Immanuel Kant

Le biografie dei giocatori - cinquantaseiesima biografia

Capitolo 139

La partita di calcio mondiale fra i filosofi

Claudio Simeoni

 

Le biografie dei filosofi che partecipano alla partita di calcio

 

La biografia di Immanuel Kant

 

Kant nasce il 22 aprile 1724 a Konigsberg, nella Prussia orientale. Fu chiamato Emanuel, ma poi cambiò nome in Immanuel. La madre di Emanuel era Anna Regina Reuter morta nel 1737. Il padre di Emanuel Johann Georg Kant muore nel 1746. Il padre era un piccolo imprenditore Tedesco che produceva imbracature.

Kant fu il quarto di undici fratelli, molti di loro morti prematuri. Kant non lascerà mai la sua città natale e la sua vita è priva di episodi significativi. Tutto il pensiero di Kant è prodotto nella sua testa e sarà un lungo esercizio per dare risposte metafisiche alla rigorosa educazione pietista a cui è stato sottoposto. La biografia di Kant non è la biografia di un uomo che abita il mondo, ma quella di un uomo che immagina il mondo.

La famiglia di Kant era una famiglia protestante e l'educazione pietista era caratterizzata da una forte devozione religiosa, che costringeva i bambini all'umiltà che spesso sfociava in umiliazione in un'interpretazione letterale della bibbia. L'educazione subita da Kant era estremamente rigorosa, spesso violenta, che sfociava in punizioni in sintonia con gli insegnamenti biblici. Dal punto di vista scolastico nella sua infanzia Kant apprendeva la religione, il latino e un po' di matematica e scienza.

In seguito Kant cambierà il proprio nome da Emanuel ad Immanuel ed col nome di Immanuel che da ora lo chiameremo.

Nel 1740 Kant si diploma al collegio Collegium Fridericianum e si iscrive all'Università di Konigsberg dove studia filosofia con Martin Knutzen, un razionalista che aveva studiato la filosofia britannica e che presentava agli allievi le nuove idee di Isaac Newton. Kant abbandonò le teorie sull'"armonia prestabilita" e venne dissuaso dal suo insegnante dal seguire l'idealismo secondo cui la realtà era puramente ideale.

In seguito, Kant sviluppò una sorta di "idealismo trascendentale" che, opponendosi all'"idealismo tradizionale", riaffermava la necessità soggettiva di Dio demolendo le dimostrazioni oggettive della realtà di Dio. Questo solo in età avanzata nella "Critica alla Ragion pura".

Nel 1746 muore, per un infarto, il padre di Immanuel Kant. Immanuel lascia gli studi e nell'agosto del 1748, abbandona Konigsberg per ritornarci nel 1754. Nel frattempo lavora come tutore privato per famiglie di nobili.

Nel 1749 Immanuel Kant pubblica il suo primo lavoro "Pensieri sulla stima reale delle forze vive" scritto fra il 1745 e il 1747.

All'inizio Kant si occupa di scienza seguendo la moda del momento e scrive "Storia Naturale Universale e Teoria dei Cieli". In questo testo Kant propone l'ipotesi di una nebulosa primitiva dalla quale si sarebbe originato il Sistema Solare. Questa ipotesi sarà sostenuta anche da Laplace.

Nel 1755 Kant inizia a tenere conferenze all'università di Konigsberg e tiene conferenze su vari argomenti di fisica, matematica, logica e metafisica.

1756 Kant pubblica scritti sui "Terremoti", e la "Monadologia Fisica". Cerca di conciliare il principio della gravità scoperto da Newton con la filosofia di Leibnitz.

Nel 1757 Kant inizia a tenere conferenze di geografia e inizia ad occuparsi di astronomia e di geologia. Le sue "teorie" influiscono sulla ricerca scientifica e astronomica nel XIX secolo.

1758 Kant si occupa di moto e di quiete pubblicando la "Nuova teoria del moto e della quiete".

1759 Kant pubblica lo scritto sull' "Ottimismo".

1762 Kant pubblica "Sulla falsa sottigliezza delle quattro figure sitlogistiche". In questo scritto Kant nega che la logica, come tradizionalmente usata in filosofia, sia di qualche aiuto alla metafisica. In sostanza, Kant dice che nessuna prova dell'esistenza di Dio può avvenire partendo da discorsi di logica.

1763 Kant pubblica "Unico argomento possibile per dimostrare l'esistenza di Dio". In questo scritto Kant afferma che l'unico argomento per dimostrare l'esistenza di Dio è l'idea medioevale chiamata "Contingentia mundi". Da cui si deduce, secondo Kant, che se non ci fosse Dio il mondo non ci sarebbe. In sostanza, afferma Kant, dal momento che il mondo esiste deve necessariamente esistere Dio. Questa, secondo Kant di quel tempo, sarebbe l'unico argomento possibile per dimostrare l'esistenza di Dio. Sempre in questo libro Kant afferma che il metodo della metafisica di dedurre un principio "logico" da porre come elemento aprioristico della realtà in essere è un'operazione ambigua e confusa, come confusa è tutta la metafisica il cui scopo è quello di riaffermare l'esistenza di Dio.

Il tentativo di conciliare l'integralismo pietista, appreso nell'infanzia in un'assoluta adesione al cristianesimo della bibbia, con la ragione e la razionalità che, di fatto, nega l'esistenza di Dio in tutte le forme affermate dal cristianesimo e dalla bibbia, coinvolgerà l'intera esistenza di Kant e farà da base a tutto il suo lavoro filosofico nell'età matura.

1764 Kant pubblica "Ricerca sull'evidenza dei Principi della teologia naturale e della morale" e le "Osservazioni sul sentimento del bello e del sublime". In questi Kant afferma che la morale si fonda sul sentimento in cui la "dignità umana" e la "bellezza" hanno un ruolo fondamentale. Si dimentica solo di spiegare in quale contesto morale colloca la pratica della schiavitù del suo tempo.

Scrive Kant in "Osservazioni sul sentimento del bello e del sublime":

L'uomo non deve mai piangere lacrime se non quelle di un animo grande: quelle che versa per dolore o per felicità, lo rendono spregevole. La vanità, che in tanti modi rimproveriamo al bel sesso, se anche è un difetto, è un bel difetto; d'altronde gli uomini, che così volentieri fan complimenti alle donne, si sentirebbero offesi se questi non fossero ben accetti; con la vanità, la donna accresce le proprie attrattive. Questa tendenza è un incentivo a mostrare in giusta evidenza le piacevoli doti fisiche, il bel portamento, la vivacità di spirito e a dar rilievo alla sua bellezza, accrescendola nel suo splendore secondo i capricciosi dettami della moda. In questo, non c'è nulla di offensivo per gli altri, ma piuttosto, se tutto vien fatto con buon gusto, vi è tanta amabilità che sarebbe assai scortese investire con burberi rimbrotti. Una donna, che sia troppo frivola e leggera, la diciamo una sciocca; questa espressione, tuttavia, non ha un significato così negativo quale potrebbe avere nel suo equivalente maschile mutando la desinenza, dato che, se non ci fraintendiamo, può riferirsi spesso anche a moine usate nell'intimità.
Se la vanità è un difetto che in una donna merita molte giustificazioni, la superbia invece in lei non è solo riprovevole, come in genere nell'uomo, ma deforma completamente anche la natura del suo sesso perché questa qualità dell'animo è oltremodo stolta e odiosa e si oppone radicalmente alle graziose attrattive della sua modestia.
Una persona che ne sia affetta è quindi in una posizione malfida: se metterà il piede in fallo non troverà indulgenza e sarà severamente giudicata perché chi si vanta troppo della considerazione di cui gode, sfida la riprovazione degli altri. Ogni scoperta, anche dei minimi difetti, darà ai suoi critici vera soddisfazione e l'attributo di sciocca perderà in questo caso il suo significato attenuato. Si deve però sempre distinguere tra vanità e superbia. La prima cerca l'applauso e in certo modo dà lustro a quelli nei cui riguardi si dà tanta premura, la seconda crede che il plauso le sia dovuto di diritto, non si sforza di conquistarlo e quindi non se lo guadagna per nulla.
Se alcuni ingredienti della vanità non fanno sicuramente sfigurare la donna agli occhi del sesso maschile, essi però servono, quanto più sono accentuati, a seminar discordia fra le componenti del bel sesso; esse si giudicano a vicenda con molta severità, perché una sembra oscurare le attrattive dell'altra; in effetti, le donne che ambiscono a esser conquistatrici, raramente sono amiche tra loro, nel vero senso del termine.
Nulla è tanto contrario al bello quanto la laidezza, così come niente ci caccia tanto al di sotto del sublime quanto il ridicolo. Perciò, per un uomo, nessun affronto può essere più cocente del definirlo scapestrato e, per una donna, laida. Lo «Spectator» inglese ritiene a proposito, invece, che l'offesa più umiliante per un uomo sia definirlo un mentitore e per una donna il rimprovero più amaro sia definirla un'impudica. Non discuterò questo giudizio che si attiene al rigore della morale: qui la questione non tratta di quello che in sé merita il maggior biasimo, ma di quello che nei fatti viene avvertito come il rimprovero più sgradevole; chiedo perciò al lettore se, riflettendo secondo questa prospettiva, non debba convenire con la mia opinione. La signorina Ninon Lenclos non avanzava la minima pretesa al vanto della pudicizia anche se si sarebbe comunque sentita implacabilmente offesa se un suo amante si fosse spinto troppo in là nel giudizio: è noto il triste destino del Monaldeschi per un'oltraggiosa espressione di questo genere rivolta a una principessa che non voleva certo emulare Lucrezia. E' insopportabile che non si possa neppure denunziare il male, quand'anche lo si voglia, perché la stessa omissione è sempre, in tal caso, una virtù ambigua.
Per allontanarci il più lontano possibile da questa laidezza, illindore, che pure sta bene a ogni persona, compete al sesso femminile quale virtù eminente e difficilmente appare eccessivo, mentre a volte, portato all'esagerazione, in un uomo sembra ricercato ed effeminato.
II pudore è un'arma segreta della natura per porre dei limiti ad un istinto che è molto violento e che, avendo dalla sua parte il richiamo naturale, e dovendo accordarsi con le buone qualità morali, in realtà le trasgredisce. II pudore è quindi un supplemento dei principi oltremodo necessario perché in nessun altro campo come in quello che lo concerne l'istinto ricorre a sottili sofismi per inventarsi principi compiacenti. Esso serve a tendere un velo misterioso perfino davanti agli scopi più confacenti ed essenziali della natura, perché una familiarità troppo facile e usuale non provochi disgusto o almeno indifferenza per le intenzioni ultime di un istinto sul quale convergono le più squisite e vivaci inclinazioni della natura umana.
La qualità del pudore appartiene propriamente al bel sesso e gli è davvero congeniale; è dunque maleducazione grossolana e spregevole il servirsi di quel tipo di scherzi volgari che si dicono oscenità per mettere in imbarazzo e in difficoltà il suo garbo gentile. Dal momento tuttavia che, si può girare intorno al suo segreto quanto si voglia, l'istinto sessuale sta alla base di ogni altra attrattiva, una donna è, proprio in quanto donna, il gradevole oggetto di un piacere ammesso in quanto tale; si potrebbe forse giustificare così il fatto che uomini perbene si prendano talvolta la libertà di far trasparire sottili allusioni, attraverso la non grave impertinenza dei loro scherzi, per cui li diciamo maliziosi e libertini; pur non intendendo offendere con sguardi indiscreti né mancar di rispetto, si sentono però autorizzati a chiamare smorfiosa la donna che accoglie con contrarietà e fastidio i loro giochi di parole. Ne parlo solo perché, generalmente, questo comportamento è visto come un tratto un po' audace di un'elegante e spiritosa società, anche se, di spirito, ne è stato sprecato un bel po' e da un pezzo su questa materia; non si tratta però qui di un giudizio sulla base di un severo valore morale, dato che voglio osservare e spiegare, del senso del bello, soltanto le manifestazioni di comportamento.
Le nobili qualità del sesso femminile le quali però, come ho già notato, non devono mai rendere irriconoscibile il sentimento del bello, si rivelano nel modo più sicuro e chiaro attraverso la modestia: una specie assai pregevole di nobile semplicità e ingenuità, da cui traspare una calma benevolenza e rispetto per gli altri, insieme a una dignitosa fiducia in se stessi, a quella considerazione serena di sé che sempre si ritrova in un elevato carattere. Questa fine mistura, attraendo per il suo fascino e suscitando il rispetto, pone anche al riparo dalla petulanza del biasimo e dei motteggi ogni altra qualità più brillante. Persone di tale temperamento hanno un cuore disposto all'amicizia, dono che non può mai essere apprezzato a sufficienza in una donna perché è così raro e al tempo stesso così seducente.
Dato che la nostra intenzione è giudicare delle sensazioni, può non riuscire spiacevole fissare fin dove è possibile in concetti le diversità di impressioni che destano la figura e le sembianze del bel sesso su quello maschile. E' un fascino che permea, fondamentalmente, tutte le manifestazioni dell'istinto sessuale. La natura segue il suo grande intento e tutte le grazie che gli si accompagnano, per quanto sembrino allontanarsene a piacimento, sono soltanto ornamenti aggiunti e attingono il loro incanto, alla fin fine, dalla stessa sorgente. Un gusto sano e robusto, che si tiene sempre accosto a questo istinto, sarà meno turbato dalle attrattive del portamento, delle fattezze, degli occhi ecc. di una donna e, proprio perché tende soltanto al sesso, giudica il più delle volte la delicatezza altrui come inutile perdita di tempo.
Sebbene un gusto siffatto non sia certo fine, non è per questo da disprezzare perché la maggior parte degli uomini segue per suo tramite il grande ordine della natura in modo molto semplice e diretto. Per questa via vien combinata la maggior parte dei matrimoni e proprio dai membri più attivi del genere umano: se infatti l'uomo non ha la testa piena di gesti incantevoli, occhi languidi, nobile incedere ecc. ecc. e neppure capisce nulla di tutto questo, può di conseguenza star molto più attento alle virtù domestiche, alla parsimoniosità ecc., nonché alla dote. Per quanto riguarda un gusto più fine, che imporrebbe una distinzione fra le attrattive esteriori della donna, esso si orienta o a quello che nella figura e nell'espressione è spirituale, oppure a quello che non è spirituale; una donna viene definita leggiadra se possiede l'avvenenza del secondo tipo. Una conformazione proporzionata, tratti regolari, colori della carnagione e degli occhi che risaltano gradevolmente, son tutte bellezze che piacciono anche in un mazzo di fiori e meritano una tiepida approvazione. Il volto in se stesso non dice nulla, quand'anche sia leggiadro, se non parla al cuore; invece quello che, nell'espressività dei lineamenti, degli occhi e della fisionomia manifesta la vita interiore, colpisce il sentimento del sublime o del bello. Una donna nella quale le attrattive che competono al suo sesso fanno specialmente affiorare l'espressione morale del sublime, si dice bella in senso proprio; quella i cui tratti spirituali, nella misura in cui si esprimono nelle sembianze o nei tratti del volto, annunciano le qualità del bello, è avvenente e, se tale nel grado più alto, affascinante. La prima, con un aspetto di placida calma e nobile decoro, fa trasparire da sguardi modesti lo splendore di un bell'intelletto e, quando si dipinge sul suo volto un sentimento gentile e un animo pietoso, conquista tanto la simpatia amorosa quanto la devozione di un cuore maschile. La seconda mostra vivacità e brio negli occhi ridenti, una certa sottile malizia, il gusto degli scherzi e uno scaltrito ritegno. Essa attrae mentre la prima commuove, e il sentimento dell'amore di cui questa è capace e che ispira agli altri è volubile, ma bello, mentre le impressioni destate dalla prima sono delicate, legate alla stima e durevoli. Non voglio addentrarmi in un'analisi così minuziosa di questo tipo; poiché, in simili casi, l'autore sembra dipingere le sue proprie predilezioni. Faccio tuttavia presente che è comprensibile a questo punto la preferenza che molte dame hanno per un sano ma pallido incarnato: esso infatti si accompagna di solito a un temperamento in cui il sentimento è più profondo e le sensazioni più delicate, quali si addicono alle proprietà del sublime, mentre un incarnato roseo e fiorente annuncia, rispetto alla prima, un temperamento meno segreto e protetto, un carattere piuttosto allegro e vivace; ed è più conforme alla vanità l'intenerire e l'avvincere che l'attrarre e il sedurre. Possono invece essere molto leggiadre le persone senza alcun sentimento morale e senza alcuna espressione di intima sensibilità; esse però non commuoveranno né attrarranno se non quel gusto rozzo al quale abbiamo accennato, che a volte un poco si raffina, ma pur sempre in conformità alla propria natura. E' male che così belle creature incorrano facilmente nel peccato della superbia, per la consapevolezza della bella figura che loro rimanda lo specchio e per mancanza di sentimenti fini, perché così rendono tutti più freddi nei loro confronti, eccettuato l'adulatore che esagera e intriga per un secondo fine.
In base a questi concetti si può forse comprendere qualcosa degli effetti tanto diversi che il sembiante di una stessa donna determina sul gusto degli uomini. Di ciò che, parlando di impressioni suscitate, riguarda troppo da vicino l'attrazione sessuale e può accordarsi con quella certa follia voluttuosa di cui si riveste la sensibilità di ciascuno di noi, non mi occupo, perché sta al di fuori dei limiti della descrizione e del buon gusto; può essere anche giusta la tesi del signor Buffon, che l'immagine femminile che per prima ci colpisce, nell'età in cui questo istinto è ancora intatto e comincia a svilupparsi, rimane l'archetipo al quale nelle stagioni successive dovranno conformarsi più o meno tutte le figure femminili che possono suscitare la nostalgia fantastica dalla quale un'inclinazione abbastanza rozza è portata a scegliere fra i differenti oggetti di uno stesso sesso. Per quel che riguarda un gusto un poco più fine, ritengo che quel tipo di bellezza che noi abbiamo chiamato leggiadra venga giudicata in modo pressoché uniforme da tutti gli uomini e che le opinioni in proposito non sono poi così diverse come comunemente si crede. Le ragazze circasse e georgiane sono ritenute in assoluto le più leggiadre da tutti gli europei che viaggiano nei loro paesi. I turchi, gli arabi, i persiani debbono ben esser d'accordo con questo gusto, dal momento che sono così bramosi di migliorare la loro schiatta con sangue tanto puro; e pare infatti che la razza persiana sia riuscita in questo scopo, e i mercanti dell'Indostan non si trattengono certo dal trarre grossi guadagni da questo turpe commercio di così belle creature, quando le conducono ai ghiotti ricchi del loro paese.

Immanuel Kant, Osservazioni sul sentimento del bello e del sublime, Fabbri editori, 1996, p. 110 – 116

Il bello e il sublime in Kant non è altro che il suo desiderio represso. Un desiderio represso che esprime con una "morale comportamentale" fatta di banalità e di violenza su uomini e donne ai quali Kant vuole vietare che esprimano i loro sentimenti o che possano esporre sé stessi per vantare di essere ciò che Kant non sarà mai. Kant non si sposerà mai. Si dice che abbia fatto due fidanzamenti, ma sembra che siano stati fidanzamenti "pro forma" che ha evitato di concludere col matrimonio.

In questo testo che ho riportato, appare chiaramente la sua avversione per la donna e la sua necessità di imporre comportamenti "mascolini" agli uomini specialmente quando questi volevano mostrare i loro sentimenti. Inoltre, la donna non appare mai come "persona" in Kant, ma per lo più una bestia da allevamento come imposto dai cristiani e l'esaltazione del traffico di donne sottolineato da Kant ad opera dei turchi appare più come un desiderio ambiguo di ridurre la donna a schiava che non a censurare il "turpe commercio".

Kant nega il desiderio e nega la funzione esistenziale del desiderio sottoponendo gli uomini a comportamenti "convenienti". Comportamenti "convenienti" che appaiono tali solo in un contesto di dominio dell'uomo sull'uomo dove il dominatore pretende che i suoi dominati si comportino come lui vuole che si comportino affinché il dominato confermi il diritto del dominatore a dominarlo.

Nel 1764 Kant pubblica un "Saggio sulle malattie della mente". In questo saggio scrive:

C'è quindi una specie di fantasticheria che viene attribuita a qualcuno, solo perché il grado dell'emozione che suscitano in lui ceni oggetti viene giudicata eccessiva per l'equilibrio di una mente sana. Su questa base, il malinconico è un fantasta relativamente ai mali della vita. L'amore offre una grande quantità di piaceri fantastici e l'abile capolavoro degli antichi stati consistette nel fare dei cittadini dei fantasticatori relativamente al sentimento del bene pubblico. Chi è sollecitato da un sentimento morale più che da un principio, e ciò in misura maggiore di quanto altri in base a un loro gretto e spesso ignobile modo di sentire possano rappresentarsi, è nella loro rappresentazione un fantasta. Io pongo Aristide tra gli usurai, Epitteto tra i cortigiani e Gian Giacomo Rousseau tra i dottori della Sorbona. E già mi pare di sentire alte risa di scherno e cento voci gridare: "Che fantasticherie!". Questo ambiguo sentore di fantasticheria in sentimenti morali in sé buoni è l'entusiasmo, e al mondo non è mai stato fatto nulla di grande senza di esso. Tutt'altro discorso merita il fanatico (visionario, esaltato). Costui è propriamente un allucinato con una presunta ispirazione immediata e una grande confidenza con le potenze celesti. La natura umana non conosce nessuna illusione che sia più pericolosa di questa. Quando la sua apparizione è nuova, quando l'uomo che così si inganna ha del talento e la gran massa è preparata ad accogliere nell'intimo questo lievito, allora perfino lo stato ne tollera talvolta gli eccessi. L'esaltazione conduce l'entusiasta agli estremi, Maometto sul trono principesco e Giovanni da Leyda sul patibolo. Tra le storture della mente, nella misura in cui esse riguardano i concetti dell'esperienza, potrei includere in un certo senso i perturbamenti della capacità memorativa. Giacché questi ingannano il meschino che ne è colpito con una rappresentazione chimerica di chissà quale condizione passata che in realtà non ci fu mai. Chi racconta dei beni che un tempo avrebbe posseduto o del reame che sarebbe stato suo, mentre per quanto riguarda il suo stato attuale non s'inganna più di tanto, è un pazzo squilibrato riguardo alla memoria. Il vecchio brontolone convinto che durante la sua giovinezza il mondo sia stato più ordinato e gli uomini migliori, è invece un fantasta riguardo alla memoria.
Fino a questo punto, nella allucinazione, non è propriamente colpita la capacità intellettiva, quanto meno non è necessario che lo sia; infatti l'errore si annida propriamente soltanto nei concetti, mentre i giudizi, una volta che si sia voluta accettare come vera la sensazione sbagliata, possono essere, di per sé, giustissimi e perfino insolitamente ragionevoli. Uno squilibrio dell'intelletto, per contro, consiste in questo: che da esperienze in tutto e per tutto esatte si giudica in un modo del tutto sbagliato. Il vaneggiamento è il primo grado di questa malattia, che nei successivi giudizi d'esperienza opera in senso contrario alla comune regola dell'intelletto. Il vaneggiante vede o si ricorda di oggetti con la stessa esattezza di qualunque sano, solo che spiega di solito il comportamento di altri uomini in base ad una vana presunzione di sé, e crede di potervi leggere chi sa quali preoccupanti intenzioni che a quelli non sono mai venute in mente.

Immanuel Kant, Saggio sulle malattie della mente, Ibis, 2009, p. 53 – 57.

Kant conosceva il vaneggiare come fondamento della spinta religiosa. Lo cita per quanto riguarda Maometto o Giovanni da Leyda. Solo che gli appare comodo relegarlo a queste due sole figure anziché affermare che tutti gli individui che si fanno portavoce di Dio sono dei malati di mente colti da vaneggiamenti mistici. Compreso Gesù, Lutero, Paolo di Tarso o altri di cui Kant si guarda bene dal citare.

Si comprende da questa breve citazione tratta da "Saggio sulle malattie della mente" che tutta la critica che Kant muoverà alle prove "sull'esistenza di Dio" altro non è che una "critica formale" in quanto la critica reale è nei confronti di chi quelle "prove" ha elaborato e propagandato in quanto costoro vagheggiavano in un delirio che proiettavano su un assoluto che chiamavano "Dio" e che volevano legittimare per promuovere sé stessi e la propria malattia.

Nel 1766 Kant pubblica "I sogni di un visionario chiariti con i sogni della metafisica". In questo libro Kant critica la metafisica tedesca che diventerà il fondamento della sua speculazione filosofica. Nello stesso anno Kant diventa bibliotecario alla Schlossbibliothek di Konigsberg.

Nel 1768 Kant pubblica "Primo fondamento della distinzione delle regioni nello spazio" in cui Kant riprende le idee di Newton.

Il 31 marzo 1770 Kant fu nominato Professore Ordinario di Logica e Metafisica all'università di Konigsberg. Per l'occasione Kant presenta una "dissertazione" dal titolo "De Mundi Sensibilis atque Intelligibilis Forma et Principiis" (Sulla forma e i principi del mondo sensibile e intelligibile). In questo lavoro Kant anticipa alcuni temi relativi a quella che sarà la sua filosofia futura. La dissertazione tratta dei concetti di spazio e di tempo che sono, secondo Kant, intuizioni pure, oggetti aprioristici della matematica.

Scrive Kant nella sua dissertazione:

Una totalità quindi di sostanze è una totalità di sostanze contingenti, e il mondo, in forza della sua essenza consta di mere sostanze contingenti. Inoltre nessuna sostanza necessaria è in connessione (in nexu) con il mondo se non come la causa è con il causato, e perciò non come parte con i suoi complementi rispetto al tutto (poiché il nesso tra le parti è di mutua dipendenza, dipendenza che non ha luogo nell'ente necessario). Pertanto la causa del mondo è un essere esterno al mondo (extramundanum), e perciò non è nemmeno l'anima del mondo, e la presenza di questa causa nel mondo non riguarda il luogo, ma la virtualità.

Immanuel Kant, Forma e principi del mondo sensibile e intelligibile, Rusconi, 1995, p. 123.

Davanti al "senato accademico" Kant riafferma "Dio" come causa necessaria del mondo sensibile. Riafferma "Dio" come ente necessario al mondo ed esterno al mondo, separato dal mondo, riprendendo la tradizione cristiana che veicola non altre parole.

Kant soffriva di una forma di misantropia estremamente accentuata che lo spingeva a cercare l'isolamento perché ogni cambiamento era vissuto con un estremo dolore. Si dice che non fosse proprio isolato, perché spesso cenava con persone amiche, ma anche questo "cenare con" appare come un voler circoscrivere i rapporti in un ambito e in un tempo abbastanza ristretto per poter mantenere la propria vita separata da loro. Cercava di essere assolutamente abitudinario e rifiutava incontri o frequentazioni che potevano turbare la linearità e la monotonia della sua esistenza.

Questo isolamento, che Kant si impose dal mondo, influì molto sulla sua formazione ideologica e filosofica condizionandone lo sviluppo.

Nel 1774 Kant pubblica "Osservazioni sul sentimento del bello e sublime" fu un libro che ebbe un buon successo come lo ebbe il testo relativo al "Terremoto di Lisbona".

Nel 1781 Kant pubblica "La critica alla ragion pura". L'opera fu a lungo ignorata. Un'opera complessa nella forma e confusa nei risultati che si prefiggeva in un continuo equilibrismo fra la necessità di celebrare il primato di Dio e, nello stesso tempo, di condannare tutte quelle "prove dell'esistenza di Dio" che una volta smentite avrebbero negato l'esistenza di Dio.

Dello spazio e del tempo, scrive Kant nella "Critica alla Ragion pura":

Sul tempo:

2. Il tempo è una rappresentazione necessaria, che sta a base di tutte le intuizioni. Non si può, rispetto ai fenomeni in generale, sopprimere il tempo, quantunque sia del tutto possibile toglier via dal tempo tutti i fenomeni. Il tempo dunque è dato a priori. Soltanto in esso è possibile qualsiasi realtà dei fenomeni. Questi possono sparir tutti, ma il tempo stesso (come condizione universale della loro possibilità) non può esser soppresso.
3. Su questa necessità a priori si fonda anche la possibilità di principi apodittici dei rapporti di tempo, o assiomi del tempo in generale. Esso ha una sola dimensione; diversi tempi non sono insieme, ma successivi (come diversi spazi non sono successivi, ma insieme). Questi princìpi non possono esser desunti dall'esperienza, perché questa non potrebbe darei né universalità rigorosa, né certezza apodittica. Potremmo dire soltanto: così ci dice la percezione comune, ma non: così deve essere. Questi principi valgono come leggi per le quali è possibile l'esperienza in generale, e ci istruiscono prima, non per mezzo di essa.
4. Il tempo non è un concetto discorsivo o, come si dice, universale, ma una forma pura dell'intuizione sensibile. I diversi tempi non sono se non parti appunto dello, stesso tempo. Ma la rappresentazione che non può esser data se non per un solo oggetto, si chiama intuizione. Inoltre, la proposizione che tempi diversi non possono essere insieme non si potrebbe dedurre da un concetto universale. Questa proposizione è sintetica, e non può essere dedotta solo da concetti. E' dunque immediatamente contenuta nell'intuizione e rappresentazione del tempo.
5. L'infinità del tempo non significa se non che tutte le quantità determinate di tempo sono possibili solo come limitazioni di un tempo unico, che stia a loro fondamento. Quindi la rappresentazione originaria tempo deve essere data senza limitazioni. Ma quando le parti stesse e ogni grandezza di un oggetto non si possono rappresentare determinate se non mediante una limitazione, allora la rappresentazione totale non può esser data mediante concetti (perché essi non contengono se non rappresentazioni parziali), ma a fondamento di esse deve esserci un'intuizione immediata.
Posso per ciò rinviare al n. 33, dove, per esser breve, ho detto tra gli articoli della esposizione metafisica quello che propriamente è trascendentale. Qui soggiungo ancora, che il concetto del cangiamento, e con esso il concetto del movimento (come cangiamento di luogo), è possibile solo mediante la rappresentazione del tempo; che, se questa rappresentazione non fosse intuizione (interna) a priori, nessun concetto, quale che sia, potrebbe rendere intelligibile la possibilità d'un cangiamento, cioè dell'unione in uno e medesimo oggetto di predicati opposti contraddittori (per es., l'essere e il non essere una stessa cosa nello stesso luogo). Solo nel tempo, ossia una dopo l'altra, possono incontrarsi insieme in una cosa due determinazioni opposte contraddittorie. Il nostro concetto del tempo spiega dunque la possibilità di tante conoscenze sintetiche a priori, quante ce ne propone la teoria generale del moto, che non ne è poco feconda.

Immanuel Kant, Critica della ragion pura - vol. 1, Laterza, 1987, p. 75 – 76.

Nel concetto di tempo di Kant manca il concetto di trasformazione del soggetto. Per Kant il tempo è misura di un cambiamento, ma come avviene questo cambiamento, a Kant sembra non interessare. Cosa muta nel tempo, non è oggetto della ricerca kantiana. Il tempo, nel sistema di pensiero kantiano, non è un oggetto in sé solo perché Kant non attribuisce intelligenza e volontà ai soggetti nei loro cambiamenti. I soggetti cambiano, cambiano di luogo, e nel vedere questo Kant afferma che esiste un concetto di tempo. Ma qual è la forza che spinge il soggetto a cambiare di luogo? Il concetto di tempo in Kant rimane un concetto vuoto di significato come il concetto di spazio.

Scrive Kant a proposito del concetto di spazio:

Sullo spazio

2. Lo spazio è una rappresentazione necessaria a priori la quale sta a fondamento di tutte le intuizioni esterne. Non si può mai formare la rappresentazione che non vi sia spazio, sebbene si possa benissimo pensare che in esso non si trovi nessun oggetto. Lo spazio vien dunque considerato come la condizione della possibilità dei fenomeni, non come una determinazione dipendente da essi; ed è una rappresentazione a priori, la quale è necessariamente a fondamento di fenomeni esterni.
3. Lo spazio non è un concetto discorsivo o, come si dice, universale dei rapporti delle cose in generale, ma una intuizione pura. Perché, primieramente, non ci si può rappresentare se non uno spazio unico, e, se si parla di molti spazi distinti, si intende soltanto parti dello stesso spazio unico e universale. Non è possibile che queste parti "recedano allo spazio unico ed universale, quasi suoi elementi costitutivi (dai quali risulti poi l'insieme), ma non sono pensate se non in esso. Esso è essenzialmente unico, in esso la molteplicità, quindi anche il concetto universale di spazio in generale, si forma esclusivamente su limitazioni. Ne segue che, quanto a quello, una intuizione a priori (non empirica) sta a base di tutti i concetti di esso. Così anche tutti i principi geometrici, per esempio che in un triangolo la somma di due lati è maggiore del terzo, non vengono mai ricavati dai concetti universali di linea e di triangolo, bensì dalla intuizione, e a priori con certezza apodittica.
4. Lo spazio vien rappresentato come una grandezza infinita data. Ora, se conviene certo pensare ogni concetto come una rappresentazione contenuta in uri numero infinito di differenti rappresentazioni possibili (come loro nota comune), esso dunque le comprende sotto di sé; ma nessun concetto, come tale, può esser considerato come contenente in sé un'infinita moltitudine di rappresentazioni. Pure, lo spazio è pensato così (giacché tutte le parti dello spazio coesistono, all'infinito). Sicché la rappresentazione originaria dello spazio è intuizione a priori, e non concetto.

Immanuel Kant, Critica della ragion pura – vol. 1, Laterza, 1987, p. 69 – 70.

Lo spazio non è un concetto intuito, lo spazio è la realtà fattiva che permette la vita. Lo spazio era e la vita occupò lo spazio. Non esiste un'intuizione dello spazio, ma un abitare lo spazio che occupa uno spazio. Il soggetto, occupando lo spazio, lo delimita fra ciò che egli è e ciò che egli non è.

Lo spazio viene abitato, percorso, occupato, descritto, ecc. Ma non è né un concetto né un'idea, ma un reale sensibile. Trasformare un reale sensibile in un oggetto pensato, in un prodotto del pensiero, in contrapposizione all'oggetto vissuto, mi appare evidente come i caratteri dell'idealismo kantiano consistano nell'allontanare l'uomo dal proprio vivere per confinarlo in una dimensione illusoria dove gli oggetti del sensibile cessano di eccitare l'intelligenza dell'uomo per trasformarsi in fantasie idealizzate prive di sostanza. Kant sta cercando di costruire un ponte fra la vita reale e il misticismo metafisico. Kant deve allontanare l'uomo dal suo abitare il mondo e confinarlo in un pensiero che cortocircuita su sé stesso.

Scrive Kant nella Critica alla Ragion pura a proposito delle prove sull'esistenza di Dio:

Dell'impossibilità di una prova ontologica dell'esistenza di Dio.

[…]
Contro tutti questi ragionamenti generali (ai quali non c'è uomo che possa ricusarsi) voi mi sfidate con un caso, che arrecate come prova di fatto: che tuttavia c'è un concetto, e questo unico concetto, in cui il non essere o la negazione del suo oggetto è in se stesso contraddittorio: e questo è il concetto dell'Essere realissimo. Esso ha, voi dite, tutte le realtà, e voi siete in diritto di ammettere come possibile un tal essere (ciò che io per ora ammetto, benché il concetto che non si contraddice sia ben lungi dal dimostrare la possibilità dell'oggetto). Ma fra tutte le realtà è compresa anche l'esistenza; dunque, nel concetto di un possibile c'è l'esistenza. Ora, se si nega questa cosa, è negata la possibilità interna della cosa; ciò che è contraddittorio.
Io rispondo: voi avete già commessa una contraddizione quando, nel concetto d'una cosa che volete pensare unicamente nella sua possibilità, avete introdotto, sia pure sotto occulto nome, il concetto della sua esistenza. Se vi si concede questo, voi in apparenza avete guadagnato il giuoco, ma in fatto non avete detto niente; perché siete incorsi in una semplice tautologia. Io vi domando: la proposizione questa o quella cosa (che io vi concedo come possibile, sia qual si voglia) esiste, questa proposizione, dico, è una proposizione analitica o sintetica? Se è analitica, allora voi, con l'esistenza della cosa, non aggiungete nulla al vostro pensiero della cosa; ma allora o il pensiero, che è in voi, dovrebbe essere la cosa stessa, o voi avete supposta un'esistenza come appartenente alla possibilità e poi avete fatto mostra di dedurre l'esistenza dall'intera possibilità. Ciò che non è altro che una misera tautologia. La parola «realtà» che nel concetto della cosa suona altrimenti che «esistenza» nel concetto del predicato, non giova. Perché, se voi dite realtà anche ogni posizione (qualunque cosa poniate), allora voi avete già posto la cosa con tutti i suoi predicati nel concetto del soggetto, e l'avete ammessa come reale, e nel predicato non fate che ripeterla. Se voi riconoscete, al contrario, come discretamente deve ogni essere ragionevole, che ogni giudizio esistenziale è sintetico; come volete asserire, che il predicato dell'esistenza non si possa negare senza contraddizione? Poiché tale prerogativa non spetta propriamente se non ai giudizi analitici, come quelli il cui carattere si fonda appunto su ciò. Io, in verità, spererei di aver ridotto in nulla con una esatta determinazione del concetto di esistenza questa sottile sofisticheria, se non avessi trovato che l'illusione, nello scambio di un predicato logico con uno reale (cioè della determinazione di una cosa) prevale quasi su qualsiasi ragionamento. Per predicato logico può servire tutto ciò che si vuole, anzi il soggetto si può predicare di se stesso; giac ché la logica astrae da ogni contenuto. Ma la determinazione è un predicato, che s'aggiunge al concetto del soggetto, e lo accresce. Essa quindi non vi può essere già contenuta.
Essere, manifestamente, non è un predicato reale, cioè un concetto di qualche cosa che si possa aggiungere al concetto di una cosa. Essere è semplicemente la posizione di una cosa o di certe determinazioni in se stesse. Nell'uso logico è unicamente la copula di un giudizio. Il giudizio Dio è onnipotente, contiene due concetti, che hanno i loro oggetti: Dio e onnipotenza: la parolina «è» non è ancora un predicato, bensì solo ciò che pone il predicato in relazione col soggetto. Ora, se io prendo il soggetto (Dio) con tutti insieme i suoi predicati (ai quali appartiene anche l'onnipotenza), e dico: Dio è, o c'è un Dio, io non affermo un predicato nuovo del concetto di Dio, ma soltanto il soggetto in sé con tutti i suoi predicati, e cioè l'oggetto in relazione col mio concetto. Entrambi devono avere esattamente un contenuto identico, e però nulla si può aggiungere di più al concetto, che esprime semplicemente la possibilità, per il fatto di pensare l'oggetto come assolutamente dato (con l'espressione: egli è). E così il reale non viene a contenere niente più del semplice possibile. Cento talleri reali non contengono assolutamente nulla di più di cento talleri possibili. Perché, dal momento che i secondi denotano il concetto, e i primi invece l'oggetto e la sua posizione in sé, nel caso che questo contenesse più di quello, il mio concetto non esprimerebbe tutto l'oggetto, e però anch'esso non ne sarebbe il concetto adeguato. Ma rispetto allo stato delle mie finanze nei cento talleri reali c'è più che nel semplice concetto di essi (cioè nella loro possibilità). Infatti l'oggetto, per la realtà non è contenuto senz'altro, analiticamente nel mio concetto, ma s'aggiunge sinteticamente al mio concetto (che è una determinazione del mio stato), senza che per questo essere fuori del mio concetto questi cento talleri stessi del pensiero vengano ad essere menomamente accresciuti.
Se io dunque penso una cosa con quali e quanti predicati io voglio (magari nella sua determinazione completa) non s'aggiunge alla cosa stessa il minimo che, pel fatto che io soggiungo ancora: questa cosa è. Perché altrimenti non esisterebbe per l'appunto lo stesso, ma più di quel che io avevo pensato nel concetto; e io non potrei dire che esiste precisamente l'oggetto del mio pensiero. Parimenti, se io in una cosa penso tutte le realtà, eccetto una, non perché dico: una tale cosa difettosa esiste, le si aggiunge la realtà mancante; ma essa esiste precisamente con lo stesso difetto con cui l'ho pensata; altrimenti, esisterebbe qualcos'altro da ciò che io pensavo. Ora, se io mi penso un essere come la Realtà suprema (senza difetto), resta sempre la questione, se esso esista o no. Giacché, quantunque nel mio concetto non ci manchi nulla del possibile contenuto reale di una cosa in generale, pure ci manca ancora qualcosa nel rapporto con lo stato intero del mio pensiero: ossia, manca che la conoscenza di quell'oggetto sia possibile anche a posteriori. E qui apparisce anche la causa della presente difficoltà. Se si trattasse di un oggetto dei sensi, non potrei scambiare l'esistenza della cosa col semplice concetto della cosa. Infatti, pel concetto, l'oggetto non vien pensato se non come conforme alle condizioni generali di una possibile conoscenza empirica in generale; per l'esistenza, invece, come contenuto nel contesto dell'esperienza totale; se dunque per la connessione col contenuto dell'esperienza totale il concetto dell'oggetto non è menomamente accresciuto, il nostro pensiero, per altro, mediante essa acquista una percezione possibile di più. Al contrario, se noi vogliamo pensare l'esistenza soltanto mediante la categoria pura, nessuna meraviglia che non possiamo fornire nessun carattere per distinguerla dalla semplice possibilità.

Immanuel Kant, Critica della ragion pura – vol. 2, Laterza, 1987, p. 470 – 473

La prova ontologica dell'esistenza di Dio fu introdotta nella scolastica da Anselmo d'Aosta fatto santo dai cristiani.

La prova ontologica dell'esistenza di Dio, inventata dai presocratici sostenitori di Parmenide, partiva dal presupposto che realtà e pensiero sono la stessa cosa e dal momento che una cosa è pensata deve necessariamente esistere altrimenti non potrebbe essere pensata.

Secondo i fautori di questa prova dell'esistenza di Dio, dal momento che loro pensano Dio, Dio deve necessariamente esistere e proprio nella forma che loro pensano. In altre parole, se pensate che gli asini volano, gli asini devono necessariamente volare perché altrimenti vuoi non li potreste pensare.

Kant demolisce la prova ontologica dell'esistenza di Dio sostenendo, di fatto, che pensare che Dio significa provare che un individuo ha pensato che Dio esiste, non che Dio esiste. Si dimostra che un individuo desidera che Dio esiste, per questo lo pensa. Si dimostra l'esistenza del desiderio di "Dio" di quell'individuo, ma non si dimostra Dio.

Dopo questa genialata di Anselmo d'Aosta che ha convinto i servi della chiesa cattolica dell'esistenza di Dio, la chiesa cattolica ha fatto Anselmo d'Aosta, santo.

Scrive ancora Kant:

Dell'impossibilità di una prova cosmologica dell'esistenza di Dio.

[…]
La prova cosmologica, che ora intendiamo studiare, mantiene la connessione della necessità assoluta con la realtà suprema; ma, in luogo di conchiudere, come la precedente, dalla realtà suprema alla necessità dell'esistenza, essa piuttosto conchiude dalla necessità incondizionata, data innanzi, di un essere, alla realtà illimitata di esso: e così, almeno, porta tutto sulla rotaia d'un modo di ragionare, non so se ragionevole o sofistico, ma almeno naturale, che ha la maggiore efficacia di persuasione non solo nel pensiero comune, ma anche per quello speculativo; come esso infatti ha evidentemente tracciate le prime linee fondamentali per tutte le prove della teologia naturale, che si sono sempre seguite e si seguiranno nell'avvenire, siano pure decorate e nascoste con quanti fogliami e volute sempre si voglia. Questa prova, che Leibniz disse anche prova a contingentia mundi, metteremo ora sott'occhio e sottoporremo ad esame.
Essa suona, dunque: se qualche cosa esiste, deve anche esistere un Essere assolutamente necessario. Ma io stesso, per lo meno esisto; dunque, esiste un Essere assolutamente necessario. La minore contiene un'esperienza, la maggiore un'illazione da una esperienza in generale all'esistenza del necessario. Dunque la prova parte, propriamente, dall'esperienza; quindi non è condotta interamente a priori o 'ontologicamente: e poiché l'oggetto di ogni 'esperienza possibile è il mondo, perciò questa prova vien detta cosmologica. E poiché astrae da ogni particolar proprietà degli oggetti dell'esperienza, onde questo mondo si può distinguere da ogni altro mondo possibile, essa è distinta già nel suo nome anche 'dalla prova fisico-teologica, la quale prende i suoi argomenti da osservazioni della particolar costituzione di questo nostro mondo sensibile.
Ma la prova deduce più oltre: l'essere necessario non può essere determinato se non in un unico modo, cioè, rispetto a tutti i possibili predicati opposti, per uno solo di essi, e però dev'essere determinato completamente dal suo concetto. Ora, c'è un solo concetto possibile di una cosa, che a priori determini questa completamente, ossia quello dell'ens realissimum. Il concetto, dunque, di Essere realissimo è l'unico concetto onde possa esser pensato un essere necessario; cioè esiste in modo necessario un Essere supremo.
In questo argomento cosmologico, si presentano insieme tanti princìpi sofistici, che la ragione speculativa pare abbia qui impegnato tutta la sua arte dialettica, per realizzare la maggiore possibile apparenza trascendentale. Noi ne vogliamo metter da parte per un po' l'esame, tanto per render manifesta un'astuzia, con cui essa esibisce per nuovo un vecchio argomento travestito, e si appella all'accordo di due testimoni, cioè al testimonio della ragion pura e ad un altro di fede empirica, mentre non c'è altro che il primo solo, il quale cambia semplicemente abito e voce per essere scambiato per un secondo. Per porre sicuramente il suo fondamento, questa prova si affida alla esperienza, e si dà così un'aria come fosse diversa dalla prova ontologica, che ripone tutta la sua fiducia in meri concetti puri a priori. Ma di questa esperienza la prova cosmo logica non si serve se non per fare un solo passo, cioè per passare all'esistenza di un essere necessario, in generale. Quali proprietà questo abbia, l'argomento empirico non può dircelo; e allora la ragione prende interamente congedo da esso, e va in traccia di meri concetti, ossia cerca quali proprietà debba aver un Essere assolutamente necessario in generale, quale, cioè, tra tutte le cose possibili, contenga in sé le condizioni richieste (requisita) di una necessità assoluta. Ma essa crede di trovare questi requisiti unicamente nel concetto di un essere realissimo, e quindi conchiude: è questo l'Essere assolutamente necessario. Se non che, è chiaro, in questo si presuppone che il concetto dell'Essere della più alta realtà soddisfaccia pienamente al concetto dell'assoluta necessità dell'esistenza, cioè che da quella si possa conchiudere a questa; proposizione che era affermata dall'argomento ontologico, e che, dunque, si assume nella prova cosmologica e si mette a suo fondamento, laddove si era voluto evitarlo. Infatti, la necessità assoluta è un'esistenza ricavata da semplici concetti. Ora, se io dico: il concetto dell'ens realissimum è un tal concetto, e l'unico, che corrisponde all'esistenza necessaria, e vi è adeguato, io devo anche ammettere che questa possa esserne dedotta. Non è, propriamente, se non la prova ontologica fondata su meri concetti, che ha nella cosiddetta prova cosmologica tutta la forza dimostrativa; e la pretesa esperienza è affatto oziosa, buona forse soltanto per condurci al concetto della necessità assoluta, ma non per mostrarcela in una cosa qual si sia determinata. Giacché, non appena miriamo a questo scopo, noi dobbiamo senz'altro abbandonare ogni esperienza, e cercare tra puri concetti quale tra essi possegga davvero le condizioni della possibilità di un Essere assolutamente necessario. Ma, se in tal modo è ravvisata solamente la possibilità di un tale Essere, ne è anche mostrata l'esistenza; perché è come dire: in mezzo a tutto il possibile c'è un Essere, che ha in sé necessità assoluta, cioè quest'Essere esiste in modo assolutamente necessario.
Tutte le illusioni di questo ragionamento si scoprono nel modo più facile, se esse vengono esposte nella forma scolastica.

Immanuel Kant, Critica della ragion pura – vol. 2, Laterza, 1987, p. 475 – 478

La prova cosmologica dell'esistenza di Dio dice che, dal momento che tutte le cose e gli Esseri della Natura nascono e muoiono, secondo gli scolastici e Tommaso d'Aquino, deve esistere necessariamente qualche cosa che non nasce e non muore. Questo qualcuno viene chiamato "Dio".

Constatare che tutto nasce e muore, è una cosa. Affermare che questo indichi l'esistenza necessaria di qualche cosa che non nasce e non muore, è un'illazione. Un'illazione arbitraria e con fini eticamente disonesti. Io constato che l'acqua scende dal monte e va verso il mare, ma questo non mi autorizza ad affermare che esiste un Essere assolutamente necessario che porti l'acqua dal monte al mare.

In sostanza, tutte queste prove dell'esistenza di Dio a cui Kant si oppone, dimostrano solo il desiderio di Dio. Un desiderio che si trasforma in delirio che induce l'individuo a formulare delle giustificazioni razionali del suo desiderio che vengono chiamate "prove".

Dell'impossibilità della prova fisico-teologica

[…]
Dopo tutte le superiori osservazioni, si scorgerà subito che si può sperare una soluzione facile e stringente di quest'altra questione. Infatti, come si può dar mai un'esperienza che sia per essere adeguata a un'idea? In ciò appunto consiste il proprio di questa, che non possa mai un'esperienza esser congruente con essa. L'idea trascendentale di un essere originario necessario universalmente sufficiente è così smisuratamente grande, così sublime al di sopra di ogni essere empirico, sempre condizionato, che da una parte non si può rintracciare mai materia sufficiente nell'esperienza, da riempire un tal concetto, e dall'altra si brancola sempre nel condizionato, e si va in cerca perpetuamente indarno dell'incondizionato, di cui nessuna legge di sintesi empirica ci fornisce un esempio o il menomo accenno.
Se l'Essere supremo stesse in questa catena delle condizioni, sarebbe anch'esso un membro della serie, e, né più né meno dei membri inferiori ai quali sarebbe preposto, richiederebbe ancora un'ulteriore ricerca per il suo principio superiore. Che se, invece, la si vuole staccare da questa catena, e come essere semplicemente intelligibile, non comprendere nella serie delle cause naturali, allora qual ponte la ragione può agitare per giungere fino ad esso? Giacché tutte le leggi del passaggio da effetti a cause, anzi ogni sintesi ed estensione nella nostra conoscenza in generale, non poggiano su altro che sull'esperienza possibile, e però soltanto in oggetti del mondo sensibile, e solo rispetto a essi possono avere un significato.
Il mondo presente ci apre un sì immenso teatro di varietà, ordine, finalità e bellezza, sia che lo si persegua nella infinità dello spazio, o nella sua divisione senza limiti, che, anche dopo le conoscenze che il nostro debole intelletto ne ha potuto acquistare, ogni lingua, a tante e incalcolabilmente grandi meraviglie, perde la sua energia, tutti i numeri la loro capacità di misura e i nostri stessi pensieri ogni limitazione, si che il nostro giudizio sul tutto deve risolversi in un muto, ma appunto perciò tanto più eloquente stupore. D'altra parte, noi vediamo una catena di effetti e di cause, di fini e di mezzi, regolarità nel nascere e nel perire; e poiché nulla è pervenuto da sé· nello stato in cui si trova, questo rimanda sempre giù in là a un'altra cosa come sua causa; la quale, a sua volta, rende necessaria precisamente la stessa ricerca, sicché in tal modo l'intero universo dovrebbe sprofondarsi nell'abisso del nulla, se non si ammettesse qualche cosa che, fuori di questo infinito contingente, sussistendo per sé originariamente e indipendentemente, sostenga questo contingente e insieme, come causa della sua origine, ne assicuri la durata. Questa causa suprema (rispetto a tutte le cose' del mondo) quanto si dee pensar grande? Noi non conosciamo il mondo in tutto il suo contenuto, e tanto meno sappiamo calcolare la sua grandezza dal paragone con tutto ciò che è possibile. Ma che cosa ci impedisce, poiché per la causalità abbiamo bisogno di un Essere ultimo e supremo, di porlo insieme, pel grado della perfezione, al di sopra di ogni altro possibile? Ciò che possiamo facilmente, sebbene certo solo mediante il contorno delicato di un concetto astratto, effettuare, se ci rappresentiamo riunita in esso, come in una sostanza, ogni possibile perfezione; il quale concetto, propizio all'esigenza della nostra ragione nel risparmio de' princìpi, in sé non è soggetto a nessuna contraddizione, ed è anche utile all'estendimento dell'uso della ragione attraverso all'esperienza, grazie alla guida che una tale idea dà all'ordine e alla finalità; né per altro è decisamente contro ad alcuna esperienza.
Questa prova merita d'esser sempre menzionata con rispetto. Essa è la più antica, la più chiara e la più adatta alla comune ragione umana. Essa ravviva lo studio della natura, come da esso ella medesima ha la sua esistenza, e ne riceve sempre nuova forza, Essa porta fini e scopi dove la nostra osservazione da sé non li avrebbe scoperti, e amplia le nostre conoscenze della natura col filo conduttore di una particolar unità, il cui principio è fuori della natura. Ma queste conoscenze reagiscono sulla loro causa, cioè sull'idea che ha datò loro occasione, e accrescono la fede in un sommo Creatore fino a una convinzione irresistibile. Sicché sarebbe non solo sconfortante, ma anche del tutto inutile tentar di detrarre qualche cosa all'autorità di questa prova. La ragione, che è incessantemente elevata da questi argomenti così potenti e sempre crescenti sotto le sue mani, benché soltanto empirici, non può da nessun dubbio di sottile e astratta speculazione esser abbassata al punto, che non debba essere strappata a ogni indecisione sofistica, come ad un sogno, da uno sguardo che getti alle meraviglie della natura e alla maestà dell'universo, per risollevarsi di grandezza in grandezza fino alla più alta di tutte, di condizione in condizione fino al supremo e incondizionato Creatore.
Ma, quantunque noi non abbiamo nulla da opporre alla razionalità e utilità di questo procedere, che anzi abbiamo piuttosto da raccomandarlo e da incoraggiarlo, non per questo, tuttavia, possiamo approvare le pretese che questa specie di prova potrebbe avanzare a una certezza apodittica e a un'adesione non bisognosa punto di grazia e di estrinseco appoggio; né può .in alcun modo recar pregiudizio alla buona causa abbassare il linguaggio dommatico di un baldanzoso argomentatore fino al tono della moderazione e discrezione proprio di una fede sufficiente alla pace, benché appunto non imponente una sottomissione .incondizionata. Io quindi affermo, che la prova fisico-teologica non può dimostrar mai da sola l'esistenza di un Esser supremo, ma deve lasciare sempre a quella ontologica (a cui serve soltanto d'introduzione) di colmare questo difetto; che pertanto questa contiene sempre l'unico possibile argomento (se mai c'è una prova speculativa), che a nessuna ragione umana è dato di superare.

Immanuel Kant, Critica della ragion pura – vol. 2, Laterza, 1987, p. 487 – 489

La prova fisico teologica dell'esistenza di Dio dice che dal momento che la natura è un organismo così perfetto, necessariamente qualcuno deve averla creata. Dal momento che tutto è mobile deve esistere un motore immobile capace di mettere in moto i soggetti della Natura.

Kant dice che da questa prova dell'esistenza di Dio si potrebbe dedurre l'esistenza di un "architetto della natura", non necessariamente il Dio creatore della natura.

Il mondo è così perché è divenuto per selezione e trasformazione in miliardi di anni. Kant che non vede nelle trasformazioni del mondo gli atti di volontà di ogni singolo soggetto che abita il mondo, deve cibarsi della meraviglia del momento presente e da questa meraviglia nasce il desiderio di attribuire l'esistente all'attività di DIO. Non si tratta di un dato di realtà, ma di un desiderio del soggetto. Un desiderio che viene indotto da un bisogno psicologico soggettivo riconducibile ad una disfunzione psichiatrica che alimenta una fuga dalla vita e la ricerca di una condizione virtuale in cui Dio risolve il conflitto interiore dell'uomo che si è sottratto alla quotidianità.

Scrive ancora Kant:

Critica di ogni teologia fondata sui principi speculativi della ragione.

[…]
La teologia trascendentale o intende di dedurre l'esistenza dell'essere originario da una' esperienza in generale (senza determinare nulla di più intorno al mondo a cui essa appartiene), e si dice cosmo-teologia; o crede di conoscere la sua esistenza mediante semplici concetti, senza il soccorso della minima esperienza, e vien detta ontoteologia.
La teologia naturale conclude agli attributi e all'esistenza di un Creatore del mondo movendo dalla costituzione, ordine e unità, che si dà in esso mondo, in cui bisogna ammettere due specie di causalità, e la loro regola, ossia natura e libertà. Quindi da questo mondo sale all'intelligenza suprema, o come principio di ogni ordine e perfezione naturale, o come principio di ogni ordine e perfezione morale. Nel primo caso si dice teologia fisica, nel secondo teologia morale.
Poiché per il concetto di Dio si è abituati a intendere non semplicemente, presso a poco, una natura eterna ciecamente agente come radice di tutte le cose, ma un Essere supremo che mediante intelletto e libertà dev'essere il creatore delle cose, e poiché anche soltanto questo concetto ci interessa, a rigore al deista si potrebbe negare ogni fede in Dio, e lasciargli unicamente l'affermazione di un essere originario o di una causa suprema.
Intanto, poiché nessuno, pel solo fatto che non crede di poter affermare qualche cosa, può esser accusato di volerla negare, così è più discreto e più giusto dire: il deista crede in un Dio, ma il teista crede in un Dio vivente (summa intelligentia). Ora indagheremo le possibili fonti di tutti questi tentativi della ragione. Io mi contento qui di definire la conoscenza teoretica come una conoscenza per cui conosco ciò che esiste ; la conoscenza pratica invece come quella, onde io mi rappresento ciò che deve esistere. Secondo tale distinzione, l'uso teoretico della ragione è quello, per cui io conosco a priori ciò che è; il pratico, invece, quello per cui si conosce a priori ciò che deve accadere. Ora, se è indubbiamente certo, ma pur nondimeno soltanto condizionato, che qualcosa è o deve essere, una certa condizione determinata o può tuttavia essere per ciò assolutamente necessaria, ovvero può esser presupposta soltanto come arbitraria e contingente. Nel primo caso la condizione è postulata (per thesin), nel secondo supposta (per hypothesin). Poiché ci sono leggi pratiche che sono assolutamente necessarie (quelle morali), se queste presuppongono necessariamente un'esistenza come condizione della possibilità della loro forza obbligatoria, questa esistenza deve esser postulata, per la ragione che il condizionato, da cui il ragionamento va a questa condizione determinata, è esso stesso conosciuto a priori come assolutamente necessario. Noi mostreremo altra volta, per le leggi morali, che esse non presuppongono soltanto, ma anche, poiché, d'altra parte, sono assolutamente necessarie, postulano a ragione, ma certo solo praticamente, l'esistenza di un Essere supremo: per ora mettiamo tuttavia da parte questa deduzione.
Poiché, se si parla solamente di ciò che è (non di ciò che dev'essere), il condizionato, che ci è dato nell'esperienza, è sempre pensato anche come contingente, la condizione rispettiva non può quindi esser riconosciuta come assolutamente necessaria, ma serve solo come una ipotesi relativamente necessaria o piuttosto occorrente, benché in se stessa e a priori arbitraria, per la conoscenza razionale del condizionato. Se, dunque, nella conoscenza teoretica, deve esser conosciuta la necessità assoluta di una cosa, questo potrà solo accadere per concetti a priori, ma giammai come necessità di una causa in rapporto a un'esistenza data dalla esperienza.
Una conoscenza teoretica è speculativa se si riferisce a un oggetto, o a tal concetto di un oggetto, a cui non si può giungere in veruna esperienza. Essa è contrapposta alla conoscenza naturale, che non si riferisce ad altri oggetti o predicati da quelli che possono esser dati in una esperienza possibile.
Il principio, per cui da ciò che accade (dal contingente empirico), come da effetto, si conchiude ad una causa, è un principio della conoscenza naturale, ma non della speculativa. Se, infatti, si astrae da esso in quanto principio contenente la condizione dell'esperienza possibile in generale, e, tralasciando ogni elemento empirico, lo si vuole enunciare del contingente in generale, non si ha più la menoma giustificazione di una proposizione sintetica come questa, per indi vedere come io da ciò che esiste possa passare a qualcosa di affatto diverso (che si dice causa); anzi, il concetto di una causa, come quello di contingente, in tale uso semplicemente speculativo perde ogni significato, la cui realtà oggettiva possa indicarsi In concreto.
Ora, se dall'esistenza delle cose del mondo si conchiude alla loro causa, questo non appartiene all'uso naturale, bensì all'uso speculativo della ragione: perché il primo non riferisce a qualche causa le cose stesse (sostanza), ma soltanto quel che accade, ossia i loro stati, in quanto empiricamente contingenti; laddove, che la sostanza stessa (la materia), sia, quanto alla esistenza, contingente, dovrebbe essere una conoscenza speculativa della ragione. Ma se anche si trattasse solo della forma del mondo, della specie del suo rapporto e del suo cangiamento, e io volessi conchiudere da ciò a una causa distinta interamente dal mondo; questo, da capo, sarebbe un giudizio della mera ragione speculativa, perché l'oggetto, qui, non è punto oggetto d'una esperienza possibile. Ma allora il principio di causalità, che non vale se non dentro il campo dell'esperienza, e fuori di questo è senza uso, anzi senza significato, sarebbe affatto distolto dalla sua destinazione.
Ora, io affermo che tutti i tentativi di un uso meramente speculativo della ragione rispetto alla teologia sono affatto infecondi e per la loro intima natura nulli e vani; ma che i princìpi del suo uso naturale non conducono per nulla a una teologia, e che pertanto, se non si mettono a fondamento o non si prendono a guida leggi morali, non è possibile che ci sia mai una teologia della ragione. Tutti, infatti, i princìpi sintetici della ragion pura sono di uso immanente; ma alla conoscenza di un Essere supremo si richiede un uso trascendente di essi, al quale il nostro intelletto non è punto attrezzato. Se dovesse condurci all'Essere originario la legge, di valore empirico, della causalità, anche quest'Essere dovrebbe rientrare nella catena degli oggetti dell'esperienza; ma allora, come tutti i fenomeni, sarebbe esso stesso, a sua volta, condizionato. Che, se anche fosse concesso il salto al di là dei limiti dell'esperienza mediante la legge dinamica del rapporto degli effetti con le loro cause; qual concetto potrebbe darei questo procedimento? Non certo un concetto di un Essere supremo, poiché l'esperienza non ci offre mai il massimo tra tutti gli effetti possibili (come quello che dee render testimonianza della sua causa). Che se ci è permesso, per non lasciare nessun vuoto nella nostra ragione, riempire questa lacuna della completa determinazione mediante la semplice idea della somma perfezione e della originaria necessità, questo può bensì esser concesso per favore, ma non si può domandarlo per diritto di una prova incontrastabile. La prova fisico-teologica, dunque, potrebbe forse confermare magari le altre prove (se ce ne sono), unendo la speculazione con l'intuizione; ma, per se stessa, essa piuttosto prepara l'intelletto alla conoscenza teologica, e gli dà per ciò una retta e naturale direzione, anzi che poter da sé adempiere a un tale ufficio.

Immanuel Kant, Critica della ragion pura – vol. 2, Laterza, 1987, p. 494 – 498

La ragione può affermare l'esistenza di Dio soltanto quando il soggetto deve veicolare il desiderio di autopromozione dopo essere fuggito dalla realtà quotidiana. Dio diventa per costui il mondo, la realtà attraverso la quale poter continuare a vivere. Per contro, Dio diventa uno strumento da gestire per controllare quell'insieme di singoli individui che fuggendo dalla realtà quotidiana cercano una realtà virtuale nella quale la benevolenza di un assoluto costituisce consolazione per il loro fallimento esistenziale.

Non esistono prove dell'esistenza di Dio per il semplice fatto che Dio, come inteso dai cristiani, sia nella sua veste teistica o nella sua veste deistica, semplicemente non esiste. Esiste l'idea di Dio. Esiste il desiderio dell'esistenza di Dio. Esiste l'uomo che nel suo delirio aspira ad una condizione di onnipotenza che chiama Dio. Ma non esiste Dio.

Kant, che afferma che la realtà non è conoscibile come oggetto in sé, è disposto ad accettare l'idea dell'esistenza di Dio pur ammettendo che non esiste la possibilità di dimostrare l'esistenza di Dio mediante la speculazione della ragione o prove empiriche.

Dio è reale solo per la persona malata o per la persona che usa Dio come mezzo per il controllo sociale. Kant è figlio dell'educazione violenta cristiana e questa educazione ha inciso talmente in profondo la sua struttura psico-emotiva che Kant non può vivere senza credere all'esistenza di Dio e della sua provvidenza.

Tutta la Critica alla Ragion Pura non è una critica all'esistenza di Dio. Al contrario, è un inno a Dio. Un'esaltazione di Dio mediante la dimostrazione che Dio non è conoscibile mediante la speculazione filosofica, ma può essere affermato solo come necessità soggettiva. Da qui si può dire che "l'Essere Assolutamente Necessario" di Kant non è un necessario fondamento per la realtà in essere, ma è il necessario fondamento per una psiche malata che anela all'assoluto dopo aver fallito nel suo quotidiano.

Con la Critica alla Ragion pura, Kant abbandona la sua ricerca scientifica e si dedica alla filosofia. Una filosofia metafisica. L'oggetto della ricerca di Kant è poter dimostrare l'esistenza di Dio contro tutte quelle ipotesi, fatte dai cristiani, che, di fatto, ad una attenta analisi non solo non dimostrano l'esistenza di Dio, ma dimostrano solo il desiderio frustrato del cristiano che ha fallito nella sua esistenza.

Nel 1783 Kant, per spiegare la "Critica alla Ragion pura", scrive "Prolegomena a qualsiasi Metafisica futura". In questo testo i temi della "Critica alla ragion pura" vengono specificati e resi più comprensibili per un pubblico più vasto.

Scrive Kant in "Prolegomena a qualsiasi metafisica futura" parlando della natura:

Questa domanda, che è il punto supremo che la filosofia trascendentale può toccare ed al quale essa deve esser condotta come al limite ed alla perfezione sua, contiene propriamente due questioni.
In primo luogo: come è possibile la natura in senso materiale, cioè secondo il dato dell'intuizione, come complesso dei fenomeni? Come sono in genere possibili lo spazio, il tempo e ciò che li riempie entrambi, il dato della sensazione? La risposta è: per via della costituzione della nostra sensibilità, per la quale essa viene affetta in un modo tutto suo particolare da oggetti che sono in se stessi ignoti ed assolutamente distinti da ogni fenomeno. Questa risposta è stata data nella Critica dall'Estetica trascendentale, qui nei Prolegomeni dalla soluzione della prima questione fondamentale.
In secondo luogo: come è possibile la natura in senso formale, ossia considerata come il complesso delle regole sotto cui devono stare tutti i fenomeni, quando debbano venir pensati come collegati in un'esperienza? La risposta non può essere altra che questa: essa è possibile solo per via della costituzione del nostro intelletto, per la quale tutte quelle rappresentazioni del senso vengono necessariamente riferite ad una coscienza; quest' attività dà origine a quella particolare forma di pensare che è il nostro pensare, e cioè il pensare per via di regole e per mezzo di queste all'esperienza, la quale deve essere assolutamente distinta dalla visione delle cose in se stesse'". Questa risposta è stata data nella Critica dalla Logica trascendentale, qui nei Prolegomeni dalla soluzione del secondo problema fondamentale.
Come poi siano possibili queste proprietà particolari del nostro senso o del nostro intelletto e della necessaria appercezione che sta a fondamento di esso e di ogni pensiero, non possiamo ulteriormente sapere né dire, perché esse ci sono a loro volta sempre necessarie ad ogni soluzione e ad ogni pensiero.
Molte sono le leggi della natura che noi possiamo conoscere solo per via di esperienza; ma la regolarità nel collegamento dei fenomeni, vale a dire la natura in genere, noi non possiamo conoscerla per alcuna esperienza, poiché 1'esperienza stessa presuppone certe leggi, le quali stanno a priori a fondamento della sua possibilità.
La possibilità dell'esperienza in genere è quindi anche la legge universale della natura e i princìpi della prima sono anche le leggi della seconda. Perché noi non conosciamo la natura altrimenti che come il complesso dei fenomeni, cioè delle rappresentazioni in noi e quindi non possiamo derivare la legge della sua connessione altronde che dai princìpi del collegamento delle rappresentazioni in noi, cioè dalle condizioni della loro unificazione necessaria in una coscienza, ciò che costituisce la possibilità dell'esperienza.
La stessa proposizione fondamentale che abbiamo svolto in tutta questa sezione del libro, e cioè che vi sono leggi generali della natura che possono venir conosciute a priori, conduce già di per sé all'altra proposizione: che la legislazione su- prema della natura deve giacere in noi stessi, nel nostro intelletto e che noi non dobbiamo chiedere le leggi universali della natura alla natura stessa per mezzo dell' esperienza, ma che al contrario dobbiamo derivar la natura, secondo la sua regolarità universale, unicamente dalle condizioni della possibilità dell'esperienza che giacciono nel nostro senso e nel nostro intelletto: perché del resto come sarebbe possibile conoscere a priori queste leggi, dal momento che esse sono non regole analiticamente derivate, ma vere estensioni sintetiche della conoscenza? Una simile concordanza necessaria dei princìpi dell'esperienza possibile con le leggi della possibilità della natura può solo derivare da due cause: o queste leggi vengono derivate dalla natura per via dell'esperienza o inversamente la natura viene genericamente derivata dalle leggi della possibilità dell'esperienza ed è una cosa sola con la semplice regolarità universale dell'esperienza stessa. La prima proposizione si contraddice perché le leggi universali della natura possono e debbono venir conosciute a priori (cioè indipendentemente da ogni esperienza) ed essere poste a fondamento di ogni uso empirico dell'intelletto: quindi non resta che la seconda.
Noi dobbiamo però distinguere le leggi empiriche della natura, che presuppongono sempre determinate percezioni, dalle leggi pure o universali della natura che, senza che stiano a fondamento particolari percezioni, contengono soltanto le condizioni della loro verificazione necessaria in un'esperienza; in riguardo a queste ultime, «natura» ed «esperienza possibile» sono assolutamente la stessa cosa, e poiché in quest'ultima la regolarità riposa sul collegamento necessario dei fenomeni in un'esperienza (senza del quale noi non potremmo conoscere affatto alcun oggetto del mondo sensibile), e quindi sulle leggi originarie dell'intelletto, così può parere a primo aspetto strano, ma è perfettamente giustificato quanto io dico delle leggi dell'intelletto, che: l'intelletto non attinge le sue leggi (a priori) dalla natura , anzi piuttosto le impone ad essa.
Io voglio spiegare questa proposizione in apparenza ardita per mezzo di un esempio che deve mostrare che le leggi che noi scopriamo negli oggetti dell'intuizione sensibile, soprattutto quando sono state riconosciute come necessarie, sono già da noi ritenute per leggi imposte dal nostro intelletto, sebbene siano in tutto il resto simili alle leggi naturali che noi attribuiamo all' esperienza.
Quando si considera le proprietà del circolo, per le quali questa figura riunisce in sé d'un tratto in una regola generale tante arbitrarie determinazioni dello spazio, non si può fare a meno di attribuire a questo ente geometrico una natura, Così, per es., due linee che taglino se stesse e ad un tempo il circolo, in qualunque modo vengano tirate, si dividono sempre secondo una regola tale che il rettangolo avente per lati i due segmenti dell'una è uguale al rettangolo avente per lati i segmenti dell' altra. Ora io chiedo: «questa legge è nel circolo od è nell'intelletto?». Cioè, questa figura contiene la ragione di questa legge in se stessa, indipendentemente dall'intelletto od è l'intelletto che, dopo aver costruito secondo i suoi concetti (e cioè in base alla uguaglianza del raggio) la figura stessa, vi introduce nell'atto stesso la legge delle corde secantisi secondo la proporzione geometrica? E' facile vedere, se si va appresso alla dimostrazione di questa legge, che essa può solo venir derivata dalla condizione che l'intelletto ha posto a fondamento della costruzione di questa figura e cioè dell'uguaglianza del raggio. Se noi estendiamo ora la considerazione antecedente per esaminare più ampiamente l'unità delle molteplici proprietà delle figure geometriche sotto leggi comuni e consideriamo il circolo come una sezione conica che sta con le altre sezioni coniche sotto le stesse leggi fondamentali della costruzione geometrica, troviamo che tutte le corde che si tagliano nell'interno delle sezioni coniche, l'ellisse, la parabola e l'iperbole, si tagliano sempre in modo che i rettangoli costruiti sui loro segmenti, se anche non sono uguali, stanno tuttavia fra loro in rapporto costante. Se noi procediamo ancor oltre e cioè fino alle dottrine fondamentali dell'astronomia fisica, troviamo come una legge fisica, estesa a tutta la natura materiale, la legge dell'attrazione reciproca, secondo la quale l'attrazione diminuisce in ragione del quadrato della distanza dal centro di attrazione, come inversamente la superficie sferica, in cui l'attrazione si diffonde, si accresce nella stessa proporzione: ciò che sembra giacere nella natura delle cose e quindi viene anche di solito esposto come conoscibile a priori. Ora per quanto semplici siano le origini di questa legge, in quanto essa riposa unicamente sul rapporto delle superfici sferiche di raggio diverso, le conseguenze ne sono tanto rilevanti in riguardo alle molteplici armonie che essa introduce ed alla regolarità loro, che non soltanto tutte le orbite possibili dei corpi celesti escono dalle forme delle sezioni coniche, ma che nessun'altra legge dell'attrazione può venir pensata come conveniente ad un sistema cosmico all'infuori di quella, secondo la quale l'attrazione diminuisce col quadrato delle distanze.
Qui abbiamo un esempio di ciò che noi diciamo natura, di un ordine secondo leggi che il nostro intelletto conosce a priori, soprattutto dai princìpi generali della determinazione spaziale. Ora io chiedo: queste leggi generali sono nello spazio e l'intelletto le apprende solo col cercar di penetrare il ricco contenuto ideale dello spazio, o non sono piuttosto nell'intelletto e nel modo con cui questo determina lo spazio secondo le leggi dell'unità sintetica, donde procedono tutti i suoi concetti? Lo spazio è qualcosa di così uniforme e, in riguardo a tutte le proprietà particolari, di così indeterminato, che certo nessuno vorrà cercare in esso una sorgente di leggi naturali. Per contro ciò che determina lo spazio nella figura circolare, nelle figure del cono e della sfera è l'intelletto, in quanto contiene in sé il fondamento della sintesi che li costituisce. Quella pura forma universale della intuizione, che dicesi spazio, è quindi bene il substrato di tutte le intuizioni determinabili poi in oggetti particolari e contiene certo in sé la condizione della possibilità e molteplicità di questi ultimi; ma l'unità degli oggetti è determinata in fine solo dall'intelletto secondo le condizioni inerenti alla sua propria natura: così l'intelletto è la sorgente dell'ordine universale della natura, in quanto abbraccia tutti i fenomeni sotto le sue proprie leggi e per questo mezzo primamente costituisce a priori (secondo la forma) l'esperienza, per effetto di che tutto quanto viene conosciuto per via di esperienza è necessariamente soggetto alle leggi dell'intelletto. Perché noi non abbiamo da fare con la natura delle cose in se stesse, che è indipendente dalle condizioni della nostra sensibilità come del nostro intelletto, ma con la natura come oggetto di esperienza possibile; ed allora si comprende come l'intelletto nostro, nell'atto stesso che rende l'esperienza possibile, faccia sì che il complesso dei dati sensibili o non sia affatto oggetto di esperienza, o sia natura.

Immanuel Kant, Prolegomeni ad ogni metafisica futura, Rusconi, 1995, p. 153 – 161

La soluzione tentata da Kant per spiegare le idee pure è fallimentare. Kant si rende conto che esistono delle "idee" che non sono spiegabili con l'immediata esperienza, ma non sapeva che l'esperienza non nasce da zero in ogni nuovo nato, ma il nuovo nato si porta appresso l'esperienza di tutte le generazioni che lo hanno preceduto sotto forma di "potere di adattamento soggettivo alla realtà che incontra".

Il fallimento kantiano non è prodotto dalla non conoscenza degli elementi che conducono alla manifestazione di quelle che lui considera "idee pure", ma nel fatto di voler separare la capacità di percezione del mondo degli uomini dall'esperienza di corpi che quel mondo abitano.

L'idealismo come l'illuminismo diventano la negazione dell'uomo che abita il mondo e, in questo suo abitare il mondo, accumula esperienza che si trasforma in stimolo adattativo per le generazioni che seguono la sua. La volontà di Kant di volere che l'uomo nasca come una "tabula rasa" e che solo l'esperienza, solo l'esperienza dell'adulto, è in grado di formare delle idee perché le altre idee, quelle che lui vuole attribuire all'intelletto, non apparterrebbero al singolo individuo, ma ad una sorta di "proprietà di Dio" che le immette nell'intelletto umano è l'atto con cui Kant nega all'uomo il potere divino con cui abita il mondo.

A Kant non avrebbe dovuto sfuggire che l'uomo è la natura e che la natura non è tale se non riferita all'uomo. Non tanto perché l'uomo sia un soggetto speciale della natura (tanto meno padrone della stessa), ma perché noi parliamo della natura partendo dal fatto che siamo uomini e noi, in quanto specie umana, non siamo in grado di pensare la natura se non partendo dalla nostro essere una specie della natura. Ma se io, questa operazione la faccio con tutte le specie, e tolgo dalla natura tutte le specie animali e vegetali (e le altre che non nomino) la natura non è. Sono i soggetti della natura che fanno la natura; non è la natura che fa i soggetti della natura. Possiamo dire che la natura regola gli equilibri fra i soggetti della natura, ma la natura è i soggetti della natura.

Per capire la natura Kant avrebbe dovuto vivere nella natura, abitarla, allora avrebbe pensato come un uomo che abita la natura e soddisfa i propri bisogni mediante il suo abitare la natura. Al contrario, Kant si è separato dal mondo in un'affannosa ricerca di "Dio" e ha dimenticato la materialità attraverso la quale si costruisce l'esperienza e tutto ciò che provenendo dall'esperienza delle generazioni passate ha finito per trasformarsi in meccanismi che permettono alla singola persona, come ad ogni singolo essere di ogni singola specie della natura, di adattarsi alle condizioni che incontra nascendo.

In questo c'è tutto il fallimento dell'"idea pura" di Kant.

Nel 1784 Kant scrive "Risposta alla domanda: cos'è l'illuminismo?" A questa domanda Kant risponde che l'illuminismo è "L'uscita dell'uomo da uno stato di prostrazione da lui stesso dovuta."

Nel 1785 Kant pubblica "Fondazione della metafisica dei Costumi". In questo libro tratta il problema della morale in termini popolari. Pubblica "Sui vulcani della luna" e si interessa di difendere il diritto d'autore "Sull'illegalità della contraffazione dei libri". Oltre a scritti minori.

Nel 1786 Kant scrive "Principi metafisici della scienza della natura". Secondo Kant la metafisica legittima sarebbe la fisica nei suoi "fondamenti apriori" legata alla "Critica della ragion pura".

Nel 1787 Kant pubblica una seconda edizione della "Critica alla ragion pura" rivedendo parecchie parti della prima edizione. La seconda edizione risulterà molto trasformata rispetto alla prima edizione.

Nel 1788 Kant scrive "Critica della ragione pratica" che integra la "Critica alla ragion pura" ed è la seconda critica Kantiana. In questa critica Kant concentra molto il suo discorso sulla religione, ma ciò che a noi di questa biografia interessa particolarmente è l'uso che Kant fa del concetto di Dio nella società e in riferimento all'uomo.

Scrive Kant:

Nella precedente analisi, la legge morale ha portato al compito pratico, che è prescritto meramente dalla ragione pura senza nessun intervento di moventi sensibili, ossia il compito della necessaria completezza della parte prima e principale del sommo bene, della moralità, e, poiché tale compito può essere pienamente assolto solo in un'eternità, al postulato dell'immortalità. Appunto questa legge deve anche condurre - disinteressatamente proprio come prima, grazie alla mera, disinteressata ragione - alla possibilità del secondo elemento del sommo bene, ossia alla felicità adeguata a quella moralità, vale a dire al presupposto dell'esistenza di una causa adeguata a tale effetto, deve cioè postulare l'esistenza [Existenz] di Dio in quanto necessaria per la possibilità del sommo bene (il quale oggetto della nostra volontà è necessariamente legato con la legislazione morale della ragione pura). Intendiamo presentare questa connessione in maniera convincente. Felicità è lo stato di un essere razionale nel mondo al quale, nella sua esistenza intera, tutto vada secondo il suo desiderio e volere, e dunque essa si basa sull'accordo della natura con il suo scopo intero, e insieme con il motivo determinante essenziale della sua volontà. Ora la legge morale, quale legge della libertà, comanda mediante motivi determinanti che devono [sollen] essere del tutto indipendenti dalla natura e dal suo accordo con la nostra facoltà di desiderare (quali moventi); però l'ente razionale che agisce nel mondo non è insieme causa del mondo e della natura stessa. Dunque nella legge morale non c'è il benché minimo fondamento per una connessione necessaria fra la moralità e la proporzionata felicità di un ente che appartiene al mondo, quale sua parte, e quindi ne dipende, un ente che proprio per questo non può, con la sua volontà, essere causa di questa natura, né può, per quanto concerne la propria felicità, farla concordare interamente coi suoi propri Principi pratici, con le sue proprie forze. Nondimeno nel compito pratico della ragione pura, ossia nell'impegno necessario in vista del sommo bene, siffatta connessione è postulata come necessaria: noi abbiamo il dovere di [sollen] cercare di promuovere il sommo bene (il quale dunque deve necessariamente [muss] essere possibile). Dunque è postulata anche l'esistenza di una causa della natura tutta che sia diversa dalla natura stessa, e che contenga il fondamento di tale connessione, ossia della precisa concordanza della felicità e della moralità. Ma questa causa suprema deve [soll] contenere il fondamento della coincidenza della natura non solo, con una legge della volontà degli enti razionali, ma con la rappresentazione di questa legge, in quanto essi ne facciano il supremo motivo determinante della volontà, dunque deve concordare non solo con i (buoni) costumi quanto alla forma, ma anche con la loro moralità quale loro movente, ossia con la loro convinzione morale. Dunque il sommo bene nel mondo è solo possibile in quanto si assuma una causa suprema della natura che abbia una causalità conforme alla convinzione morale. Ora un ente che sia capace di azioni conformi alla rappresentazione di leggi è un'intelligenza [Intelligenz] (ente razionale), e la causalità di tale ente secondo siffatta rappresentazione delle leggi è la sua volontà.
Dunque la causa suprema della natura, in quanto debba essere presupposta per il sommo bene, è un ente che, con l'intelletto e la volontà, è la causa (quindi l'autore) della natura, ossia Dio. Di conseguenza il postulato della possibilità [Moglikcheit] del sommo bene derivato (del mondo migliore) è insieme il postulato della realtà (in atto) [Wirklichkeit] di un sommo bene originario, ossia dell'esistenza [Existenz] di Dio. Ora è nostro dovere promuovere il sommo bene, e quindi noi non siamo solo autorizzati a presupporre la possibilità di tale bene sommo, dobbiamo presupporla, in quanto si tratta di un bisogno, nel senso di una necessità legata col dovere; e poiché ciò ha luogo solo a condizione dell'esistenza di Dio, lega indisgiungibilmente il presupposto di questo con il dovere, ossia è moralmente necessario assumere l'esistenza di Dio.
Qui si deve notare bene che siffatta necessità morale è soggettiva, ossia è un bisogno, e non è obiettiva, e cioè un dovere; poiché non ci può essere affatto il dovere di ammettere l'esistenza di una cosa (giacché questo concerne meramente l'uso teoretico della ragione). E non si intende nemmeno che l'assunzione dell'esistenza di Dio sia necessaria per stabilire un fondamento di ogni obbligatorietà in genere (poiché tale fondamento poggia soltanto sull'autonomia della ragione stessa, come è stato sufficientemente dimostrato). Qui al dovere appartiene solo il lavoro assiduo per produrre e promuovere il sommo bene nel mondo, di cui può dunque venire postulata la possibilità, che peraltro la nostra ragione ritiene pensabile esclusivamente a condizione di presupporre una somma intelligenza, l'assunzione della cui esistenza è dunque legata con la consapevolezza del nostro dovere, sebbene questa stessa ammissione pertenga alla ragione teoretica, rispetto alla quale soltanto può essere detta «ipotesi» - se considerata quale fondamento di spiegazione -, mentre, relativamente all'intelligibilità [Verstandlichkeit] di un oggetto propostoci dalla legge morale (del sommo bene), e quindi di un bisogno con finalità pratica, può chiamarsi «fede», anzi «fede razionale pura», poiché la fonte da cui scaturisce è meramente la ragione pura (quanto al suo uso sia teoretico che pratico).
Questa deduzione consente ora di capire perché le scuole greche non potessero mai approdare alla soluzione del loro problema della possibilità pratica del sommo bene: perché si limitavano sempre a fare, della regola dell'uso che la volontà dell'uomo fa della sua libertà, il fondamento unico e di per sé sufficiente di essa, senza ritenere di abbisognare, all'uopo, dell'esistenza di Dio. Procedevano sì correttamente, stabilendo il principio dei (buoni) costumi di per sé stesso, indipendentemente da tale postulato, in base al rapporto della sola ragione con la volontà e facendo così di esso la suprema condizione pratica del sommo bene; ma quello non era perciò la condizione intera della possibilità di questo. Gli epicurei avevano bensì assunto un supremo principio dell'etica che era falsissimo, quello della felicità, nonché spacciata per legge una massima della scelta arbitraria, secondo le inclinazioni individuali; ma il loro procedimento era abbastanza coerente nel senso che svilivano parimenti il loro bene sommo, proporzionalmente alla volgarità del loro Principio, né si attendevano una felicità maggiore di quella che può procacciare l'umana prudenza (che comprende anche temperanza e moderazione delle inclinazioni), e che, come è noto, deve riuscire abbastanza misera, e molto diversa a seconda delle circostanze; senza contare le eccezioni che le loro massime dovevano necessariamente concedere, e che le rendevano incapaci di fungere da leggi. Invece gli stoici avevano scelto correttamente il loro supremo principio pratico, la virtù, come condizione del sommo bene, ma, ritenendo che quel suo grado che occorre per la pura sua legge fosse pienamente conseguibile in questa vita, non soltanto dilatavano, col nome di «savio» [Weise], la facoltà morale dell'uomo oltre tutti i limiti della sua natura, e assumevano qualcosa che contraddice a ogni conoscenza dell'uomo, ma, soprattutto, non volevano affatto riconoscere la seconda componente del sommo bene, la felicità, quale particolare oggetto della facoltà di desiderare umana, anzi, rendevano il loro savio - simile a una divinità nella consapevolezza dell'eccellenza della propria persona - del tutto indipendente dalla natura (rispetto alla propria soddisfazione), esponendolo, bensì, ma non assoggettandolo ai mal(ann)i [Ube/] della vita (mentre lo presentavano quale immune dal male [Boses]); e così omettevano realmente il secondo elemento del sommo bene, la propria felicità, in quanto lo riponevano meramente nell'agire e nella soddisfazione per il proprio valore personale, e dunque lo includevano nella consapevolezza della propria mentalità morale - laddove la voce della loro propria natura avrebbe potuto confutarli a sufficienza.
La dottrina del cristianesimo; anche se non lo si considera ancora quale dottrina religiosa, offre, a questo proposito, un concetto del sommo bene (del regno di Dio) che è l'unico a soddisfare la più rigorosa esigenza della ragione pratica. La legge morale è santa (intransigente) ed esige santità dei costumi, anche se ogni perfezione morale a cui l'uomo possa approdare è sempre soltanto virtù, ossia convinzione conforme alla legge, per rispetto verso la legge, quindi è coscienza di una continua propensione a trasgredire, o, almeno, di impurità, ossia di molti moventi spuri (non morali) che si mescolano all'osservanza della legge, quindi è una stima di sé congiunta a umiltà, e dunque, rispetto alla santità che esige la legge cristiana, non lascia alla creatura se non un progresso all'infinito, ma proprio per questo l'autorizza anche a sperare in una propria sopravvivenza protratta all'infinito. Il valore di una convinzione, di un carattere pienamente adeguato alla legge morale è infinito: poiché ogni possibile felicità, nel giudizio di un suo dispensatore savio e onnipotente, non ha altra limitazione che la mancanza dell'adeguazione degli enti razionali alloro dovere.
Ma la legge morale di per sé non promette affatto la felicità; infatti quest'ultima non è necessariamente connessa con l'osservanza di essa, secondo i concetti di un ordine naturale in genere. Ora la dottrina morale cristiana supplisce a questa mancanza (della componente seconda e indispensabile del sommo bene) presentando il mondo dove enti razionali si consacrano [sich weihen] alla legge morale con tutta l'anima come un regno di Dio, dove natura e (buoni) costumi approdano a un'armonia estranea a ciascuno dei due termini singolarmente preso, per opera di un santo autore che rende possibile il sommo bene derivato. La santità dei costumi è il canone che viene loro indicato già in questa vita, ma il bene(ssere) proporzionato, la beatitudine, è rappresentata come conseguibile solo in un'eternità; poiché la prima deve essere sempre e necessariamente l'archetipo del loro comportamento in ogni condizione, e il progresso nella sua direzione è possibile e necessario già in questa vita, ma la seconda, col nome di felicità, non può essere affatto raggiunta in questo mondo (per quanto dipende da noi), e quindi è fatta semplicemente oggetto di speranza. Con tutto ciò, il principio cristiano della morale non è infine teologico (dunque eteronomia), bensì autonomia della ragione pura pratica in se stessa, poiché della conoscenza di Dio e della sua volontà non fa il fondamento di tali leggi, ma solo dell'approdo al sommo bene alla condizione di osservarle, né ripone l'autentico movente per ubbidire alle leggi nelle conseguenze desiderate di tale ubbidienza, bensì nella sola rappresentazione del dovere, nella cui osservanza fedele soltanto consiste tutta la dignità onde acquisire tali conseguenze.

Immanuel Kant, Critica della ragion pratica, BUR, 1992, p. 409 – 421.

Nella "Critica alla ragion pratica" Kant sottolinea l'uso sociale di Dio e della superiorità del cristianesimo rispetto alle "scuole greche" nel togliere la felicità all'uomo per ridurlo all'obbedienza nell'attesa del regno di Dio.

In Kant Dio diventa uno strumento per privare l'uomo della felicità e costringerlo ad aspettare la morte agognando la promessa di eternità e del "regno di Dio". La promessa che distrugge l'uomo è il capolavoro dei cristiani ed è la superiorità del cristianesimo rispetto alle scuole di filosofia della Grecia.

Kant si preoccupa di insultare Epicuro perché, se l'uomo cerca la felicità non è più un oggetto di obbedienza da sottomettere nell'attesa del "regno di Dio". In questo attacco ad Epicuro, Kant rivela qual è il suo concetto di felicità: "Fare tutto quello che si vuole". Ma questo è il concetto di felicità del Dio dei cristiani che è felice mentre macella gli uomini. Il Dio dei cristiani fa quello che vuole, ma il concetto di felicità di Epicuro non era "fare quello che si vuole", ma quello di vivere saggiamente nelle relazioni fra sé e il mondo.

Dio è il "sommo bene", il "sommo bene" davanti al quale gli uomini devono prostrarsi e a cui gli uomini devono tendere. Scompare l'uomo, il suo desiderio, appare Dio che domina e che diventa "ideale" di dominio dell'uomo sull'uomo.

E' profondamente cristiana, nel significato più deteriore, il concetto di Kant di leggere il mondo fatto di leggi. Leggi della natura, leggi di Dio ecc. Anziché vedere le opportunità del mondo, Kant vede solo leggi, come " presentando il mondo dove enti razionali si consacrano alla legge morale con tutta l'anima come un regno di Dio".

Nel 1790 Kant pubblica "La Critica del giudizio", la terza critica, in relazione all'estetica e alla teologia. In questa critica c'è la dimostrazione dei limiti che Kant poneva allo sviluppo della ragione umana intesa come sviluppo della descrizione del mondo mediante la ricerca scientifica. Kant affermava che "è assurdo sperare che un altro Newton sorgerà in futuro che ci renderà comprensibile la produzione di un filo d'erba secondo le leggi naturali".

Scrive Kant nella "Critica del giudizio" a proposito dello scopo finale dell'esistenza del mondo:

Scopo finale è quello che non ne richiede alcun altro come condizione della sua possibilità.
Se per spiegare la finalità della natura non si ammette altro principio che il suo semplice meccanismo, non si può domandare per qual fine le cose esistono nel mondo; perché allora, in questo sistema idealistico, non si tratta che della possibilità fisica delle cose (che sarebbe insensato e vano pensare come fini): si potrebbe spiegare questa forma delle cose col caso, o con la cieca necessità, ma in tutti i due modi quella domanda sarebbe vana. Ma, se ammettiamo il legame finalistico nel mondo come reale, e con esso una specie particolare di causalità, cioè quella d'una causa che agisce intenziona1mente, non possiamo fermarci alla questione di sapere per qual fine le cose del mondo (gli esseri organizzati) hanno questa o quella forma, sono state messe tra loro in questo o quel rapporto dalla natura; quando si è pensato una volta un intelletto, che deve esser considerato come la causa della possibilità di tali forme, quali si trovano effettivamente nelle cose, si deve anche domandare quale principio oggettivo abbia potuto determinare questa intelligenza produttrice ad un effetto di questa specie; principio che è poi lo scopo finale per cui queste cose esistono.
Ho detto avanti che lo scopo finale non è tale che la natura sia sufficiente ad effettuarlo e a produrlo conformemente alla sua idea, perché è incondizionato. Perché difatti non v'è nulla in natura (in quanto essere sensibile) di cui il principio determinante, che si trova nella natura stessa, non sia a sua volta condizionato; e questo vale non soltanto per la natura esterna (materiale), ma anche per la natura interna (pensante), in quanto, s'intende, considero in me soltanto ciò che è natura. Ma una cosa che deve esistere necessariamente, in virtù della sua natura oggettiva, come lo scopo finale d'una causa intelligente, dev'esser tale che, nell'ordine dei fini, non dipenda da nessun'altra condizione che non sia semplicemente la sua idea.
Ora noi non abbiamo nel mondo se non un'unica specie di esseri, la cui causalità sia teleologica, cioè diretta a scopi, e tali tuttavia che si rappresentino la legge secondo cui debbono determinare i propri fini, come posta incondizionatamente da loro stessi e indipendentemente dalle condizioni della natura, eppure come in se stessa necessaria. L'essere di questa specie è l'uomo, ma considerato come noumeno; è l'unico essere della natura in cui possiamo riconoscere, come suo carattere proprio, una facoltà soprasensibile (la libertà) ed anche la legge della causalità e l'oggetto di questa che egli si può proporre come fine supremo (il sommo bene nel mondo).
Ora, dell'uomo (e così di ogni essere ragionevole del mondo), in quanto essere morale, non si può domandare ancora per qual fine (quem in finem) esiste. La sua esistenza ha in se stessa lo scopo supremo, al quale, per quanto è in sua facoltà, egli può sottomettere l'intera natura, o, almeno, rispetto al quale non c'è alcuna influenza contraria della natura, a cui l'uomo debba ritenersi soggetto. -·Ora, se le cose del mondo, in quanto esseri condizionati relativamente alla loro esistenza, abbisognano di una causa suprema che agisca secondo fini, l'uomo sarà lo scopo finale della creazione: perché senza di esso la catena dei fini subordinati l'uno all'altro non avrebbe un vero principio, e solamente nell'uomo, ma nell'uomo in quanto soggetto della moralità, si può trovare questa legislazione incondizionata relativamente ai fini, che rende lui solo capace di essere uno scopo finale, cui la natura sia teleologicamente subordinata.

Immanuel Kant, Critica del giudizio, Edizione CDE, 1990, p. 311 – 313

Il fine dell'esistenza del mondo, per Kant, è l'uomo. L'uomo per Kant è l'unica specie incondizionata. E' il padrone del mondo e della natura in quanto scopo e fine della natura per volontà di Dio.

Questo delirio di onnipotenza kantiano è l'adesione al delirio di onnipotenza della Genesi nella bibbia secondo cui l'uomo è il padrone del mondo ad imitazione di Dio che è il padrone dell'uomo. Kant ribadisce tutte le idee con cui il cristianesimo esprime il suo odio per il mondo e la sua sottomissione a Dio.

L'uomo, secondo Kant, è lo scopo finale della creazione del mondo fatta da Dio perché, dice Kant, senza l'uomo la catena dei "fini subordinati" non avrebbe un vero principio (Dio).

Nel 1792 il re costituisce una commissione di censura per far fronte alla diffusione delle idee che hanno portato alla Rivoluzione Francese. Nel 1792 Kant tenta di pubblicare sulla rivista Berlinische Monatsschrift uno dei quattro pezzi che costituivano la "Religione nei limiti della ragione". La censura ne bloccò la pubblicazione. Allora Kant, anziché pubblicare su una rivista, mise assieme le quattro parti e le pubblicò in un unico libro che, come tale, non doveva sottostare alla censura. Questa iniziativa gli procurò un rimprovero del re. Nel 1794 pubblicò una seconda edizione de "La religione nei limiti della ragione" e il censore si procurò un ordine reale che vietava a Kant di parlare di religione. Nella prefazione al The Conflict of the Faculty, Kant rispose alla censura del re.

Il libro "La religione nei limiti della semplice ragione", pur essendo un'esaltazione del cristianesimo, è fortemente critico contro il clericalismo. In particolare la quarta parte titolata "Il culto vero e il culto falso sotto il dominio del principio buono, ovvero religione e clericalismo".

Scrive Kant in "La religione nei limiti della semplice ragione":

L'idea personificata del principio buono

Un mondo può essere l'oggetto del decreto divino e il fine della creazione solo per opera dell'umanità (dell'essere razionale mondano in generale) in tutta la sua perfezione morale: è questa la condizione primaria che, nella volontà dell'Essere supremo, ha come conseguenza diretta la felicità.
Quest'uomo, che è l'unico gradito a Dio, «è in Lui dall'eternità», e la sua idea procede dall'Essere stesso di Dio. Egli, pertanto, non è una cosa creata, ma è il Figlio unigenito di Dio, è «il Verbo (il fiat), per mezzo del quale esistono tutte le altre cose, e senza il quale nulla esisterebbe di ciò che è stato fatto» (perché tutte le cose sono state fatte in virtù di lui, cioè dell'essere razionale mondano il quale può essere pensato secondo la sua destinazione morale). Egli «è il riflesso della sua gloria»: «in lui Dio ha amato il mondo», e solo in lui noi, accogliendone le intenzioni morali, possiamo sperare «di diventare figli di Dio», ecc.
Ora, elevarci fino a questo ideale di perfezione morale, cioè fino al modello dell'intenzione morale in tutta la sua purezza, è dovere umano universale, e la forza necessaria per compierlo può appunto esserci conferita anche da questa idea che la ragione ci presenta come modello da imitare. Ma proprio perché non siamo noi gli autori di questa idea - mentre è stata essa a insediarsi nell'uomo, e non ci è dato concepire come la natura umana sia stata anche soltanto capace di riceverla -, ci si può esprimere meglio così: Quel modello è sceso a noi dal cielo, esso ha assunto la natura umana (è infatti più arduo concepire in che modo l' uomo per natura cattivo possa spogliarsi da se stesso del Male ed e levarsi all'ideale della santità, piuttosto che pensare l'ideale della perfezione morale nell'atto di assumere la natura umana - che di per sé non è cattiva - e di abbassarsi fino a essa).
Questa unione con noi può dunque essere considerata certamente come uno stato di umiliazione del Figlio di Dio, ma solo se ci rappresentiamo come modello per noi quest'uomo divinamente ispirato che, benché santo in sé e, in quanto tale, non costretto a patire sofferenze, accetta tuttavia di assumerle su di sé nella misura più grande, al fine di promuovere il Bene del mondo. L'uomo, invece, non è mai esente da colpe, e, anche nel caso in cui abbia adottato la medesima intenzione di quell'ideale, può tuttavia ritenersi responsabile di tutte le sofferenze che lo colpiscono, qualunque sia la loro provenienza: egli deve quindi considerarsi indegno dell'unione della propria intenzione con tale idea, sebbene quest'ultima gli serva da modello.
Ora, l'ideale dell'umanità gradita a Dio (quindi l'ideale della perfezione morale, quale essa è possibile a un essere mondano dipendente da bisogni e inclinazioni) noi possiamo pensarlo unicamente in virtù dell'idea di un uomo che sia disposto non soltanto a compiere da solo tutti quanti i doveri umani e, a un tempo, a diffondere il Bene con l'insegnamento e con l'esempio presso la più vasta cerchia possibile di uomini intorno a sé; egli, inoltre, sebbene insidiato dalle più grandi lusinghe e tentazioni, dev'essere disposto anche a sobbarcarsi tutte le sofferenze e i dolori, fino alla morte più ignominiosa, per il Bene del mondo (anche per il Bene dei suoi nemici).
Infatti, l'uomo può rendersi conto del grado e dell'intensità di un'intenzione morale solo quando se la rappresenta in lotta contro ciò che la ostacola, e tuttavia trionfante anche sugli attacchi più efferati.
Con la fede pratica in questo Figlio di Dio (rappresentato appunto come colui che ha assunto la natura umana), l'uomo può sperare di diventare gradito a Dio (quindi anche beato) - gradito a Dio, cioè: consapevole di un'intenzione morale che, in mezzo a tali tentazioni e sofferenze (assunte a pietra di paragone di quell'idea), consente all'uomo di credere e di porre in se stesso la fondata fiducia di restare immutabilmente attaccato al modello dell'umanità e di seguirne fedelmente l'esempio: solo un uomo del genere è autorizzato a considerarsi oggetto non indegno della compiacenza divina.

Immanuel Kant, La religione nei limiti della ragione, Rusconi, 1996, p.157 – 161.

La fede nel cristianesimo si fa sempre più strada in Kant. La salvezza proviene da Gesù. Ma quale salvezza? La salvezza dalla disperazione che ora lo attanaglia.

Il suo nemico è il clericalismo. La gerarchia delle chiese cristiane che controllano la sua fede. Le chiese cristiane che attraverso il re gli hanno imposto di non parlare di religione.

La perfezione morale come obbedienza che rende l'uomo gradito a Dio, diventa l'ideale kantiano. Ma quale gradimento se la caratteristica del Dio cristiano è quella di non accettare ricatti fatti dai buoni che, attenendosi alla legge, pretendono di avere da lui un premio?

L'uomo per Kant non è esente da colpe. E' un peccatore. Un soggetto da punire, umiliare, costringere alla sofferenza affinché anch'egli aspiri alla redenzione. E mentre l'uomo viene costretto alla sofferenza, la fede del "figlio di Dio" salva l'uomo offrendogli un modello, un ideale da perseguire per raggiungere la benevolenza di Dio.

Alla fine, in questo si riduce tutta la filosofia di Kant.

Nel 1793 esce «Questo può essere corretto in teoria, ma non vale per la pratica» (contro Garve).

Fra il 1794 e il 1796 Kant pubblica "Per la pace perpetua".

Nel 1797 Kant pubblica in due volumi "Metafisica dei costumi". Nella prima parte Kant tratta della legislazione e dei doveri. Nella seconda parte vengono ritoccati alcuni principi della "Critica della ragione pratica".

Nel 1798 Kant pubblica "Antropologia dal punto di vista pragmatico". Divisa in due parti: "Didattica antropologica" e "caratterizzazione antropologica". Inoltre, viene pubblicato anche "Conflitto delle facoltà".

Nel 1797 Kant pubblica la "Metafisica della morale" che rappresenta il suo secondo trattato relativo alla filosofia morale.

Nel 1798 Kant non può più tenere i corsi universitari per la degenerazione mentale che lo stava uccidendo. Si dimette dall'università e gradatamente la degenerazione mentale si impadronisce del suo corpo.

Nel 1799 Kant si oppose agli sviluppi della sua filosofia, imposta nella sua epoca, in particolare da Fichte, che stava sfociando nell'idealismo tedesco.

Negli ultimi mesi di vita Kant aveva perduto la memoria. Non era più in grado di parlare e morì il 12 febbraio 1804.

 

Marghera, 18 agosto 2019

 

 

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Claudio Simeoni

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Apprendista Stregone

Guardiano dell'Anticristo

Membro fondatore
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