Epicuro

Le biografie dei giocatori - quarantanovesima biografia

Capitolo 132

La partita di calcio mondiale fra i filosofi

Claudio Simeoni

 

Le biografie dei filosofi che partecipano alla partita di calcio

 

La biografia di Epicuro

 

La biografia di Epicuro sarà necessariamente scarna di dati biografici. Tutto ciò che Epicuro ha scritto e ha fatto nella sua scuola filosofica non è andato distrutto, è stato distrutto con violenza e meticolosità.

Ai tempi di Epicuro non ci fu uno scontro ideologico come noi oggi siamo abituati a pensare lo scontro fra ideologie sociali e politiche. Lo scontro ideologico ai tempi di Epicuro era sul come si pensava l'uomo nel mondo e, per conseguenza, come si organizza quell'uomo nel suo vivere nel mondo. Mentre Socrate e Platone proponevano il modello di uomo padrone di uomini a fondamento della società, Epicuro proponeva il modello di uomo che abita la società. Il saggio che cerca la felicità anziché il potere di dominio dell'uomo sull'uomo. Questo tipo di scontro si protrarrà fino a quando il cristianesimo non conquisterà il potere in Armenia, a Roma e fra le popolazioni "barbare" che invaderanno l'Europa occidentale in nome del cristianesimo ariano. Poi, lo scontro non avrà più l'uomo e il suo vivere nel mondo, ma verterà sul controllo di "Dio" e nell'uso di "Dio" per sottomettere meglio l'uomo alla "sua parola" gestita da chi detiene il "controllo di Dio".

Il padre di Epicuro, Neocle, era un ateniese che Atene aveva mandato a Samo come colono nel 352 a. c. Questi coloni, tuttavia, conservavano la cittadinanza ateniese. Epicuro nasce a Samo nel 341 a. c. A Samo Epicuro rimane fino a 14 anni. Il padre di Epicuro è un maestro di scuola ed è lui che avvia Epicuro all'istruzione. Il primo insegnante di filosofia di Epicuro è Pamfilo, un platonico altrimenti sconosciuto.

Fra il 327 e il 324 Epicuro frequenta una scuola democritea di Nausifane a Teo. Nausifane di Teo fu seguace di Pirrone di Elide e di Democrito. Pirrone di Elide era un avversario di Platone e dopo il suo ritorno dall'India, era al seguito di Alessandro Magno, anche se non scrisse nulla, dette forma all'ideale scettico introducendo nello scetticismo i fondamenti della conoscenza dei gimnosofisti.

Fra il 323 e il 321 Epicuro è ad Atene per il servizio militare, l'efebia. Gli efebi erano i giovani che all'età di 18 anni venivano iscritti al servizio di leva nella città di Atene. Controllati da appositi magistrati ricevevano un addestramento militare e alla fine dell'anno di addestramento ricevevano una lancia e uno scudo. Giuravano fedeltà ad Atene e servivano per uno o due anni alla difesa delle frontiere.

In quegli anni passati ad Atene si pensa che Epicuro abbia seguito le lezioni di Senocrate all'accademia di Atene.

Nel 322 la famiglia paterna di Epicuro si sposta da Samo a Colofone una città a metà strada fra Smirne ed Efeso ed è a Colofone che Epicuro raggiunge la famiglia dopo il servizio militare.

Nel 311 Epicuro va da Colofone a Mitilene sull'isola di Lesbo dove fonderà la sua prima scuola.

Nel 309 Epicuro si sposta da Mitilene a Lampsaco sempre in Asia Minore. E' un periodo particolare di guerre politiche per il dominio delle regioni fra satrapi e la corte di Macedonia. Non si conosce il ruolo svolto da Epicuro, tuttavia dal momento che Epicuro era ben visto alla corte macedone si pensa che un ruolo importante abbia giocato in suo favore l'etera Leonzio.

Le etere erano donne che in Grecia svolgevano un ruolo molto simile alle Gheisce Giapponesi. Erano donne di compagnia, cortigiane, che tenevano relazioni molto sofisticate e non includevano semplicemente prestazioni sessuali. L'etera Leonzio era una seguace di Epicuro e amica della concubina di Demetrio I Poliocerte.

Sempre in quegli anni Epicuro si stabilisce definitivamente ad Atene dove fonda la sua scuola detta "Il Giardino".

La scuola stoica e la scuola epicurea furono tenacemente avversarie, ma Zenone iniziò il suo percorso fondando la Stoa nel 300 a. c. cioè undici anni dopo che Epicuro aveva iniziato con la scuola a Mitilene mentre arrivò ad Atene, dove fondò la scuola del "Giardino", nel 306.

Il Giardino era una vera e propria comunità di pensatori che pur vivendo nella società tendevano a collaborare strettamente. I principali esponenti della scuola del Giardino furono Idomeneo, un finanziere, Ermanno, la coppia Themista col marito Leonteo, Colote, Poliano di Lamsaco e Metrodoro di Lamsaco. La scuola filosofica del Giardino comprendeva numerose donne ammesse come regola e non come eccezione. In sostanza, si può dire che Epicuro fu il primo a riconoscere la parità filosofica uomo donna contro gli accademici come Socrate e Platone che discriminavano le donne "bestiame necessario per partorire". La scuola epicurea, a differenza dell'accademia, riteneva che la donna concorresse con un proprio "sperma" alla formazione del bambino. Gli accademici ritenevano la donna solo un soggetto passivo.

Scrive Seneca riferendosi al Giardino di Epicuro:

E tanto più volentieri ricordo queste egregie sentenze di Epicuro, perché dimostrino a coloro che ricorrono a lui indotti da una cattiva speranza di trovare una copertura ai propri vizi, che, ovunque vadano, devono vivere onestamente.
Quando andrai nei suoi giardini : Ospite, -qui starai bene, qui il piacere è il sommo bene, ti si farà incontro il custode di questa dimora, ospitale e affabile, e ti riceverà con della polenta e ti offrirà anche acqua in abbondanza, e ti dirà: «Non sei stato accolto bene? Questi giardini non stimolano la fame, ma la saziano, e non accrescono la sete con le bevande, ma la placano con un rimedio naturale e gratuito; io sono diventato vecchio in mezzo a questi piaceri».

Seneca, Tutti gli scritti in prosa, Rusconi, 1994, pag. 963.

Nel 286 muore Polieno di Lampsaco che, seguace di Epicuro, curò una scuola ad Atene.

Nel 285 Lisimaco diventa re di Tracia della Macedonia e dell'Asia minore. Legato ad Epicuro permette alla scuola epicurea di svilupparsi notevolmente. Lisimaco, già guardia del corpo di Alessandro Magno, muore nel 281 a. c.

Fra il 295 e il 294 Demetrio Poliorcete mette Atene sotto assedio. La città è affamata ed Epicuro si dà da fare per procurare cibo ai suoi discepoli.

Nel 291 muore Pitocle. Di Epicuro ci è rimasta una lettera spedita a Pitocle.

Si conosce, a grandi linee la vicenda di Mitre, l'amministratore finanziario di Lisimaco e seguace di Epicuro che venne imprigionato da Cratere e fatto liberare da Epicuro che aveva buoni rapporti sia con Lisimaco che con Cratere.

Scrive Franca Landucci Gattinoni:

Più difficile stabilire quando e perché l'amministratore delle finanze di Lisimaco cade prigioniero di Cratero: il terminus ante quaem è il 277 anno della morte di Metrodoro, che secondo Plutarco si sarebbe occupato della liberazione di Mitre per conto di Epicuro, mentre il terminus post quem è sicuramente il febbraio del 281, momento della morte di Lisimaco, poché lo stesso filosofo rivolgendosi all'amico in un periodo successivo, sottolinea che egli era stato pronto ai voleri del re di Tracia finché questi era in vita.
Nulla sappiamo, invece, delle cause che portarono Mitre a finire in cattività a Corinto, dove Cratero lo trattenne in ostaggio, convinto che Mitre, nella sua posizione di amministratore delle finanze, avesse accumulato ricchezze tali da permettergli di pagare un forte riscatto per la sua liberazione.
Cosa che probabilmente avvenne, poiché, come già accennato, sono attestati rapporti epistolari tra Epicuro e Mitre fino al 271 anno della morte del filosofo, rapporti che, per i loro contenuti, sembrano presupporre per Mitre una normale libertà d'azione e non uno stato di cattività.

Franca Landucci Gattinoni, Lisimaco di Tracia: un sovrano nella prospettiva del primo ellenismo, Edizioni universitarie Jaca Book, 1992, pag. 252

Questo dimostra i rapporti che Epicuro intratteneva con la corte Macedone e il Peloporneso. Fra il 280 e il 279 si conosce la presenza di filosofi epicurei presso la corte Macedone finché al trono non arrivò Antigono II Gonata che si schiererà con gli stoici.

Nel 277 muore Metrodoro di Lampsaco uno dei maggiori esponenti della scuola epicurea.

Fra il 271 e il 270 muore Epicuro probabilmente affetto da calcoli renali o simili. Una morte dolorosa che è stata comunque vissuta con uno spirito attivo sempre dedito alla filosofia e alla discussione.

La filosofia di Epicuro ebbe successo a Roma durante il periodo dell'ultima repubblica. Poi, con l'avvento dell'impero, gli stoici prima (Cicerone, Seneca) e i neoplatonici poi con l'aiuto degli imperatori surclassarono gli epicurei finché l'epicureismo sparì. Nel medioevo l'epicureismo divenne sinonimo di prostituzione, ubriachezza e di vita dissoluta. Questo fino alla riscoperta dell'epicureismo ad opera di Gassendi nel XVII secolo.

Vale la pena di accennare a grandi linee ad alcune delle idee degli Epicurei.

Epicuro e il vivere sociale

Per parlare di quanto resta della filosofia di Epicuro, lo dobbiamo fare in relazione e in contrapposizione sia agli Stoici che agli accademici. Platone e Zenone sono in polemica con Epicuro. Entrambi desiderano il potere e il controllo sugli uomini. Entrambi costruiscono l'idea del dio padrone dal quale fanno derivare comportamenti morali antitetici alla vita e ai desideri dell'uomo. Entrambi inventano pene dopo la morte per terrorizzare l'uomo e averne il controllo. Al contrario di Socrate, Platone e Zenone, Epicuro è l'uomo che vive la sua esistenza e la società è una convenzione alla quale il saggio si adatta per costruire la sua felicità.

Mentre Socrate, Platone e Zenone vogliono il dominio sugli uomini e costruiscono una filosofia per dominare l'uomo, Epicuro costruisce una filosofia che permette all'uomo di vivere nella società come uomo felice.

Scrive Epicuro della società:

XIII. Non gioverebbe a niente il procurarsi sicurezza nei riguardi degli altri uomini finché si continuasse a nutrir timore riguardo a ciò che sta sopra di noi, o sottoterra, o in generale nell'infinito.
XIV. Se la sicurezza nei riguardi degli altri uomini deriva fino a un certo punto da una ben fondata situazione di potenza e ricchezza, la sicurezza più pura proviene dalla vita serena e dall'appartarsi dalla folla.
XV. La ricchezza secondo natura ha confini ben precisi ed è facile a procacciarsi, quella secondo le vane opinioni cade in un processo all'infinito.
XVI. Poca importanza ha la sorte per il saggio, perché le cose più grandi e importanti sono governate dalla ragione, e così continuano e continueranno ad essere per tutto il corso del tempo.

Epicuro, Massime capitali, in Epicuro, Mondadori, 2008, p. 208

Per Epicuro il denaro non è il feticcio a cui è necessario tendere, ma non è nemmeno il mezzo da rifiutare per vivere. Non c'è in Epicuro l'ideale della povertà dei cinici, ma non c'è nemmeno l'ossessione per la ricchezza e il potere come in Socrate e in Platone.

Per Epicuro la società è ciò che è ed è pratica del saggio passare inosservato, "vivere nell'oscurità", cioè senza la necessità di esporsi nelle dispute per il potere, coltivando l'amicizia e la ricerca del benessere e della felicità.

La stessa idea viene espressa da Epicuro nei riguardi delle leggi. Le leggi, secondo Epicuro, rappresentano un vero e proprio patto sociale che servono per controllare gli sciocchi.

Scrive Epicuro:

XXXI. Il giusto fondato sulla natura è l'espressione del- l'utilità che consiste nel non recare né ricevere reciprocamente danno.
XXXII. Per tutti quegli esseri viventi che non ebbero la capacità di stringere patti reciproci circa il non recare né ricevere danno, non esiste né il giusto né l'ingiusto; e altrettanto si deve dire per quei popoli che non poterono o non vollero stringere patti per non recare e non ricevere danno.
XXXIII. La giustizia non esiste di per sé, ma solo nei rapporti reciproci, e in quei luoghi nei quali si sia stretto un patto circa il non recare né ricevere danno.
XXXIV. L'ingiustizia non è di per sé un male, ma consiste nel timore che sorge dal sospetto di non poter sfuggire a coloro che sono stati preposti a punirlo.
XXXV. Colui che fa qualcosa di nascosto contro i patti stipulati reciprocamente circa il non recare né ricevere danno non può confidare di non essere scoperto, anche se per il presente ciò gli riesce infinite volte: non può mai sapere se riuscirà a non farsi scoprire fino alla sua morte.
XXXVI. In senso generale il giusto è uguale per tutti, m quanto è un accordo di utilità reciproca nella vita sociale; ma a seconda della particolarità dei luoghi e delle condizioni risulta che non per tutti il giusto è lo stesso.

Epicuro, Massime capitali, in Epicuro, Mondadori, 2008, p. 211 – 212

Per Epicuro la società è importante mentre lo è meno il dominio o il comando della società. La democrazia della polis ateniese sta morendo e il passaggio alla nuova era dell'ellenismo priva gran parte degli uomini della libertà nel loro ruolo pubblico.

In Epicuro non c'è un'etica della gestione del potere. Epicuro non vuole una società dominata dai filosofi a sua misura, come vorrebbe Platone, ma non vuole nemmeno un Platone che ordini come deve essere la società in cui vive.

Epicuro e il concetto di provvidenza

Per conoscere il pensiero di Epicuro siamo costretti a rivolgerci, spesso, a soggetti che diffamavano Epicuro o, comunque, le idee di quegli antichi i cui progetti religiosi e sociali stridevano con quelli di Epicuro. Fra la distruzione, pressoché totale degli scritti di Epicuro, e la scrittura da parte di Epicuro dei suoi trecento libri, c'è un periodo storico in cui molti tentano di confutare o ridicolizzare il pensiero di Epicuro in relazione ai propri progetti ideali.

Uno di questi è Lattanzio (240 – 320 d. c.) un fanatico cristiano che di Epicuro scrive:

LATIANZIO, De ira Dei, 13, 19 (374 Us.).
Vedi, dunque, ch'è piuttosto per i mali che abbiamo bisogno della saggezza: se non dovessimo affrontare questi, non saremmo animali ragionevoli. Se è vero questo principio, che posero gli Stoici, si riduce a niente il ragionamento di Epicuro: « la divinità», dice questi « o vuole abolire il male e non può; o può e non vuole; o non vuole né può; o vuole e può. Se vuole e non può, bisogna ammettere che sia impotente, il che è in contrasto con la nozione di divinità; se può e non vuole, che sia malvagia, il che è ugualmente estraneo all'essenza divina; se non vuole e non può, che sia insieme impotente e malvagia; se poi vuole e può, sola cosa conveniente alla sua essenza, donde provengono i mali e perché non li abolisce? ».

Epicuro, Testimonianze sulla dottrina, in Epicuro, Mondadori, 2008, p. 399 – 400

Che sia vero o meno quanto riporta Lattanzio, è poco importante. Può riguardare gli storici, ma resta il fatto che Lattanzio lo ha riportato dimostrando, di fatto, che Epicuro nega tutto il concetto di provvidenza divina manifestato dagli Stoici, da Platone e dai cristiani.

Dice in sostanza Epicuro che se nel mondo esiste un qualche cosa che puoi considerare come "male", se questo male ti rende la vita dolorosa e tu affermi che "il Dio" provvede per te affinché tu non debba soffrire, la contraddizione è tutta fra come tu pensi "il Dio" nella vita umana e una immaginazione che tu spacci per realtà. In quel caso, tieniti il dolore e pensando che il dolore che provi è inviato da "il Dio", punisci te stesso sommando dolore a dolore.

Appare ovvio che la risposta più semplice che Epicuro poteva dare agli stoici è che la provvidenza divina non esiste perché non è nell'interesse degli Dèi interferire nelle scelte umane. Però, questo mette in discussione il controllo che la chiesa cattolica ha di "Dio" e col quale giustifica la sua azione criminale nei confronti degli uomini.

Scrive Epicuro nei frammenti:

17 – E' da sciocco chiedere agli Dèi quello che uno è in condizione di procurarsi da sé.

Epicuro, Sentenze e frammenti, in Scritti morali, BUR, 2001, p. 81

La Teologia di Epicuro e gli Dèi

Epicuro credeva negli Dèi. Ma non credeva negli Dèi personali degli accademici di Platone. Non credeva che un soggetto di forma umana chiamata Atena fosse la padrona di Atene o un altro fosse padrone di Atlantide. Credeva che gli Dèi avessero forma antropomorfa e che i loro corpi fossero composti di atomi sottili.

Scrive Epicuro nella Lettera a Meneceo:

Gli dèi di fatti esistono: evidente è la conoscenza che noi ne abbiamo; quali i più li credono, non esistono: le condizioni stesse della loro esistenza essi vengono a toglier loro con la credenza che ne hanno. Ed empio non è chi nega gli dèi dei più, ma chi alla nozione degli dèi aggiunge quanto è nella opinione dei più: giacché non prenozioni, ma false supposizioni sono i giudizi che dai più vengono espressi sugli dèi, ed è in tal modo che i più grandi danni < di cui solo in esse è> per i malvagi la causa vengon fatti derivare dagli dèi, e con essi i più grandi benefici. Familiarizzati infatti con le virtù che hanno proprie, essi non ammettono se non ciò che loro somiglia, stimano estraneo tutto ciò che non è tale.

Epicuro, Lettera a Meneceo, in Scritti morali, Bur, 2001, p. 51 – 53

Se il "Dio" non è un oggetto d'uso, da parte di una religione, per controllare e dominare l'uomo, che se ne fa quella religione di quel "Dio"? E che se ne fanno gli uomini se da quel "Dio" non sono in grado di trarre vantaggi?

Eppure di Epicuro dice Lattanzio nel "De ira Dèi":

Dice Epicuro, la divinità non si prende cura di niente… Proprio per questo, dice è incorruttibile e felice, perché è sempre tranquilla.

Epicuro, Testimonianze sulla dottrina, in Epicuro, Mondadori, 2008, p. 386 – 387

Affermare che gli Dèi non esistono e affermare che non si prendono cura di niente, sono due cose diverse. Solo che quel niente ha un contenuto. E' niente come assoluto o è un niente rispetto a qualche cosa? La divinità si prende cura di sé stessa?

Scrive Attico presso Eusebio:

Per Epicuro non esiste la provvidenza, sebbene gli Dèi pongano ogni cura nella salvezza dei beni che sono a loro cari.

Epicuro, Testimonianze sulla dottrina, in Epicuro, Mondadori, 2008, p. 387

Dunque, non intervengono nelle faccende umane, ma provvedono a sé stessi. E che cosa intende per "i beni che sono loro cari"?

Scrive Origene in Contra Celsium:

…ma gli Dèi di Epicuro, che sono di fatto composti di atomi e quindi, per loro stessa formazione, soggetti a distruzione, sono impegnati nello scuotere via da sé gli atomi apportatori di distruzione.

Epicuro, Testimonianze sulla dottrina, in Epicuro, Mondadori, 2008, p. 287

E ancora scrive Aezio:

Entrambi (Anassagora e Platone) commisero lo stesso errore in quanto immaginarono che la divinità sia volta alla cura delle cose umane e abbia costruito il mondo per l'uomo. In realtà l'essere beato e indistruttibile, colmo di ogni bene ed esente da ogni male, è volto tutto alla conservazione della sua felicità e immortalità, e non si cura delle cose umane. Ben infelice sarebbe se, nella maniera di un artigiano o di un falegname si affannasse e si desse pena per la costruzione del cosmo.

Epicuro, Testimonianze sulla dottrina, in Epicuro, Mondadori, 2008, p. 387

Gli Dèi di Epicuro non interferiscono con la vita degli uomini. Tuttavia sono soggetti reali, composti di atomi, che come gli uomini sono alla ricerca della felicità e della conservazione di sé stessi nella felicità

Questo è l'ideale epicureo. Un ideale che Epicuro estende agli Dèi affinché sia chiaro che: "L'uomo è nato per la felicità".

Il concetto di morte in Epicuro

Tutto il concetto di morte in Epicuro si riassume con quanto scrive nella lettera a Meneceo:

Scrive Epicuro:

Renditi abituale il pensiero che la morte per noi non è nulla: giacché ogni bene e male è nel senso, e la morte è privazione di senso. La retta conoscenza che la morte per noi non è nulla, mette quindi in condizione di godere della mortalità della vita, come quella che non aggiunge un tempo infinito, ma toglie la brama dell'immortalità. Nulla vi è di fatti di cui possa temere nel vivere chi ha veracemente compreso che nulla vi è di cui possa temere nel non vivere. E però parla a vuoto chi dice di temere la morte non perché la sua anima avrà a soffrirne quando sarà venuta, ma perché ne soffre ora al pensiero che un giorno essa verrà: ciò che infatti non dà molestia, presente, senza ragione attrista mentre è atteso.
Il male che più fa rabbrividire ed è la morte, non è dunque nulla per noi, perché quando noi siamo, non c'è la morte, e quando c'è la morte, noi allora non siamo. Per modo che essa non riguarda né i vivi né i morti: per gli uni non c'è, e gli altri non sono più. Ma i più la morte ora la fuggono come il massimo dei mali, ora come requie < ai mali> della vita < la cercano. Il saggio al contrario non rifiuta il vivere> né teme il non vivere: giacché il vivere non gli è di noia, né crede che il non vivere sia un male. E come dei cibi non sceglie in ogni caso il più abbondante, ma il più gustoso, così del tempo vuol godere non il più lungo, ma il più piacevole. Chi esorta il giovane a ben vivere e il vecchio a ben morire, è un semplice, non solo perché la vita è cosa che di per se stessa dà gioia, ma anche perché una e la medesima è l'arte di ben vivere e di ben morire. Peggio d'assai chi dice che «bello è non essere nato, e una volta nato varcare al più presto le porte dell'Ade». Se ne è convinto, perché non lascia subito la vita? Ha sempre la possibilità di farlo, se v'è fermamente determinato. Ma se fa per gioco, parla a vuoto su cose che non lo ammettono. Bisogna tenere sempre a mente che il futuro non è né al tutto nostro né al tutto non nostro, affinché né assolutamente lo attendiamo come realizzabile, né come affatto irrealizzabile lo togliamo dalle nostre speranze.

Epicuro, Lettera a Meneceo, in Scritti Morali, BUR, 2001, p. 51 – 53

In effetti, la morte non fa paura, semmai fa paura il modo come si muore. Per Epicuro la morte è nelle cose e va affrontata come si affronta la vita, con passione e con temerarietà.

Epicuro non teme la morte perché oltre la morte non c'è un padrone che attende l'umo o lo punisce. Solo coloro che credono in una sottomissione temono colui che li sottomette trasformandolo in modello che li perseguiterà per l'eternità. Costoro, sottomessi nella vita quotidiana, temono la morte perché temono un terrore maggiore di quello che vivono nella quotidianità.

Ma l'uomo, il saggio, Epicuro, non si è sottomesso, vive in una perenne ricerca del piacere e la morte è il più grande piacere dell'esistenza perché toglie i dolori della vecchiaia. Lo stesso Epicuro, che soffriva per la difficoltà di orinare avendo dei calcoli che ne ostruivano il flusso, travolto da atroci dolori, trovò nella morte una nuova e diversa felicità. Trovò la libertà dal dolore.

 

Marghera, 11 giugno 2019

 

 

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Claudio Simeoni

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Apprendista Stregone

Guardiano dell'Anticristo

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