistente il suo essere nel mondo e usare la sua esperienza per costruire e trasformare sé stesso.

La mia ragione può non conoscere gli infiniti "segreti" della natura, non per questo qualcuno è autorizzato a dirmi che qualcuno ha creato il mondo e io mi devo attenere a quelle regole morali. Tanto più non è consentito di risolvere le contraddizioni dell'esistenza affermando l'esistenza di una trascendenza che appartiene all'ambito delle farneticazioni.

Questa visione dell'uomo, dello spirito, della trascendenza e dell'empiricità altro non è che la riaffermazione del diritto di possedere persone, corpi, legittimando il possesso mediante l'affermazione di uno spirito trascendente che sarebbe realtà rispetto alla schiavitù imposta ad un corpo che sarebbe illusione.

Scrive Giovanni Gentile:

12. L'individuo come posizione di sé, o spirito

L'individuo da noi trovato è positivo, e il solo positivo che sia dato concepire. Ma positivo, ormai è chiaro, non come una volta desideravasi, cacciandosi in una via senza uscita: cioè non come posto da altro che dal soggetto: sibbene come posto dal soggetto, anzi come lo stesso soggetto che si pone. Il quale soggetto aveva bisogno di uscire da sé per imbattersi nel positivo, - ciò che poi non gli veniva fatto, - finché non fu consapevole del suo vero essere, che proiettava innanzi a sé, e fermava in un'astratta realtà. Ma, acquistata che abbia la coscienza dell'intimità dell'essere a quello stesso atto con cui egli lo cerca, lo spirito non vedrà più come si possa desiderare positività più certa e più salda di quella che ha in sé quando esso pensa e si realizza. Il pensiero volgare crede che l'uomo che si sveglia, metta in fuga le immagini del sogno, - quel mondo affatto soggettivo che non è il mondo, - mediante le sensazioni della natura materiale; che sarebbe la corda, a cui gli converrebbe afferrarsi per non naufragare nel pelago della inconsistente realtà della sua fantasia. Ma il contrario è vero. Quando infatti sul primo svegliarci ci tocchiamo, e giriamo attorno lo sguardo ai materiali oggetti che ci sono intorno, per riscuoterei meglio e riacquistare chiara e netta coscienza del reale, noi non abbiamo negli oggetti stessi e nella natura esterna la pietra di paragone del reale, anzi in noi stessi. E la difficoltà di ammettere come reale questa esterna natura, che immediatamente non s'innesta nella nostra vita soggettiva quale s'è configurata nel sogno, essa ci fa tastare il corpo nostro e gli altri corpi, e aggiungere nuove sensazioni e sviluppare le rappresentazioni di codesta esterna natura, che così, a primo aspetto, ci turba e respinge, e non ancora si riesce ad affermare come reale. E se la realtà poi la vince sul sogno, è che nella esperienza, onde è contesta la trama del soggetto, si trova posto per essa e non pel sogno, se non in quanto è pur realtà questa del nostro sognare. E se si prescindesse da questo centro di riferimento di tutta l'esperienza, che è l'Io, intorno al quale essa si organizza e sistema, la realtà si giustaporrebbe alle cose vedute fantasticando e a tutta la vita vissuta nel sogno, senza possibilità di discriminazione e valutazione. Il che vuol dire, che il vero e unico positivo è l'atto del soggetto che si pone come tale; e ponendo sé, pone in sé, come suo proprio elemento, ogni realtà che è positiva per questo suo rapporto di immanenza all' atto in cui l'Io si pone in modo sempre più ricco e più complesso. Di guisa che, sottraete la vostra soggettività dal mondo che contemplate, e il mondo diventa un reve, senza positività; introducete la presenza vostra nel mondo dei vostri sogni (come ci accade quando si sogna, e non c'è dissidio tra il contesto generale dell'esperienza e le cose sognate), e lo stesso sogno diventa massiccia realtà, positiva tanto da scuotere la nostra personalità, appassionarci, farci vibrare di gioia o tremar di paura.

Da: Giovanni Gentile, Teoria Generale dello spirito come atto puro, in: L'Attualismo, Bompiani, 2014, p. 171 – 172.

Per Giovanni Gentile è l'uomo che deve negare sé stesso per trovare il proprio positivo. L'uomo che esce da sé in un delirio continuo di autoesaltazione trascendentale.

L'individuo trova sé stesso quando il suo corpo abita il mondo. Quando veicola le proprie emozioni nelle relazioni con i soggetti del mondo in cui vive. Al contrario, l'uomo nella malattia mentale rinchiude sé stesso in sé stesso e, per sopravvivere, vive in un coacervo di continue illusioni e allucinazioni che sono la manifestazione malata di desideri insoddisfatti perché quell'uomo ha rinunciato ad affrontare il mondo in cui vive.

Queste illusioni e allucinazioni, desideri negati risolti in una fede delirante, per Giovanni Gentile sono " acquistata che abbia la coscienza dell'intimità dell'essere" mentre, per la medicina, sono "rifiuto di vivere".

Le illusioni e le allucinazioni prodotte da un'esistenza negata vengono paragonate da Giovanni Gentile all'esperienza del sogno dove il reale e l'irreale convivono e la coscienza passa da uno stato ad un altro. L'esempio del sogno serve a Giovanni Gentile per affermare che la realtà in cui viviamo e nella quale costruiamo le nostre relazioni è una realtà immaginaria, irreale, mentre, al contrario, la realtà dell'illusione e dell'allucinazione, prodotte dal desiderio di fuga dalla realtà che confluisce nella virtualità di una trascendenza desiderata, è la realtà dell'essere.

Scrive Giovanni Gentile sull'immortalità:

5. La fede immanente nella immortalità

Il problema dell'immortalità dell'anima, com'è noto, non è stato un'invenzione dei filosofi; e la questione delle origini, nel tempo, della credenza nell'immortalità è una questione priva di senso come tutte quelle in cui si empirizzano funzioni e atteggiamenti essenziali e perciò eterni dello spirito.
L'affermazione dell'immortalità dell'anima è immanente all'affermazione della stessa anima, che è il più semplice, elementare, e quindi imprescindibile atto del pensiero; il quale non può essere meno che lo, affermazione di sé. La difficoltà estrema di rendersi conto dell'essenza di questa primissima e veramente fondamentale realtà, e quindi le insufficienti concezioni, in cui per lungo tempo s'è dovuta travagliare la mente umana, han generato tante forme diverse, tutte inadeguate, d'intendere il rapporto onde l'Io è legato all'oggetto, e l'anima al corpo e a tutto ciò che, essendo spaziale, non può non essere temporale; e han dato luogo, in conseguenza, a diversi, e tutti insufficienti, modi di concepire, e fin di negare, l'immortalità. Negazione, che era essa stessa una maniera di affermare la potenza, e quindi il valore, e l'immortalità dell'anima.

6. Il significato della immortalità

Qual è il significato dell'immortalità? L'anima si pone come Io; e come Io, non ha bisogno di dottrine psicologiche e metafisiche per essere affermata, poiché ogni dottrina, anzi ogni respiro della nostra vita spirituale, presuppone tale affermazione. Ma quest' essere che si pone da sé, opponendosi ad ogni realtà, si pone appunto come diverso da ogni altra realtà. Quindi, se c'è questo mondo naturale che l'anima si trova davanti, questo mondo e l'anima non sono la stessa cosa: e come questo mondo è molteplice, essa si aggiunge a tale molteplicità; e poiché questa molteplicità e spaziale e temporale, natura, - dove nessuna cosa è l'altra, ed ognuna è, prima non essendo e poi essendo, e non essendo dopo essere stata, ossia nascendo e morendo, - anch'essa, come tutti gli altri elementi della molteplicità, si può concepire soltanto come nata e destinata a morire, concorrendo nella vicenda stessa di tutte le cose transeunti, con cui si accompagna. Ma l'Io non è soltanto posizione dell'altro, e quindi opposizione di sé a quest'altro, e moltiplicazione. L'Io è anche, e prima di tutto, unità, per cui tutti i coesistenti dello spazio si abbracciano d'un solo sguardo nel soggetto, e tutti i successivi del tempo sono i compresenti in un presente che nega il tempo. L'Io domina lo spazio e il tempo; e si oppone alla natura, unificandola in sé e trascorrendo da un termine all'altro di essa, nello spazio e nel tempo, anzi spingendosi di là da ogni termine. Lo spirito perciò non può schierarsi in mezzo al molteplice, senza pur intravvedere che gli sovrasta e lo domina e ne trionfa, sottraendosi alla sua legge. Lo intravede subito che s'accorge (accorgimento essenziale ad esso ed originario) del valore del suo porre l'oggetto e contrapporvisi, ossia del valore d'ogni propria affermazione, inintelligibile come tale senza la discriminazione del vero e del falso. Ché niente si pensa senza pensare che così va pensato e non altrimenti: niente cioè si pensa, se non come vero che si distingua dal suo contrario. Né il vero è relativo come ogni elemento della molteplicità, in cui ci sono tanti elementi: il vero è uno, assoluto (nella sua stessa relatività, non potendo essere se non quel che è). Talché un elemento del molteplice ne ha accanto a sé altri; e il vero, se è vero, è solo. Questa verità non può essere per ciò soggetta alla spazialità e temporalità delle cose naturali: le trascende, pur essendo quel che deve pensarsi di esse; e si pone come eterna. L'eternità del vero importa l'eternità del pensiero in cui il vero si manifesta: dal quale la speculazione potrà in seguito distaccarlo, ma in quanto ve lo trovi. Sicché la stessa trascendenza dell'eterno, come risultato (ché non può esser altro) d'una induzione speculativa, presuppone una certa presenza dell'eterno nello spirito, e una certa identità dei due termini. E questa sarà la ragione per cui, fatto trascendente il vero, bisognerà pur fare trascendente lo spirito, con la vita oltremondana, se non premondana, dell'anima. Ma sentire in sé la verità, non può esser altro che sentire in sé l'eterno, o sentirsi partecipi dell'eterno, o comunque altrimenti si voglia dire.

Da: Giovanni Gentile, Teoria Generale dello spirito come atto puro, in: L'Attualismo, Bompiani, 2014, p. 202 – 204.

Il desiderio di vivere in eterno mediante questo "Io-trascendente" è il desiderio di Giovanni Gentile un desiderio irrealizzabile che spinge Giovanni Gentile e farneticare su un'eternità che non può essere. Facendo filosofia è necessario argomentare. Gli argomenti di Gentile si fermano all'opinione che esprime un desiderio soggettivo. L'immortalità è un desiderio di corpi che si sono ritirati dal mondo e che si sono rifugiati in una dimensione personale che impedisce loro di costruire relazioni con gli oggetti del mondo. Costoro immaginano un "Io-trascendente" che viva in eterno come il Dio che immaginano. I filosofi hanno inventato l'anima per privare i corpi del loro vivere nel mondo. Una volta che si è inventata l'anima si è inventata la separazione dell'anima dal corpo e, mediante l'uso dell'anima, si sono resi i corpi schiavi di dominatori che dominano in virtù del Dio che si esprimerebbe nei corpi degli schiavi mediante l'anima che lui controlla.

Giovanni Gentile fa propri i concetti di Platone secondo cui l'anima è il vero Io a differenza del corpo che funge da vuoto contenitore dell'anima. Giovanni Gentile immagina quest'anima immortale. Un'anima che si distacca dal corpo per vivere l'immortalità presso il suo creatore.

Scrive Giovanni Gentile sul concetto di male:

8. Il male

Casi il concetto è certamente vero, perché la verità non è altro che l'attributo proprio del pensare come concetto; e se il concetto non avesse in se medesimo differenza di sorta, e insomma fosse immediatamente concetto, come la pietra è pietra, e il due è due, né più né meno di quell'astratta quantità determinata che si penosa, è chiaro che 1'errore non sarebbe concepibile. Ma per l'errore è da ripetere quel che è stato detto del dolore. Il concetto non è già posto, ma è il positivo che si pone; è un processo di autoctisi che ha per suo momento essenziale la propria negazione, 1'errore di contro al vero. Sicché errore c'è nel sistema del reale in quanto lo sviluppo di cotesto processo pone l'errore stesso come suo momento ideale, una posizione, cioè, già superata, e quindi svalutata. Si prenda qualunque errore, e si dimostri bene che è tale; e si vedrà che non ci sarà mai nessuno che voglia assumerne la paternità e sostenerlo. L'errore, cioè, è errore in quanto è superato: in quanto, in altri termini, sta di rimpetto al concetto nostro, come suo non-essere. Esso è pertanto, come il dolore, non una realtà che si opponga a quella che è spirito (conceptus sui), ma la stessa realtà di qua della sua realizzazione: in un suo momento ideale.

9. L'errore come colpa

Quel che è l'errore teoretico, è il male morale od errore pratico, giacché l'intelletto stesso è volontà: la quale si può anzi dire la concretezza dell'intelletto. Per modo che il vero conceptus sui è quell' autocoscienza del mondo che non si può considerare come astratta filosofia (contrapposta alla vita), ma la più alta forma della vita: la più alta cima a cui possa sollevarsi, come spirito, il mondo. Forma, che non è poi così alta da non essere insieme la fondamentale, anzi la sola che si espanda dalla base al vertice della piramide della vita. Concepite il mondo come altro da voi: e la necessità del vostro concetto è una pura (perché astratta) necessità logica; ma concepite (come lo dovete concepire, e in fondo perciò lo concepite sempre) lo stesso mondo, senz'altro, come la vostra realtà in possesso di sé; e allora voi non potete parvi fuori della necessità del vostro concetto, come se la legge non vi riguardasse: ma la razionalità del vostro concetto vi apparirà la vostra legge stessa, il vostro dovere.
Che altro infatti è il dovere se non l'unità della legge del nostro operare con la legge dell'universo? E in che altro consiste l'immoralità dell'egoista il quale ha occhi soltanto pel suo particolare, se non nella separazione ch'egli fa di sé e del mondo, e delle leggi rispettive? La storia della morale è la storia della intelligenza sempre più spiritualistica del mondo; e ogni passo nuovo sulla via in cui ci si prova a ripercorrere idealmente la formazione della coscienza morale, non è mai altro che un approfondimento del senso spirituale della vita: una maggiore realizzazione della realtà come autoconcetto.
Ebbene, come sarà possibile chiudersi in una visione dello spirito infinito tutto bontà (terreno o celeste paradiso), se lo spirito che è la buona volontà come piena realtà spirituale, non può concepirsi altrimenti che come sviluppo? Come concepire al principio o alla fine o una volta, quando che sia, lo spirito immacolato, puro, se la buona volontà è sforzo e conquista? se il suo essere è il suo non-essere?

Da: Giovanni Gentile, Teoria Generale dello spirito come atto puro, in: L'Attualismo, Bompiani, 2014, p. 296 – 297.

Che cos'è il "male" per Giovanni Gentile? E' "1'errore di contro al vero". Il male è la negazione del vero. Ma come può Gentile parlare di male come negazione del vero quando proclama uno spirito, che non è il vero, in contrapposizione ad un corpo desiderante? E come può il corpo desiderante commettere il male se il vero è il desiderio del corpo e non la morale che dovrebbe impedire la veicolazione del desiderio del corpo in conformità ad un dovere che viene imposto sul corpo?

Seguendo la logica di Gentile, il male è espresso da Gentile quando parla del dovere. Dice Gentile " Concepite il mondo come altro da voi: e la necessità del vostro concetto è una pura (perché astratta) necessità logica; ma concepite (come lo dovete concepire, e in fondo perciò lo concepite sempre) lo stesso mondo, senz'altro, come la vostra realtà in possesso di sé; e allora voi non potete parvi fuori della necessità del vostro concetto, come se la legge non vi riguardasse: ma la razionalità del vostro concetto vi apparirà la vostra legge stessa, il vostro dovere". E suona come un atto di violenza che dice: "Concepite il mondo come estraneo a voi: e la necessità del vostro possedere il mondo è pura necessità logica; ma possedetelo (come lo dovete possedere, e in fondo perciò lo possedete sempre) lo stesso mondo, senz'altro, come la vostra realtà in possesso di sé; e allora voi non potete parvi fuori della necessità del vostro possesso, come se la legge non vi riguardasse: ma la razionalità del vostro possesso vi apparirà come la vostra stressa legge, il vostro dovere di possedere".

Gentile esprime il male mediante un dovere di possesso di un oggetto che dovrebbe essere la fonte delle relazioni dell'uomo nel mondo in cui è nato. Il male, il male assoluto, è espresso da Giovanni Gentile in quella volontà di possesso e di sottomissione che separa prima l'uomo da sé stesso mediante la separazione corpo-spirito e poi lo separa dal mondo mediante la separazione uomo-natura.

Come dice Giovanni Gentile: " Come concepire al principio o alla fine o una volta, quando che sia, lo spirito immacolato, puro, se la buona volontà è sforzo e conquista?" Volere, in Gentile, non è "potere", ma volontà di sottomettere, dominare, di uno "spirito puro" che mediante l'uomo realizza l'assoluto arbitrio di Dio nella società.

Scrive Giovanni Gentile nel discorso fra misticismo e intellettualismo:

3. Misticismo e intellettualismo

Il mistico suole schierarsi contro le teorie intellettualistiche, perché queste, secondo i mistici, presumono vanamente di raggiungere per mezzo della conoscenza l'Assoluto, che si potrebbe raggiungere invece soltanto per mezzo dell'amore (sentimento o volontà, che si dica). La differenza tra le due concezioni sarebbe in sostanza questa: che per gl'intellettualisti l'Assoluto è conoscibile, perché è in se stesso conoscenza; per i mistici, non è conoscibile, perché esso non è conoscenza, ma amore. E l'amore si distingue dal conoscere in ciò, che esso è vita, trasformazione di sé, processo creativo, laddove il conoscere suppone (cioè, si crede supponga) una realtà già compiuta, che sia soltanto da intuire. Il misticismo per altro conviene interamente con l'intellettualismo nel concepire il suo amore come oggetto, e il processo dell'Assoluto come un processo che stia innanzi allo spirito e in cui questo debba immergersi. Viceversa, 1'intellettualismo coincide affatto col misticismo in quanto, pur concependo l'oggetto del conoscere come conoscibile, cioè esso stesso conoscenza, ne fa tuttavia un termine esterno al soggetto, posto il quale il soggetto non viene ad essere più concepibile se non per metafore vuote, come quella di una attività intuitiva. Il vero è che la caratteristica propria dell'intellettualismo non è in ciò per cui si oppone al misticismo, ma in ciò per cui s'accorda con questo: cioè nel concepire la realtà quale mero oggetto assoluto, e però il processo dello spirito come processo che presuppone il suo oggetto già realizzato prima che il processo stesso s'inizi. In ciò infatti l'intelletto si oppone al volere: che questo crea il suo oggetto (il bene, il male), e quello non crea niente, non opera, ma guarda soltanto quel che c'è, da spettatore passivo e ozioso. Ora il misticismo rimane appunto in questa posizione propria dell'intellettualismo, e non riesce, malgrado tutti i suoi sforzi, a concepire lo spirito come volontà (sentimento, amore), perché volontà è libertà, autoctisi; e questa non è possibile dove l'attività non è assoluta (onde va a finire nei concetti di fato, grazia e simili).

Da: Giovanni Gentile, Teoria Generale dello spirito come atto puro, in: L'Attualismo, Bompiani, 2014, p. 317 – 318.

Il mistico è il malato mentale che creando un mondo ideale nella propria mente lo proietta verso l'esterno sovrapponendo e sostituendolo ad una realtà che lo angoscia e dalla quale è fuggito rifugiandosi in sé stesso. Nella sua realtà immaginata il mistico occupa il ruolo dell'assoluto. Lui è Dio e lui è il beneficiario dell'amore di sé stesso. Un sé stesso che diventa "il Dio che lo ama". E questo Dio è amore che si rivolge benevolo al mistico consolandolo delle sue paure e delle sue angosce.

L'intellettuale che cerca Dio e che rivendica il proprio diritto di dire cosa Dio pensa e che cosa Dio vuole altro non è che la versione razionale del mistico. Il mistico ha racchiuso la sua malattia nelle sue emozioni che generano le illusioni e le allucinazioni mistiche; l'intellettuale che cerca Dio ha racchiuso la sua malattia nella ragione che esprime la propria malattia mediante le parole che esaltano l'azione di Dio di cui lui è il portavoce.

Entrambi vivono la medesima malattia. Entrambi fuggono dal mondo. Diverso è il luogo intimo in cui si rifugiano, uno nelle emozioni e l'altro nelle parole, ma entrambi distorcono la realtà per adattarla a sé stessi.

Scrive Giovanni Gentile:

4. Oggettivismo del pensiero mistico

La realtà assoluta del mistico non è soggetto, ma oggetto. Oggetto, beninteso, dal punto di vista dell'idealismo attuale, per cui il soggetto coincide con l'Io che lo afferma. Giacché anche il mistico parlerà della personalità toto caelo diversa dalla sua che entra in rapporto con quella, o aspira ad entrarvi: in guisa che riesce a concepire una personalità, che è oggetto del suo spirito, - cioè del solo spirito che per lui effettivamente sia spirito, - e non è perciò spirito.
In questa realtà, quindi, essenzialmente oggettiva e anti spirituale, nessuna meraviglia se non rimanga posto pel soggetto, per la personalità individuale, per l'uomo tormentato dal desiderio di Dio che è tutto, e dal senso infinito della propria nullità. Nessuna meraviglia se vi dileguano come ombre fallaci tutte le cose particolari, le quali nel seno della realtà si distinguono per l'attività determinatrice di questa potenza finita, e per se stessa nulla, che è l'intelligenza, ossia la personalità come attività conoscitiva.

Da: Giovanni Gentile, Teoria Generale dello spirito come atto puro, in: L'Attualismo, Bompiani, 2014, p. 318.

La malattia mentale si presenta al soggetto come un dato di realtà. La malattia mentale non è una semplice degenerazione di un tessuto fisico, ma è una degenerazione di un tessuto fisico che destruttura l'intero individuo e lo ristruttura adattandolo alla realtà che la malattia mentale lo induce a immaginare.

Pertanto, la realtà che il soggetto immagina, come prodotto della malattia mentale, per il soggetto, è l'unica realtà in cui il soggetto è in grado di vivere. Per questo motivo per il mistico le sue allucinazioni sono reali esattamente come sono reali le farneticazioni moralistiche con cui il filosofo parla di Dio facendosi suo profeta e portavoce.

Per entrambi Dio è tutto perché loro, l'intellettuale e il mistico, si proiettano come il tutto, un assoluto al di sopra e al di fuori della realtà.

Scrive Giovanni Gentile:

5. Antintellettualismo dell'idealismo

L'idealismo moderno invece si muove in una direzione affatto opposta a quella in cui è orientato il misticismo. Esso, come ho detto, è antintellettualistico, e in questo senso profondamente cristiano, intendendo per Cristianesimo la concezione intrinsecamente morale del mondo. Concezione a cui rimasero del tutto estranee l'India e la Grecia, in tutto il corso della loro speculazione. Giacché l'India finisce nell'ascesi, nella soppressione delle passioni nell'estirpazione dei desideri e d'ogni radice dell'umana operosità, nel nirvana: il suo ideale è la stessa negazione del reale, in cui la moralità si realizza: la personalità umana. E la più alta parola etica pronunziata dalla filosofia greca è la giustizia: la giustizia, che dà a ciascuno il suo, e conserva perciò l'ordine naturale (presupposto come tale), ma non instaura, non crea un mondo nuovo; e non esprime pertanto la vera virtù dello spirito, che ha natura creativa e non può trovare innanzi a sé il bene, che ad esso spetta di produrre. E come poteva la filosofia greca intendere la natura morale dello spirito, se il suo mondo non era lo spirito, ma la natura (materiale o ideale che fosse), lo spettacolo insomma dello spirito? La morale greca finisce nella dottrina stoica del suicidio, coerentemente alla tendenza immanente alla sua concezione intellettualistica, di una realtà in cui il soggetto non ha valore. Il Cristianesimo invece scopre la realtà che non è, ma crea se stessa, ed è quale si crea: una realtà perciò che non si tratta già di conoscere, com' era il mondo del filosofo greco, che si poneva a contemplarlo, tirandosene quasi in disparte, quando, come favoleggia Aristotele, tutti i bisogni della vita sono appagati e la vita quasi è compiuta; ma una realtà che spetta a noi di costruire. Una realtà che è ora sì veramente amore e volontà; perché è lo stesso sforzo interiore dell'anima, il suo vivo processo, non l'ideale suo e il suo modello esteriore: lo stesso uomo, che trasumana e si fa Dio. Non più il Dio che è già, ma il Dio che si genera in noi, ed è noi stessi, in quanto noi, con tutto l'esser nostro, ci eleviamo a lui. Qui lo spirito non è più intelletto, ma volontà. Il mondo non è più quello che si conosce, ma quello che si fa. E però non solo lo spirito si può cominciare a concepire come libertà o attività morale, ma il mondo, tutto il mondo del cristiano, è liberato e redento. E un mondo che è quello che si vuole che sia: un mondo, come dicevo, essenzialmente morale.

Da: Giovanni Gentile, Teoria Generale dello spirito come atto puro, in: L'Attualismo, Bompiani, 2014, p. 319 – 320.

Che cosa intende Giovanni Gentile per "concezione morale del mondo"?

Giovanni Gentile intende che il mondo viene sottomesso alla morale del Dio dei cristiani e deve agire nel senso che quella morale ordina ai cristiani e, per estensione, ad ogni uomo.

Lasciamo perdere l'dea superficiale che dell'India ne ha Giovanni Gentile quando appiattisce tutte le "religioni indiane" in un'unica dimensione concettuale e ideologica nel "nirvana" dei buddisti e ignora la via alla conoscenza dei Giainisti. Consideriamo le sue affermazioni in relazione alla filosofia della Grecia che, secondo Giovanni Gentile, ha espresso il concetto di "giustizia".

Il concetto di giustizia nel mondo omerico era il concetto di giustizia degli uomini non solo rispetto ad altri uomini, ma soprattutto rispetto ad eventuali strapoteri degli Dèi. Poi, arrivò Platone che nel suo delirio di onnipotenza volle non solo sottomettere gli uomini al Dio, ma privarli di ogni diritto di essere dei cittadini per essere trasformati in schiavi obbedienti alla volontà del Dio, di quel Dio, che imponeva agli uomini obbedienza e sottomissione. Con l'imposizione della filosofia di Socrate, Platone e Aristotele gli uomini divennero schiavi di un assoluto divino che veniva rappresentato nella società dai filosofi, da Alessandro Magno e da tanti "unti degli Dèi" che fecero da apripista all'arrivo del cristianesimo.

Il cristianesimo si preoccupò di trasformare i cittadini in sudditi e in schiavi della morale imposta dal loro Dio privandoli di ogni diritto sociale. Il cristianesimo elevò a diritto l'obbligo degli schiavi di obbedire alla morale perché "se farete quello che io voglio, non vi chiamerò più servi, ma amici!".

Il mondo della filosofia greca era il mondo sociale ed una natura da esplorare, da svelare, nella quale mettere in atto le proprie strategie d'esistenza. Il cristianesimo annulla l'analisi del mondo riducendo tutto ad un "prodotto creato da Dio" ed uccide la conoscenza dell'uomo perché l'uomo deve confidare nella "provvidenza divina". Tutto l'oscurantismo dei secoli dominati dal cristianesimo si caratterizza non solo per la mancanza di sviluppo della conoscenza, ma per la distruzione di ogni conoscenza antica.

Con l'arrivo del cristianesimo l'uomo e la donna non sono più persone, sono oggetti di possesso. Solo Dio è persona. Tre persone in una che dominano l'uomo mediante la violenza della chiesa cattolica.

Per i greci, prima di Platone, il mondo non aveva l'anima anche se distinguevano ciò che era animato da ciò che non era animato. Il mondo era popolato da Dèi. Gli uomini stessi erano Dèi che abitavano il mondo. Lo stesso Daimon era l'aspetto divino degli Esseri della Natura che abitavano il mondo e che costruivano delle relazioni emotive che Omero rappresentava nelle forme e nelle azioni degli Dèi.

Nella Grecia antica, uomini e Dèi camminavano assieme. Entrambi erano nati ed entrambi costruivano sé stessi agendo nel mondo. Poi arrivò il cristianesimo che rese l'uomo schiavo del Dio padrone e creatore del mondo e tolse all'uomo il suo lato divino affinché si umiliasse davanti a Dio e ai rappresentanti del cattolicesimo. Questo umiliare dell'uomo da parte del cristianesimo piace molto a Giovanni Gentile perché, se l'uomo si umilia davanti a Dio, alla chiesa cattolica, si può umiliare anche davanti allo Stato consentendo allo Stato di imporgli i doveri che ritiene e usare quell'uomo per i suoi scopi. Questo è il senso dell'idealismo in Giovanni Gentile.

Prima della prima guerra mondiale, mentre la maggior parte degli intellettuali è contro la guerra, Giovanni Gentile spinge per entrare in guerra. Una guerra di occupazione e di conquista a cui lui non partecipa. Non scende nelle trincee, non cammina nel fango, vuole che ci vada la gente, quel popolo bue che disprezza perché disprezza i corpi in funzione di uno spirito "più alto". Vale la pena di ricordare chi ha salvato l'onore della Patria Italia sparando nella schiena dei propri ufficiali assassini o sparandosi nelle mani per non dover combattere.

Il delirio di onnipotenza di Giovanni Gentile, quale "padrone di uomini" ai quali nega il diritto di disporre del proprio corpo e il diritto di soddisfare i propri bisogni in funzione di uno spirito "ideale", di una "morale ideale", di un "dovere ideale", sta soltanto nella sua testa farneticante che pretende che venga accettato come la realtà. Il delirio imposto agli uomini come realtà degli uomini.

Nel 1916 Giovanni Gentile pubblica "Il concetto dell'uomo nel rinascimento" e "I fondamenti della filosofia del diritto".

Nel 1917 Giovanni Gentile pubblica il primo volume di "Sistema di logica come teoria del conoscere".

Scrive Giovanni Gentile nel primo volume del "Sistema di logica come teoria del conoscere":

10. La verità come unità indifferenziata, e la sua definizione classica

La conclusione finale è, che il logo sarà verità come presupposto del pensiero, non come medesimezza di un termine con l'altro: che, cioè, questa medesimezza, che si vedrà sempre ripullulare dal seno stesso dell' astratto termine unico, non sarà più intesa (come solo è veramente possibile che s'intenda) quasi l'immedesimarsi del differente, sibbene come l'indifferenziamento dell'astratto uno, che è seco stesso identico, non perché vinca e risolva alcuna differenza che sorga dal suo interno, ma perché, impietrato e astratto com'è, non ha in sé differenza da riassorbire.
Questo il concetto della verità trascendente, che giace nel fondo della classica definizione scolastica, ereditata dal platonismo e pienamente rispondente al punto di vista dell'antica filosofia che s'è definito di sopra: "veritas intellectus", come disse Tommaso d' Aquino, "est adaequatio intellectus et rei, secun- dum quod intellectus dicit esse quod est) vel non esse quod non est". Definizione, che il potente ingegno dell'Aquinate si sforza di ravvivare facendo della res una realtà non affatto esteriore e indifferente al pensiero, anzi la realtà conosciuta in sé, perché derivante da quella "scientia Dei" che è "causa rerum". Ma i suoi sforzi non mutano la situazione fondamentale del pensiero (in atto) di fronte alla res (considerata non per quel che è in sé, prodotta dall'intelletto divino, ma per quel che è rispetto all'intelletto umano che la conosce): situazione, per cui da un lato c'è l'intelletto, dall' altro la cosa; e poiché la cosa è tutto, l'intelletto allora è nel vero quando si adegui alla cosa.
Lo stesso concetto, dopo quasi sei secoli, si ritrova (per addurre in esempio un altro gran nome) nel Rosmini, il quale, come tanti altri, chiama "criterio della verità" quella «regola, coll'uso della quale si può discernere il vero dal falso»: regola suprema, immediata, «che non abbia bisogno di mutuare la sua efficacia da qualche cos'altro diverso da sé e che sia evidente, cioè contenga una necessità oggettiva, secondo la quale non si possa a meno di reputar vero ciò che le è conforme, falso ciò che le è difforme» . E poiché per lui si conosce checchessia, in quanto si conosce prima di tutto che è, e l'essere (ideale) è quindi la forma d'ogni cognizione, anche per lui la formula del criterio della verità è nella proposizione: «Quello che apprende lo spirito umano è vero se è conforme all' essere, ed è falso se non gli è conforme».
Proposizione equivalente alla definizione testé riferita, ma che il Rosmini s'affretta a commentare dimostrando in maniera esplicita che la verità, in tal posizione, non è propriamente la conformità, ma il modello a cui lo spirito dee conformarsi: l'unico termine astratto, o logo obbiettivo, come già s'è chiarito.

Da: Giovanni Gentile, Sistema di logica come teoria del conoscere, in: L'Attualismo, Bompiani, 2014, p. 385 – 386.

Nel trattato di logica come teoria del conoscere Giovanni Gentile si affretta a ribadire i concetti cristiani secondo cui Dio è la verità. Tutta la logica di Gentile che si basa sul "logos", sulla "parola", sul "verbo" altro non è che la ripresa del discorso del vangelo di Giovanni articolato sia dalla scolastica, da Tommaso d'Aquino e da Rosmini.

"Medesimezza", significa perfetta identità e coincidenza fra idea astratta della verità e "impietrato", che come variabile non comune di "impietrire", significa: 1) essere freddo, duro, insensibile; 2) essere ridotto ad un'atterrita immobilità, paralizzare; 3) uno stato di cupa freddezza e immobilità; 4) restare attonito, incapace di reazioni, paralizzarsi; 5) trasformarsi in pietra, privo di sentimenti e di mobilità. Direi che la descrizione del Dio dei cristiani come verità è perfetta. La verità come disprezzo delle trasformazioni dell'uomo e del vero come continua modificazione della realtà percepita che costituisce il cammino del suo divenire.

L'idealismo riprende il concetto cristiano secondo cui "Dio è la verità e la verità vi rende liberi". Giovanni Gentile continua affermando che è vero ciò che procede da Dio, altrimenti è falso. Un concetto che viene riaffermato da Tommaso d'Aquino nella Summa contro i Gentili dove nel capitolo LX del primo libro afferma che "Dio è la verità" e da Rosmini quando afferma che Dio, in quanto verità, è quanto discrimina il vero dal falso. Se è in linea con il Dio dei cristiani è vero, se contrasta col Dio dei cristiani è falso.

Il cristianesimo e la sua logica, in cui tutto discende e dipende da Dio, è l'ossatura ideologica dell'idealismo in cui il concetto di verità è il Dio dei cristiani.

Nel 1918 Giovanni Gentile va a Roma come ordinario di storia della filosofia. E' a Roma che Giovanni Gentile inizia la sua attività politica quando assieme a Luigi Einaudi e a Gioacchino Volpe fondano il "Gruppo Nazionale Liberale Romano". Questa associazione fascista formata da ex combattenti e nazionalisti dà vita all'Alleanza Nazionale che si presenta alle elezioni politiche rivendicano uno "stato forte". Uno Stato assolutista.

Fra il 1919 e il 1920 vengono raccolti scritti vari per il volume "Guerra e fede" e "Dopo la vittoria". Gentile pubblica anche "Il tramonto della cultura siciliana", "La riforma dell'educazione" (1920), "Giordano Bruno e il pensiero del rinascimento" e "Discorsi di religione" (1920).

Nel 1920 Giovanni Gentile diventa consigliere comunale al Municipio di Roma diventando assessore alle belle arti di Roma.

Nel 1922 Giovanni Gentile diventa socio all'Accademia dei Lincei e in quell'anno diventa ministro nel governo fascista di Mussolini. La filosofia assolutista di Giovanni Gentile ha il suo naturale sbocco nel fascismo. Un fascismo al quale aderisce con entusiasmo trovando in Mussolini "l'uomo del destino", quel "potere forte" tanto agognato e desiderato.

Nel 1923 viene varata la riforma della scuola detta "Riforma Gentile". Una scuola fortemente verticistica e fortemente classista il cui intento è quello di selezionare i dirigenti per il regime fascista e impedire alle masse di accedere alla cultura. Una scuola assolutamente meritocratica e fortemente discriminante rispetto alle critiche rivolte all'autorità. Un vero e proprio organo di polizia volto al controllo dell'infanzia. In molti paesi l'autorità sarà formata dal carabiniere, il maestro, il sindaco, il prete e il farmacista. Una scuola che controllerà l'accesso all'università riservandola, di fatto, soltanto a chi frequenta il liceo classico e limitandone l'accesso a tutti gli altri studenti.

Nel 1923 Giovanni gentile si iscrive al Partito Nazionale Fascista e del Partito Nazionale Fascista egli rappresenterà la filosofia assolutista. Dal punto di vista filosofico è corretto dire che l'ideologia del Partito nazionale Fascista è l'ideologia di Giovanni Gentile. Fino al 1924 Giovanni Gentile fa parte del Gran consiglio del fascismo.

Nel 1924 Giovanni Gentile si dimette da ministro dell'educazione dopo l'omicidio Matteotti, ma subito è assunto ad altri importanti incarichi per conto del Partito Fascista come la modifica dello Statuto Albertino.

Nel 1922 esce il secondo volume "Sistemi di logica".

Scrive Giovanni Gentile nel II volume "Sistemi di logica":

13. Immaterialità del mondo

Qui è la critica profonda d'ogni materialismo: critica che direi non teoretica, ma pratica. Poiché pensare il mondo come materiale, nella sua opposizione estrema allo spirito che lo pensa, ma pensarlo davvero, energicamente, rigorosamente e consapevolmente, è già vederselo svanire innanzi come mondo materiale per risolversi senza residuo non in un mondo pensato, bensì nello stesso atto o processo di pensare. Qui non occorrono dimostrazioni argomentative, di quelle che in verità non hanno mai avuto forza di convincere se non i già convinti. Qui si tratta di realizzare col pensiero quella realtà tutta spirituale, da cui il materialista può bensì torcere lo sguardo, ma in quanto non pensa, contento a quella "philosophia pigrorum", che è la incoscienza del proprio pensiero. L'esperienza immanente della nostra vita quotidiana ci attesta pure a gran voce la verità dell'assoluto formalismo. Per cui non è da dire che il mondo da noi conosciuto e per noi reale presupponga l'atto del pensare come condizione del proprio essere; ma addirittura che tutto il suo essere reale sia in quell' atto del pensare. Ogni lettore di poesia sa bene che, quando abbia la fortuna d'incontrarvisi, la poesia egli non la trova materialmente nel libro: non dico già stampata nel libro, ma né anche lì obbiettivamente esistente in' tutti i gradi della sua idealità per modo che possa bastare aprirvi sopra a un tratto gli occhi e 1'animo per accoglierla dentro. Sa che soltanto vincendo 1'opposizione dell' oggetto a se stesso, e pervenendo a tale situazione di spirito che la poesia stessa del libro ne sprizzi e sgorghi spontanea come da naturai fonte, allora sì che gli è possibile vedere e sentire e gustare la poesia: immedesimando in guisa il mondo poetico con quello che si sviluppa dal lavorio interno all' animo commosso, che egli dimentichi non pure il libro che ha innanzi, e il luogo dove col libro si trova, e il tempo con cui egli stesso cronologicamente fa sistema con l'autore della poesia, e ogni realtà estranea a questa vita fantastica che gli pulsa interiormente in un aere senza tempo. Il poeta, è stato detto, si dimentica nel suo mondo. Ma deve pure dimenticarvisi chi voglia partecipare alla gioia del poeta con la contemplazione di quel mondo luminoso, che non preesisteva già oggettivamente all' attività creatrice dell'artista, né veramente preesiste a quella di chi legge la sua poesia. Ora questo dimenticarsi non è propriamente risoluzione del soggetto nell' oggetto, anzi, al contrario, completo assorbimento della materiale realtà dell'universo nell' attività del soggetto. Ma, se non c'è poesia che porga una materia alla nostra attività fantastica, c'è forse forma di esperienza o di pensiero che ci ponga innanzi immediatamente una natura, un cielo, un mare, una montagna, una società, un uomo, un'epoca storica o un avvenimento nella sua essenza? C'è nulla che da noi si possa comunque conoscere, e magari soltanto percepire, avvertire, scorgere, senza un nostro processo spirituale, di cui 1'oggetto in quanto tale possa essere il prodotto, e il cui prodursi pertanto non coincida, nei vari momenti del suo svolgimento, col progressivo sviluppo del nostro spirito? E' forse la stessa montagna quella che conosce il valligiano che sedendo innanzi al suo casolare ne guarda tranquillamente la vetta fulgente ai raggi del sole e quella che ha imparato a conoscere dalla valle alla vetta l'alpinista, nelle sue ardimentose ascensioni? E la stessa storia quella che ha imparucchiato dai cenni sconnessi di un manualetto scolastico un distratto fanciullo e quella che dentro gli stessi confini di spazio e di tempo ha con sapiente e industre fatica costruito lo storico? Risorge bensì in tutte le menti la realtà storica con determinazioni cronologiche e geografiche, per cui l'uomo che se la rappresenta colloca se stesso fuori degli avvenimenti a maggiore o minor distanza nel tempo e nello spazio. Ma tutta questa prospettiva complessa, in cui fatti e personaggi storici coesistono insieme con lui, non solo è tutta quanta dentro il suo pensiero, ma vi si costruisce e sviluppa, punto per punto, mercé l'energia viva di questo stesso pensiero. Sicché, a ben considerare, non è (lo avvertì Spinoza) "pictura in tabula", ma "ipsum concipere": lo stesso pensiero in atto. La vita dello spirito, in questo senso, è sempre una distrazione, un rapimento, un'estasi. Poiché sempre è distratto chi fortemente è intento al proprio lavoro all'oggetto del proprio pensiero, non potendolo aver presente nella ricchezza e determinatezza de' suoi particolari senza costruirlo di continuo con l'atto del suo proprio pensiero. E l'oggetto di questo, concentrando, raccogliendo in sé e impegnando tutte le forze del soggetto, lo rapisce e distoglie da ogni altro studio ed esperienza, generando una specie d'estasi, in cui il soggetto pare sia uscito fuori di sé e non abbia più di sé coscienza, perché non ha occhi per ciò che all'osservazione altrui apparisce atto a suscitare il suo interesse e attrarre e scuotere la sua personalità. Egli è tutto nel suo oggetto in quanto il suo oggetto è tutto lui. Infinito l'oggetto, e però non superabile, né completabile, poiché infinito sempre il pensiero nell' ambito della coscienza che esso realizza. Il mondo materiale, dunque, esiste, sì, ma in quanto pensandosi viene smaterializzato, e risoluto tutto nella vita dello spirito.

Da: Giovanni Gentile, Sistema di logica Volume secondo, in: L'Attualismo, Bompiani, 2014, p. 632 – 634.

Il mondo è materia. Materia che si emoziona diventando materia vivente. La materia, emozionandosi, ha costruito le proprie strategie esistenziali e da queste, passando attraverso la nascita delle specie della natura e attraverso la diversificazione delle specie, è nata la forma attuale che chiamiamo "uomo". Questa specie della natura fra gli strumenti che usa per vivere c'è anche quello di "pensare il mondo", "descriverlo mediante le parole" e "recitare il mondo sia pensandolo che declamandolo".

La materia che si emoziona è una condizione che ricade sotto i nostri sensi, uno spirito distinto dalla materia che manifesta intelligenza è un'illazione; perché noi non siamo in grado di viverlo ma solo di desiderarlo mediante l'immaginazione.

Affermare che "lo spirito è reale" mentre la materia è immaginazione è un inganno che dimostra il fallimento esistenziale di un individuo. Fallimento esistenziale come incapacità di riconoscere che sono i corpi che abitano la società, sono i corpi che sacrificano i loro mutamenti (il loro tempo) affinché una società viva.

Corpi materiali che si emozionano. Corpi che accumulano tensioni emotive, corpi che desiderano veicolare nel mondo le tensioni accumulate, corpi che chiedono di esprimersi in una scarica emotiva che si riversa nel mondo modificando sé stessi e il mondo. Corpi, non spiriti.

Se rendi difficoltosa la vita dei corpi o l'abitare il mondo del corpo, il corpo muore e col corpo muoiono le emozioni che lo abitano.

Il materialista realizza la realtà emotiva vissuta dai corpi, Il materialista non è colui che non riconosce le tensioni emotive del corpo, ma è colui che non separa la vita emotiva del corpo dal corpo che abita il mondo e che da quell'abitare il mondo, da quelle emozioni che il corpo investe nelle relazioni, trae trasformazione emotiva e trasformazione fisica.

Lo spiritualista rinchiude le proprie emozioni nella malattia mentale che si genera con la separazione del proprio corpo dalle relazioni fra sé e il mondo. In quella malattia mentale l'idealista soffre, gode, si dispera in mondi immaginari, mondi virtuali, nei quali si è rinchiuso negandosi la possibilità di veicolazione emotiva nel mondo mediante le relazioni con gli oggetti del mondo.

Il corpo è colui che cammina nel mondo e le emozioni sono lo strumento con cui il corpo costruisce le relazioni con i soggetti del mondo che incontra.

Io penso, descrivo il mondo e comunico il mondo. Ma che cosa comunico? Comunico quanto le mie gambe hanno incontrato; comunico quanto le mie mani hanno operato; comunico quanto i miei occhi hanno visto e le mie orecchie hanno udito Uso il pensiero parlato, il verbo, per comunicare l'abitare il mondo del mio corpo. Un corpo che è materia, sangue, catarro ed escrementi che espelle. Provi l'idealista a non espellere i propri escrementi e il suo pensiero si scioglierà come neve al sole mentre dolori atroci invaderanno ogni anfratto del suo pensare. Poter defecare diventerà la totalità del pensiero di quell'idealista.

Leggo la poesia e mi emoziono. Ma se la poesia mi ha emozionato è solo perché ho mangiato e il mio stomaco ha tolto i morsi della fame dalla mia testa permettendomi di affrontare altri e diversi piaceri.

Un corpo affamato vive l'estasi davanti ad un "pollo arroto", ma quando il corpo non è affamato ecco sorgere la poesia, la ricerca d'amore, il pensiero astratto che analizza la realtà nella quale viviamo.

Scrive Giovanni Gentile:

5. Inconoscibilità dell'ignoto

La scienza, bensì, non sempre si rassegna all'ignoto. E poiché l'ignoto per lei è un fatto, ecco che ricorre a una distinzione da leguleio, tanto per non darsi vinta, e non cedere quelle armi di cui ha pur bisogno per vivere quella vita ch'essa pur vive, ancorché sempre soggetta a quella minaccia di morte, che è per lei l'ignoto. E distingue la "quaestio facti" dalla "quaestio iuris"; e accetta "l'ignoramus", respinge "l'ignorabimus". Il motivo di questa distinzione, che il naturalismo più dommatico si sforza di opporre per un verso alla religione e per l'altro alla filosofia, è appunto questo bisogno che la scienza ha di vivere, non potuto soddisfare in quel solo modo che è razionalmente giustificabile, ossia con la dottrina del nesso tra logo astratto e concreto, onde ogni astrattezza si risolve nella concretezza dell'Io, il quale, a sua volta, dimostra la sua concretezza attraverso tutte le più varie determinazioni del non-Io. Ma un modo qualunque di sfuggire alle conseguenze dell'attualità dell'ignoto, poiché non si è in grado di scorgerne l'inattualità, è necessario: poiché in balìa dell'ignoto non si può vivere. La religione, abbiamo detto, è essa un momento inattuale; e idealmente riesce alla soppressione d'ogni attività dell'uomo, che in fatto perciò sarebbe soffocato da una pura religione non contemperata dal suo opposto nel dialettismo dello spirito. L'ignoto è il tutto dello scienziato: come concepire dunque la scienza? Ed ecco una logica della scienza, che si può dire la logica degli espedienti, che, respinto l'ignoto al margine, concepisce la scienza come passaggio dal noto all'ignoto: sicché l'ignoto attuale è virtualmente noto; e distinta la scienza tra scienza quale è e scienza quale sarà, parziale e totale, si può dire che la scienza, in quanto parziale, com'è di fatto, sia fronteggiata dall'ignoto, ma nella sua totalità domini infinitamente il reale e possa infatti, mediante il conoscere, mettere l'uomo in grado di signoreggiare l'universo.
Che cosa in verità più evidente di questa legge del sapere: dal noto all'ignoto? Quello che oggi conosciamo, ieri lo ignoravamo; e oggi ignoriamo quel che conosceremo domani. Né è possibile che l'ignoto non ancor posseduto si possa raggiungere altrimenti che movendo dal noto, che già si possiede. Ma questa famosa legge: «da noto all'ignoto», ha il difetto solito della logica analitica: divide cioè quello che non si può concepire se noi unito; e che diviso diventa inintelligibile, dando luogo a problemi insolubili. Sia A il noto e B l'ignoto. Secondo la logica analitica, A è A e non è B, e B è B e non è A. Così essendo, si pone il problema del passaggio da A a B; ma il problema è insolubile, perché in quella posizione A è irrelativo a B, e viceversa. Manca ogni relazione. Manca logicamente: cioè non solo manca di fatto, ma non può non mancare. E se manca la relazione, il passaggio dunque è impossibile. Chi è in A resterà eternamente in A: e se è fuori perciò di B, ne resterà escluso in eterno. Se il noto fosse tutto noto, se non contenesse in sé difficoltà intollerabili e problemi che il pensiero senta il bisogno, come pungolo irresistibile, di risolvere, oh perché il pensiero passerebbe oltre, e si scomoderebbe? Chi sta bene, non si muove. E chi studia di sapere è, socraticamente, chi sa di non sapere e non è perciò nel noto puro e semplice: anzi piuttosto nell'ignoto. E il perder tempo, appunto perciò, a chi più sa, più spiace. A e B non sono quei due termini irrelativi e divisi che immagina la logica analitica. Perché conoscere e non conoscere, e però noto e ignoto, san tutt'uno nel dialettismo del conoscere, in cui si pone infatti il problema dell'ignoto. A e B sono tanto identici e differenti insieme quanto l'Io e il non-Io. E non dal noto si passa all'ignoto, sì dall'ignoto al noto: e il conoscere consiste appunto nel passare, per modo che se, raggiunto il noto, vi s'insiste e persiste, esso stesso non è più noto, ma ignoto. Rotta quell'unità che è la dialettica del conoscere, si ha dunque un ignoto da una parte e dall'altra un noto che diventa "eo ipso" ignoto anch'esso.
Nell'ipotesi analitica astratta, l'ignoto di là dal noto non è altro che l'ignoto fuori del vivo processo del conoscere: l'ignoto che è per definizione fuori del soggetto, e nel quale perciò non è possibile mai che questo trovi uno spiraglio per cui insinuarsi e introdursi.
Con che non si vuol negare già ogni motivo di vero al venerabile detto comune: dal noto all'ignoto. Il quale, esattamente interpretato, andrebbe con più proprietà formolato: dal noto al noto; poiché certo è conosciuto tanto il "terminus a quo" quanto il "terminus ad quem" entrambi, uniti nella sintesi dell'atto conoscitivo. Ma si potrebbe perciò anche formolare dicendo: dall'ignoto all'ignoto, perché, se si oppone, nel seno stesso della sintesi, tesi e antitesi, tanto è ignoto il punto di partenza quanto il punto d'arrivo.
L'ignoramus della scienza, al pari di quello della metafisica e della religione, è ignorabimus…

Da: Giovanni Gentile, Sistema di logica Volume secondo, in: L'Attualismo, Bompiani, 2014, p. 771 – 773.

Il punto di vista sulla scienza di un idealista non lascia solo perplessi, ma indigna.

Che significa: rassegnarsi all'ignoto?

Il significato è cristiano. Dio ha creato il mondo e avrebbe concesso la "conoscenza" agli uomini. Una conoscenza che separa il "noto" dall'"ignoto" che Dio vuole che sia ignorato dall'uomo. Questa condizione terribile di sottomissione dell'uomo a Dio, che in questo caso suona come un "arrendersi o rassegnarsi" all'ignoto, è ribadita da Giovanni Gentile come rassegnazione dell'uomo al dominio fascista che è il noto in contrapposizione all'ignoto di una democrazia che, non essendo mai stata sperimentata, deve terrorizzare l'uomo e circoscriverlo nell'ideologia dominante.

La vita non si svolge "sotto la minaccia di morte". La vita si svolge in funzione della morte del corpo fisico. La vita non ha paura della morte, l'idealista, il cristiano, temono la morte perché con la morte del corpo fisico finisce il loro farneticare di un dopo la morte che è consolazione del loro fallimento esistenziale.

Colui che pratica la conoscenza mediante la ricerca scientifica è colui che vuole ampliare i limiti posti alla sua ragione nella descrizione del mondo. Costui vuole ampliare la descrizione del mondo e sperimenta il suo essere nel mondo sia come esistenza di relazione sia come ricerca in laboratori. Chi pratica ricerca scientifica e analisi critica del mondo in cui vive, procede per ipotesi parendo dal proprio presente vissuto e conosciuto ipotizzando un ignoto che deve esplorare, conoscere, analizzare, criticare, svelare. Egli ipotizza e verifica. Se le ipotesi di partenza sono sbagliate, ne elabora delle altre e quando la sperimentazione conferma o nega modifica la conoscenza che ha del mondo in cui vive.

Fra la pratica di analisi del mondo in cui si vive e la modifica della conoscenza di quel mondo, c'è tutto un processo di trasformazione dell'individuo che pratica la scienza. Lo stesso individuo non è mai uguale al sé steso che ha iniziato la ricerca, ma si è modificato nell'esperienza. Dall'esperienza emerge un nuovo e diverso individuo. L'idealista e il cristiano vivono la paura della modificazione soggettiva, preferiscono rifugiarsi nella fede e fuggire dalla comprensione dell'ignoto. Preferiscono che siano altri a sperimentare, a mettere in discussione loro stessi. Poi, quando altri hanno svelato elementi ignoti, allora se ne appropriano e ringraziano "Dio" di aver dato loro la conoscenza.

La scienza è concretezza dell'Io. Il fatto stesso che sia stato risolto il motivo per cui l'acqua va dal monte al mare non modifica il corso dell'acqua, ma modifica il modo con cui io guardo e penso il mondo in cui vivo. Quella conoscenza apre prospettive per altre conoscenze.

Conoscere è "abitare il mondo". L'ignoto non è il "tutto dello scienziato", l'ignoto è quanto circonda l'uomo che abita il mondo e che deve essere svelato dall'uomo per poter costruire le relazioni con ogni soggetto presente nel mondo. Da quando il bambino esce dalla vagina di sua madre inizia ad esplorare l'ignoto in cui è nato. La madre lo sollecita a parlare, a dire, a descrivere il mondo che lo circonda e il bambino si fa scienziato che, esplorando l'ignoto che abita, svela alla propria ragione il mondo e modifica sé stesso giorno dopo giorno.

Giovanni Gentile dice una stupidaggine quando indica con la lettera A ciò che è noto e con la lettera B ciò che è ignoto. E' una stupidaggine perché le due "entità" non sono né equivalenti né distinte in quanto ciò che ci è noto appartiene alla stessa qualità dell'ignoto che rappresenta un'infinita quantità ipotetica di conoscenza razionale che ogni singolo uomo può affrontare e svelare in relazione ai propri desideri, alle proprie necessità e ai propri progetti esistenziali. Solo l'uomo che pensa sé stesso come creato dal Dio dei cristiani ritiene che la conoscenza degli uomini, nel momento in cui vive, sia data da Dio e non sia il prodotto del duro lavoro di uomini che si sono interrogati nel loro presente sulla realtà del mondo in cui vivevano.

Ciò che ci è noto e ciò che ci è ignoto è sempre fuori da me. Io conosco mia madre che è altro da me; altre persone, altro da me, sono a me sconosciute ma, alcune di loro, le potrò conoscere. In me c'è la descrizione razionale dell'oggetto conosciuto, non c'è l'oggetto conosciuto che è sempre altro da me. Io conosco la gravità. La gravità è un oggetto diverso da me, ma io descrivo la gravità e questa descrizione determina un mio modo di pormi davanti al mondo. Tuttavia, la gravità sarà sempre un oggetto diverso da me che io abito e vivo. E questa gravità io l'abitavo e la vivevo anche quando non descrivevo la gravità e la mia ragione ignorava la sua esistenza.

Da questo possiamo dire che la mia ragione ha svelato e descritto qualcosa che il mio corpo già abitava e viveva. Se vogliamo assumere questo punto di vista, allora dobbiamo condannare l'idea dello spirito degli idealisti in quanto il mio corpo abita e conosce il mondo anche in assenza di una scienza che descrive il mondo svelandolo giorno dopo giorno. Il mio corpo, abitando il mondo, ha già svelato il mondo e ha messo in atto i suoi adattamenti soggettivi nel mondo. Per questo motivo posso dire che io, come uomo, la gravità l'abitavo anche prima che Newton la descrivesse allo stesso modo che usavo il principio di galleggiamento anche prima che Archimede lo descrivesse.

Ignoriamo e ignoreremo, dice Giovanni Gentile riprendendo un aforisma del fisiologo tedesco Emil Du Bois-Reymond, ma Giovanni Gentile sbaglia. La realtà è un disvelamento continuo messo in atto dal lavoro degli uomini. Ci sarà sempre un immenso che l'uomo ignora, ma ogni volta che aggiungo qualche cosa alla mia conoscenza, i miei orizzonti si allargano e io vivo attimo per attimo, a differenza del cristiano che confidando in Dio per la sua conoscenza muore giorno dopo giorno nell'attesa.

Nel 1924, nell'ottica del controllo sociale esercitato dal fascismo, Giovanni Gentile pubblica "Preliminari allo studio del fanciullo".

Nel 1925 Giovanni Gentile fonda l'Istituto Nazionale Fascista di Cultura. Guiderà l'Istituto Fascista fino al 1937. Nel frattempo Giovanni Gentile entra nuovamente nel Gran Consiglio del Fascismo. Il 21 aprile 1925 è autore del Manifesto degli intellettuali italiani fascisti nel quale esalta il fascismo come il motore della rigenerazione morale e religiosa degli italiani interpretando il fascismo come continuità ideologica del risorgimento. Giovanni Gentile rompe i rapporti con Benedetto Croce.

Gran parte degli scritti ideologici di Giovanni Gentile sul fascismo vengono pubblicati nei volumi: "Che cos'è il fascismo?" (1925); "Fascismo e cultura" (1928); "Origini e dottrina del fascismo" (1929).

Nel 1925 Giovanni Gentile, per conto del regime fascista, dirige l'Istituto Treccani (fino al 1938). A questo progetto fascista farà lavorare numerosi collaboratori "non-fascisti" i quali si presteranno a costruire un monumento culturale, l'Enciclopedia, al regime fascista.

Nel 1928 Giovanni Gentile come "Regio commissario" si fa promotore e artefice della riorganizzazione della didattica della Scuola Normale di Pisa.

Nel 1930, dopo la stipula dei Patti Lateranensi, sembra che Giovanni Gentile sia in contrasto con il regime fascista, ma in realtà nel 1931 è uno dei promotori del giuramento di fedeltà al regime fascista imposto a tutti gli insegnanti. Un giuramento che provocherà l'allontanamento dall'insegnamento di numerosi docenti che si rifiuteranno di sottomettersi al regime fascista.

Il controllo della cultura italiana esercitato da Giovanni Gentile è un controllo "militare", assolutista. Non c'è un'istituzione culturale di interesse nazionale in cui Giovanni Gentile non eserciti il proprio controllo per conto del regime fascista.

Nel 1930 diventa Vicepresidente dell'Università Bocconi.

Nel 1932 Giovanni Gentile è socio nazionale della Reale Accademia Nazionale dei Lincei.

Nel 1932 inaugura e poi diventa Presidente dell'Istituto Italiano di Studi Germanici.

Nel 1933 inaugura e diventa Presidente dell'Istituto per il Medio ed Estremo Oriente.

Nel 1934 prende il controllo della casa editrice Sansoni di Firenze dalla quale fa pubblicare collane di classici e studi filosofici.

La chiesa cattolica, il "sant'ufficio", mette all'indice le opere di Giovanni Gentile come quelle di Benedetto Croce in quanto come "opere idealistiche" mettono la religione cattolica in secondo piano rispetto alla filosofia.

Nel 1934 Giovanni Gentile inaugura a Genova l'Istituto Mazziniano.

Nel 1937 è commissario del centro studi Manzoniano e residente della commissione per l'edizione nazionale delle opere del Petrarca.

Nel 1941 diventa presidente della "Domus Galileiana" dopo averne fondato l'istituzione.

Nel 1931 Giovanni Gentile scrive "La filosofia dell'arte".

Scrive Giovanni Gentile a proposito della "storia" in "Filosofia dell'arte":

5. La storia che non è superata

La storia supera la storia che è logo astratto, ma non supera quella che è logo concreto, in cui l'astratto ha la sua attualità. Il logo concreto è la sintesi non come risultato in cui sbocchino tesi e antitesi, ma come attività che genera il risultato attraverso gli opposti, che pur genera; perché solo generando gli opposti come tali genera il risultato. Di qui la conseguenza che è di sommo rilievo: che l'attività produttiva del logo concreto come unità degli opposti, ossia dell'essere e del non-essere dello spirito, o del soggetto e dell'oggetto, quella è insuperabile, immortale ed eterna. Il mondo si forma e riforma, nasce e muore passando di moto in moto; ed essa nella sua eterna possanza sta. Sta viva, come quella sintesi che, per svilupparsi nella sua opposizione, si sviluppa come soggetto, come oggetto e come unità di entrambi. Nel suo organismo vivente, tutto vive perché viva il tutto: la vita del cuore è la stessa vita del tutto, nella quale quella del cuore è conservata come uno dei modi necessari della vita stessa del tutto. Se questo organo morisse, morrebbe il tutto. L'arte è il soggetto, che è negato dall' oggetto nella sintesi: è uccisa da quella conversione di sé nel suo contrario, per cui il sentimento espresso diventa quasi oggetto di contemplazione indifferente, in cui il soggetto, con la sua soggettività, si oblia e sparisce dinnanzi a se stesso. Ma l'oggetto in cui muore è vivo, a sua volta, in quanto il soggetto lo nega ed uccide, rendendogli la pariglia: l'uccide nella sua pura oggettività. E in somma l'uno e l'altro vivono morendo nell'unità che annulla la loro astratta opposizione, realizzandoli nella loro opposizione concreta, in cui ciascuno è se stesso essendo pure in qualche modo l'altro a cui è congiunto da inscindibile vincolo, ossia da una relazione necessaria perché essenziale a ciascuno di essi. Nell'unità concreta ciascuno degli opposti vive, perché la sua vita è la vita dell'unità. Quella medesima che in ciascuna opera d'arte assicura l'immortalità, aroma che conserva in eterno ogni cosa mortale. E perciò si è accennato che i due significati dell'immortalità dell'arte coincidono. Quello che è eterno in ogni singola opera d'arte è quell'anima che avviva quell'opera come ogni altra opera: l'anima, da cui scaturisce ogni bellezza, e in cui è la vita dell'arte. L'anima la cui efficacia o dialettica è immanente come quella dell'intera sintesi, in cui si dispiega; quantunque, a considerarla in astratto e prescindendo dalla sintesi, essa sia un elemento solo, e come un organo particolare del tutto vivente.
Come non c'è organismo naturale il cui sviluppo non implichi lo sviluppo di ogni minimo organo concorrente alla vita del tutto, così il sentimento non si esaurisce nel pensiero. Il suo esaurirsi sarebbe l'esaurirsi del pensiero, e come precipitare del logo concreto nell' astratto. Intanto il pensiero che è sintesi è dialettica, un divenire che non è mai divenuto, in quanto il sentimento onde egli si alimenta e sostenta, è esso stesso un divenire, che non è mai divenuto. Processo, non risultato. Così l'arte come momento ideale dello spirito, così, come s'è visto a proposito della critica ricreatrice, ogni singola opera d'arte.
Le cose non sono immortali. Tutte caduche perché, astrattamente identiche ciascuna a se stessa, sono tutte diverse tra loro; e l'una cade quando l'altra sottentra. Questa diversità non c'è nello spirito; in cui tutto cambia, e pare che anche dentro di esso affiorino tante cose: idee e fantasmi, sistemi e poemi.
Ma attraverso tutte le forme diverse lo spirito è unico. E se tutto è spirito, quelle cose di cui ci fa così comodo parlare (ci liberano dallo sforzo di penetrarvi dentro per scorgervi lo spirito), sono nell'intima loro unità, in questo universo che par natura ed è sentimento, tutte immortali o partecipi della immortale vita dello spirito.
Lo spirito circola eterno; ma circolando dal soggetto all'oggetto, e perciò dall'oggetto al soggetto, diviene e non ristagna; non giace, ma monta di cerchio in cerchio fino alla vetta della sua spiritualità. Molti i cerchi o gironi (e non sette, come nel Purgatorio di Dante, anzi infiniti, perché infiniti davvero, non sette, sono i peccati mortali) nel logo astratto. Ma nel logo concreto, nella reale sintesi dell'autocoscienza, un solo e immoltiplicabile.

Da: Giovanni Gentile, Filosofia dell'arte, in: L'Attualismo, Bompiani, 2014, p. 1219 – 1221.

La storia non è un oggetto in sé. Storia è il modo che io ho di chiamare la sequenza di trasformazioni che dalla realtà dell'ipotetico "brodo primordiale" hanno prodotto la realtà che sto vivendo. Sia la realtà intesa come oggettività del mondo, sia la realtà intesa come "Io", la persona o il soggetto che quel mondo abita.

I soggetti sono i viventi, i soggetti sono gli oggetti del mondo, la storia è il modo di chiamare le trasformazioni del mondo e della vita che la mia attività mediante l'analisi del mondo e degli eventi ha circoscritto nei fatti e nelle interpretazioni in funzione al mio vivere nell'oggi. Io dico: "L'oggi è il prodotto di una storia". Questa storia è un immenso scontro di infinite volontà che hanno prodotto le trasformazioni e che saranno sempre ignorate dalla mia ragione. Tuttavia, quell'immenso scontro si riassume nel suo divenuto: l'oggi. Io vivo l'oggi. Questo oggi che io vivo è ritagliato in un immenso oggi che io non vivo, ma nel quale, tuttavia, sono immerso. Quando io parlo della storia, parlo di ciò che ha prodotto il mio oggi. Non solo, ma la storia di cui parlo è la mia interpretazione dei fenomeni che hanno prodotto l'oggi e la mia selezione dei fenomeni che ritengo abbiano costruito l'oggi. La storia che io racconto non è la storia del passato, ma è la storia dell'oggi che serve a me, come strumento, per costruire quello che io penso sia un futuro possibile. Io sono il soggetto che abita il mondo, io sono il soggetto che progetta un futuro in mezzo ad infiniti soggetti che come me progettano il futuro.

Una storia è fatta di corpi, corpi materiali, che costruiscono le relazioni con altri corpi materiali nel mondo. Corpi materiali che manifestano le loro emozioni in quanto corpi che percepiscono e che vivono.

Il logo (logos) è solo parole. Insieme di lettere che io uso come strumento in una specifica comunicazione. Ciò che io comunico è il vissuto del mio corpo.

Un corpo che è un'unità, formato da infinite diversità ed infiniti modi con cui rappresentarsi nel mondo e nessuno di questi infiniti modi può essere separato dall'insieme corpo senza negare il corpo stesso come unità che forma il singolo individuo.

Non c'è uno spirito che abita il corpo, c'è un corpo che manifesta tutte quelle prerogative che Giovanni Gentile vorrebbe rubare al corpo per considerarle un "oggetto in sé" che chiama "spirito" e separarle dal corpo per poter dominare i corpi a proprio vantaggio.

Non c'è nessuna "unità degli opposti" perché nel mondo tutto è relazione e i soggetti che partecipano alla relazione vanno sempre intesi come soggetti intelligenti. Soggetti che progettano la loro vita e che dalla relazione vogliono, comunque, trarre, per quanto possibile, un guadagno. Un guadagno che si traduce in una modificazione soggettiva capace di fagocitare la propria esperienza.

La storia può essere intesa come una sequenza di esperienze sedimentate nei soggetti.

Vogliamo affermare che "il mondo è emozione"? Lo possiamo fare, ma l'emozione non è un oggetto separato dal corpo, è una manifestazione del corpo nel mondo. L'emozione, quando insorge nei corpi cambia e modifica i corpi che si predispongono per far emergere l'emozione e modificarsi ulteriormente. Solo che l'emozione non è un "oggetto in sé" è una forza che abita la materia ed è una forza indistinguibile dalla materia (materia e energia sono la stessa cosa) perché non esiste un'emozione senza un corpo che la manifesti.

Giovanni Gentile scrive varie opere dedicate al Petrarca, Vico, Leonardo, Alfieri e Leopardi.

Nel 1943 tiene una conferenza a Firenze dal titolo "La mia religione" e una in Campidoglio a Roma "Discorso agli italiani" con cui rinnova l'assolutismo fascista e invita gli italiani ad unire le forze per salvare il fascismo. Nel 1943 Giovanni Gentile sente l'odore del fallimento del regime fascista, così preferisce defilarsi dalle decisioni del regime.

Nel novembre del 1943 accetta la nomina a Presidente dell'Accademia d'Italia e aderisce alla Repubblica di Salò mettendo in atto l'arruolamento forzato degli italiani nelle file fasciste.

Nel 1943 Giovanni Gentile scrive "Genesi e struttura della società" che sarà pubblicato nel 1946.

Scrive Giovanni Gentile in "Genesi e struttura della società":

1. Disciplina

Disciplina è governo del costume. Ma il concetto di essa suppone ripetizione di atti che, per la ripetizione, diventino abiti: mores. Tale concetto pertanto suppone che un atto si possa ripetere, e che si possano dare molti atti.
Né l'una cosa, né l'altra. Poiché nella vita dello spirito nulla si ripete: la ripetizione è meccanismo. E in effetti l'atto che nella vita dello spirito si dice, considerando la cosa superficialmente, che si ripeta, è sempre un atto nuovo in rapporto al mutato essere dell'agente, che non è più quello pel fatto stesso di avere già compiuto un atto determinato.
Né si può pensare atti molteplici dello spirito; poiché l'atto spirituale è libero, e però infinito, e però unico. Quando si parla di molti atti, si usa un'espressione inesatta. Non più atti, ma/atti destituiti di libertà e valore spirituale. E se l'atto si fa decadere a fatto, viene meno la materia dell'etica.

Da: Giovanni Gentile, Genesi e struttura della società, in: L'Attualismo, Bompiani, 2014, p. 1247.

Disciplina ritagliata sull'individuo o sulla società come l'idea di Gentile del "mores" romano. Perché l'idea che ne aveva Gentile? Perché l'idea del "mores" di Roma che significa "antiche consuetudini, di matrice per lo più rituale, che regolavano ogni aspetto della vita cittadina, tanto sul piano religioso quanto su quello profano" viene a costruirsi giorno dopo giorno a Roma. Si modifica e cambia a seconda delle circostanze modificando costumi, rituali, doveri e diritti dei cittadini. Al contrario, Giovanni Gentile confeziona una serie di obblighi che definisce come "mores" e li impone alle persone affermando che quelli sono i "doveri dello spirito" e i cittadini si devono attenere a quel "mores".

Il costume non nasce dalle esigenze delle persone di vivere la società, ma nasce dalle esigenze di un comando di costringere i cittadini ad obbedire ad un "mores" loro imposto. In altre parole, obbedire ad un dettato morale, tipo i dieci comandamenti, al quale i cittadini si devono attenere sotto minaccia di morte.

Scrive Giovanni Gentile:

3. Legge

L'eticità dell'atto importa bensì una legge, in conformità della quale l'atto morale è quello che deve essere, e che infatti può essere in quanto esso non è naturalmente determinato, e perciò necessario, ma libero.
Affinché l'atto sia libero, e la legge conservi il suo significato di principio produttivo del valore dell'atto, la legge non può esser nulla di esterno all'atto, quasi un'imposizione estrinseca e coattiva. La legge dev'essere nell'atto, e coincidere con questo. La legge infatti non è se non il carattere stesso dell'atto in quanto libero: ossia atto che non è immediato, ma si attua consapevolmente e spontaneamente ex se. Che è ciò che si vuol dire affermando che un'azione è quella che dev'essere.

Da: Giovanni Gentile, Genesi e struttura della società, in: L'Attualismo, Bompiani, 2014, p. 1248.

La legge regola l'atto che deve compiersi nella dimensione imposta dalla legge. Ma chi compie l'atto determinato dalla legge? La legge è un atto immorale in sé. Le azioni sono la manifestazione di corpi desideranti che veicolano loro stessi nel mondo. Il mondo, il mondo sociale, costruisce le leggi per determinare le modalità della veicolazione dei bisogni e delle necessità del singolo nell'insieme sociale.

Dove sta l'immoralità della legge? Nella limitazione imposta alla veicolazione dell'individuo nella società in cui vive. Non è la legge che deve essere osservata, ma la direzione e il contesto in cui la legge si applica. Sottoporre il Dio cristiano ad una legge che ne limiti e circoscriva il suo assolutismo è un atto di giustizia che può essere compiuto dagli uomini. Sottoporre gli uomini ad una legge che li costringa all'obbedienza alla morale di Dio che sacrifica la loro vita per i propri desideri, è una legge che legittima lo stupro degli uomini.

Affermare, come fa Giovanni Gentile " La legge infatti non è se non il carattere stesso dell'atto in quanto libero…" significa legittimare la libertà di stuprare gli uomini per adeguarli alla legge. Un atto libero di violenza: "Che è ciò che si vuol dire affermando che un'azione è quella che dev'essere".

Giovanni Gentile, come filosofo del regime fascista, è responsabile di tutte le scelte e di tutti i disastri messi in atto dal Regime Fascista contro la Patria Italia. Giovanni gentile è l'assassino, il boia, di milioni di Italiani. E' l'assassino e il boia della cultura italiana. Giovanni Gentile è il responsabile del genocidio degli slavi, dei greci, degli albanesi e di tutti quei popoli ai quali il regime fascista ha dichiarato guerra o ha macellato senza dichiarare guerra in nome dell'assolutismo cristiano, comunque veicolato. Giovanni Gentile non è un uomo della cultura prestato al fascismo, Giovanni Gentile è il fascismo! Come il nazismo in Germania è Heidegger.

Il 15 aprile 1944 un gruppo partigiano aderente alle formazioni dei GAP tese un'imboscata a Giovanni Gentile presso la sua villa di Montalto al Salvatino e lo uccise. Uccidendo Giovanni Gentile i gappisti hanno impedito la ricostruzione del regime fascista, come era previsto dagli USA che, comunque, hanno proceduto a riaffermare l'ideologia fascista in Italia non rimuovendo prefetti e questori fascisti e favorendo l'ascesa di De Gasperi.

 

Marghera, 17 luglio 2019

 

 

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Claudio Simeoni

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Guardiano dell'Anticristo

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