Pietro Pomponazzi

Le biografie dei giocatori - trentaduesima biografia

Capitolo 115

La partita di calcio mondiale fra i filosofi

Claudio Simeoni

 

Le biografie dei filosofi che partecipano alla partita di calcio

 

La biografia di Pietro Pomponazzi

 

Pietro Pomponazzi nasce il 16 settembre 1462 a Mantova.

Nel 1484 si iscrive all'università di Padova e qualche anno dopo viene chiamato ad insegnare.

Di Pietro Pomponazzi sappiamo, con una certa sicurezza che ancora giovanissimo, nel 1488 fu chiamato a Padova per gestire la cattedra di filosofia in concorrenza con Alessandro Achillini. Secondo quanto scrive Giovio, Alessandro Achillini sarebbe stato un suo maestro. Sembra che nell'insegnamento Pietro Pomponazzi sapesse attrarre molti studenti affascinati dalla chiarezza espositiva del giovane filosofo. (fonte Storia della Filosofia Italiana di Eugenio Garin p. 9).

E' Eugenio Garin che di Pomponazzi ci dice:

"Pomponazzi insiste in più luoghi sul carattere solitario e ribelle del vero filosofo; ribelle fra gli uomini comuni, che sono piuttosto animali che persone, o maschere e finzioni dinanzi a divinità terrene; "i filosofi sono come Dèi terreni, tanto lontano dagli altri tutti come uomini veri da figure dipinte". Ribelle rispetto al filosofare medesimo, quando questo divenga luogo comune, banale ripetizione di motivi accolti passivamente; poiché filosofare non è ripetere le prole del filosofo (Aristotele) o del commentatore (Averroè), ma è ricercare il vero senza rispetto alcuno per autorità alcuna."

Eugenio Garin, Storia della filosofia italiana (IIvolume), ed. CDE, 1989, p. 16

Pietro Pomponazzi insegna all'università di Padova dal 1488 al 1496 succedendo nella cattedra al suo insegnante Nicoletto Vernia un "averrorista". Il programma di insegnamento prevedeva di illustrare i libri naturali di Aristotele e i commenti di Averroè. La domenica c'era il commento dei Meteorologica e i Parva naturalia.

Nel 1492 gli viene assegnata la cattedra di filosofia ordinaria "secundo loco".

Nel 1495 ottiene il dottorato in medicina e la cattedra di filosofia ordinaria "primo loco". Ottiene la cattedra in concorrenza con Agostino Nifo che sarà il suo nemico nel dibattito sull'immortalità dell'anima.

Nel 1496 Pietro Pomponazzi lascia Padova per recarsi da Alberto Pio di Carpi. Lì approfondisce le teorie di Richard Swineshead (il Calculator). In conflitto con il fratello, Alberto lascia la città e si reca a Ferrara dove rimarrà con tutta la corte e con Pietro Pomponazzi. Pietro Pomponazzi rimarrà a Ferrara fino al 1499.

Nel 1497 Pietro Pomponazzi si sposa a Padova con Cornelia Dondi. Dal matrimonio nasceranno due figlie, Lucia e Ippolita.

Nel 1499 a Padova muore Nicoletto Vernia suo docente. Pietro Pomponazzi viene chiamato a Padova a coprire la cattedra di Vernia. A Padova insegnerà per dieci anni di seguito. Molte delle lezioni padovane ci sono giunte attraverso gli appunti degli allievi. A Padova dovrà affrontare la concorrenza, e spesso l'ostilità, di altri docenti come, oltre al Nifo, Achillini, Fracanzano e Baccilieri. Le lezioni di Pietro Pomponazzi hanno un notevole successo e nel 1504 il senato sottrae Pietro Pomponazzi alle valutazioni degli studenti (ballottazione).

Nel 1507 muore la moglie di Pietro Pomponazzi, Cornelia Dondi. Pietro Pomponazzi, con due figlie in giovane età, si risposa con Lodovica Montagnana. La figlia del nobile Pietro Montagnana. La nuova moglie di Pietro Pomponazzi morirà molto presto senza figli.

Nel 1509 viene chiamato da Alfonso d'Este duca di Ferrara ad occupare una cattedra nell'università di Ferrara. Pietro Pomponazzi parte per Ferrara, ma vi resta solo un anno perché la guerra di Venezia con la lega di Cambrai costringe alla chiusura dello studio di Ferrara.

Nel 1510 Pietro Pomponazzi torna a Mantova per rimanervi per un anno.

Nel 1511 E' chiamato dall'università di Bologna in qualità di professore di filosofia e ricopre la cattedra ordinaria. In quest'anno morirà la moglie Lodovica.

Nel 1512 Pietro Pomponazzi inizia ad insegnare a Bologna e rimarrà a Bologna fino alla morte.

Nel 1514 chiede all'università di Bologna un aumento di stipendio. Non riceve nessuna risposta. Allora decide di accettare l'offerta fiorentina di una cattedra a Pisa. L'università di Bologna gli blocca i conti bancari e gli proibisce di portare via libri e mobilio. L'università di Bologna inizia le trattative per offrire la cattedra al Nifo.

Nel 1515, a quanto pare, si sposa per la terza volta con Adriana della Scrofa di Vicenza. La signora vivrà fino al 1537, cioè 10 anni dopo la morte di Pietro Pomponazzi. Sempre in quell'anno, Pietro Pomponazzi firma un nuovo contratto con l'università di Bologna che gli verserà 400 ducati all'anno per quattro anni.

Nel 1515 vengono pubblicati da Pietro Pomponazzi il "Tractatus de reactione" e "Quaestio de actioni reale".

Pomponazzi nel "Tractatus de reactione" commenta le forme e le teorie sulla trasmissione del calore in Aristotele, la meccanica, le resistenze, la corruzione dei corpi, l'aria. Mentre nel "Quaestio de actioni reale" parla dell'intervento delle "Intelligenze" sulla forma (materia) dove forma, fra l'altro, anche questa riflessione.

Scrive Pietro Pomponazzi:

4. La seconda questione è se dette Intelligenze, che agiscono per mezzo di tali specie, sia che si identifichino con esse sia che siano diverse, possano generare, corrompere e alterare immediatamente per mezzo di quelle specie. Ed è su tale questione che verte la nostra indagine. Algazel e Avicenna hanno ritenuto di dare una risposta positiva, ma a loro avviso le Intelligenze non agiscono necessariamente per mezzo dei corpi celesti e non sono di numero pari ai corpi celesti. Ma questa soluzione si oppone al parere di Aristotele, il quale crede che il numero delle Intelligenze sia pari al numero dei corpi celesti e che dalla stessa Intelligenza non possa derivare nient' altro che il moto locale dei corpi celesti, per mezzo dei quali sono generate e corrotte tutte queste cose inferiori. Come si evince a sufficienza sia dall'vnr Physicorum sia dal II De generatione Aristotele ha posto il cielo come nesso tra l'immateriale e il materiale, perché da un agente del tutto immobile non può provenire nulla se non per i l tramite di un moto eterno, altrimenti non ci sarebbe la molteplicità degli effetti, come egli stesso chiarisce nel II De generatione. Così per Aristotele anche se nelle Intelligenze ci sono le specie produttive delle cose, tuttavia esse per mezzo di tali specie non possono produrre immediatamente se non il moto, per il cui tramite si producono tanto le generazioni quanto le corruzioni e insomma tutte queste cose inferiori. La specie di Dio invece è immediatamente produttiva della sostanza, sebbene forse per i Peripatetici tale produzione non sia nuova. Né ci si deve meravigliare di questa conclusione, poiché Dio è l'autore di tutto l'essere e ciò non si può dire di nessun altro ente. E se qualcuno lo dice, sembra ammettere che ciascuna Intelligenza produca immediatamente la sostanza della propria orbita e che forse l'Intelligenza superiore produca immediatamente quella inferiore; quindi l'Intelligenza non ha solo il potere di produrre immediatamente il moto.
5. Se fosse vera l'opinione ascritta ad Avicenna, cioè che qualcosa, oltre Dio, possa creare; supposto che tale ente sussista realmente, si tratta comunque di un intermedio tra Dio e le Intelligenze; perché Dio produce senza presupporre alcun agente intermedio, né agisce in virtù di un altro, al contrario di ciò che accade nelle Intelligenze. Se invece può creare solo Dio, sia che abbia creato dall' eternità sia che abbia creato di recente, nessuna Intelligenza produce immediatamente la sostanza; e se si dice che la prima Intelligenza produce la seconda e la sua orbita lo si dice solo in quanto Dio, causando la seconda Intelligenza, presuppone la prima, cioè causa in primo luogo la prima Intelligenza. I Peripatetici ricorrono a tale ipotesi perché ritengono che tale ordine sia essenziale. E questo modo di produrre è simile a quello per cui si dice che il soggetto produce le affezioni, non perché le produce realmente, ma perché il soggetto, nella sua attività produttiva, produce naturalmente dapprima le passioni. Tali questioni, tuttavia, sono estranee al nostro proposito.

p. 877 e 879

Nel 1516 Pietro Pomponazzi pubblica il "Tractatus de immortalitate animae" a Bologna. Sarà il cuore della filosofia di Pomponazzi.

Nel 1517 il vescovo Antonio Fiandino di Mantova fa un sermone in chiesa contro il "Tractatus de immortalitate animae", ma quando Pietro Pomponazzi lo affronta a Bologna in un confronto diretto, il vescovo nega di averlo fatto. Intanto Nifo sta preparando uno scritto contro il "Tractatus de immortalitate animae". A Venezia i frati dominicani denunciano Pietro Pomponazzi come eretico al Patriarca Contarini. Il Patriarca, ricevuta la denuncia condanna Pietro Pomponazzi e la condanna viene ratificata dal senato veneziano che ordina il rogo del libro di Pietro Pomponazzi proibendone la vendita su tutto il territorio veneziano. Il libro viene consegnato al cardinale Pietro Bembo che nel libro non trova nessuna eresia. Ormai la guerra è iniziata e i frati dominicani di Bologna, pur non scrivendo nulla contro Pietro Pomponazzi, lo attaccano nei loro sermoni. Il dominicano Vincenzo Colzade e il suo allievo, Bartolomeo Spina, diventerà uno dei più feroci accusatori del trattato di Pomponazzi. Anche il seguace di Tommaso d'Aquino, Pietro Manna, muoverà critiche a Pietro Pomponazzi pur tenendo con lui un carteggio di corrispondenza.

Che cosa scrive Pietro Pomponazzi "Tractatus de immortalitate animae" che allarma alcuni settori inquisitoriali della chiesa cattolica?

Leggiamo alcune pagine:

13. Da tutte queste considerazioni bisogna ora dedurre la conclusione principale che avevamo in mente, cioè che l'anima umana è assolutamente materiale e rispetto ad alcunché immateriale. E in primo luogo procediamo con un sillogismo divisivo in questo modo: l'intelletto umano è immateriale e materiale, come risulta dalle argomentazioni precedenti; ma non partecipa di tali nature in misura uguale né è più immateriale che materiale, come si è provato nel capitolo precedente; quindi è più materiale che immateriale e così sarà in assoluto materiale e rispetto ad alcunché immateriale.
14. In secondo luogo, è essenziale all'intelletto pensare per immagini sensibili, come si è dimostrato e come si evince dalla definizione dell'anima come atto del corpo fisico organico, per- ciò in ogni sua operazione avrà bisogno di un organo; ma poiché pensa in questo modo, è necessariamente inseparabile; quindi l'intelletto umano è mortale. La proposizione minore è evidente sia perché Aristotele afferma: «se il pensare è immaginazione o non è senza immaginazione, non è possibile che l'anima si separi», sia perché, se fosse separabile, o non avrebbe un'operazione e così resterebbe in ozio, o l'avrebbe e così opererebbe senza immagine sensibile; e ciò è contro la maggiore dimostrata.
15. Lo stesso risultato è nuovamente confermato in questi termini: Aristotele non ha ammesso nessuna Intelligenza senza un corpo e nel XII della Metaphysical suppone che il numero delle Intelligenze corrisponda al numero delle orbite; quindi ancor meno ha potuto ammettere l'intelletto umano senza un corpo, essendo esso di gran lunga meno astratto dell'Intelligenza. Anzi, se il mondo è eterno, come ha supposto Aristotele, esiste in atto un numero infinitamente infinito di forme senza un corpo, e ciò ad Aristotele sembra ridicolo. Perciò per Aristotele l'anima umana è da definire assolutamente mortale. Ed essendo media tra ciò che è astratto in assoluto e ciò che immerso nella materia, partecipa in qualche modo della immortalità, come mostra la sua stessa operazione essenziale. Infatti, non dipende dal corpo come soggetto (in ciò si accorda con le Intelligenze e si differenzia dalle bestie) ed ha bisogno di un corpo come oggetto (in ciò si accorda con le bestie). Perciò è altresì mortale.

p. 991 e 993

E ancora:

19. Ma c'è un'altra opinione per la quale queste considerazioni sono deliri e affermazioni incompatibili con i principi della filosofia, come a titolo d'esempio dire che la stessa cosa che è 'questo individuo per sé sussistente' ed anche ciò per cui esiste quest'altro alcunché, come se avesse due modi di operare tanto disparati. Quel suo modo di essere separato non è dimostrato da nessun argomento e da nessuna esperienza, ma è postulato quasi solo arbitrariamente. Ed è arbitrario dire che ora ha le facoltà sensitive e vegetative, ora le abbandona; che pensa in un modo, se congiunta, e in un altro, se separata; che è congiunta per pochissimo tempo, separata per un tempo infinito, a meno che non fantastichiamo sulla trasmigrazione delle anime nei corpi; che essa ha avuto un inizio e non verrà mai meno; che ora si riveste di un corpo, ora si spoglia di esso, come racconta il popolino intorno alle lamie. Quando si separa dal corpo, cessa di essere attualmente atto del corpo, perciò o non è da nessuna parte o, se è da qualche parte, come vi è pervenuta? Per alterazione o per moto locale? Non per alterazione, come è manifesto, né per moto locale, perché nel VI Pbysicorum' si dice che l'indivisibile non può muoversi localmente. Se poi si dice che non è da nessuna parte, che cosa impedisce di ammettere, in accordo con Aristotele, anche l'esistenza di talune Intelligenze che non muovono le orbite? Si ammetterà dunque una moltiplicazione infinitamente infinita di anime e non si potrà sapere se esse sono in ozio o sono operative a meno che non si ricorra ad ipotesi fantasiose o arbitrarie. E mentre le sostanze materiali, nelle quali la moltiplicazione è manifesta e necessaria, non possono essere infinite in atto, si ammette una moltiplicazione infinita in atto in quelle immateriali, nelle quali non è necessaria la moltiplicazione, né è possibile la distinzione nella medesima specie.

p. 997 e 999

E ancora:

20. Pertanto, poiché tutte queste affermazioni sembrano essere irrazionali e lontane dal pensiero di Aristotele, sembra più razionale che 1'anima umana, essendo la più alta e la più perfetta delle forme materiali, sia veramente ciò per cui qualcosa è 'questo individuo ' e che in nessun modo sia essa stessa veramente 'questo individuo '. Perciò essa è veramente una forma che comincia e cessa di essere simultaneamente con il corpo, né può in alcun modo operare o essere senza di esso ed ha solo un unico modo di essere e di operare. Perciò può moltiplicarsi, poiché questo è veramente il principio della moltiplicazione nella medesima specie. Né sono infinite le anime in atto, ma solo in potenza, come anche tutte le altre sostanze materiali. Inoltre ha facoltà organiche e assolutamente materiali, come le facoltà sensitive e quelle vegetative. Ma, essendo essa la più nobile delle sostanze materiali e trovandosi al confine con quelle immateriali, ha un qualche odore di immaterialità, ma non in assoluto. Pertanto possiede l'intelletto e la volontà, per le quali è in sintonia con gli Dèi ma in modo abbastanza imperfetto e in termini di omonimia, perché gli dèi astraggano totalmente dalla materia, l'anima, invece, conosce sempre con la materia, poiché conosce con l'immagine sensibile, con continuità, con il tempo, con la discorsività e con oscurità. Perciò in noi l'intelletto e la volontà non sono genuinamente immateriali, ma lo sono rispetto ad alcunché e in modo parziale. Perciò si deve più propriamente chiamare ragione più che intelletto. Infatti, come ho detto, non è intelletto, ma un'impronta o un'ombra dell'intelletto. Ne fa fede il libro II della Metaphysica che dice: «Come sta l'occhio del pipistrello alla luce del sole, così il nostro intelletto sta alle cose evidentissime della natura», per quanto Averroè abbia commentato questo passo in modo assai perverso. E, come la luna è della natura della terra, come dice Aristotele nella Historia animaliumi così l'anima umana è della natura dell'Intelligenza. Ma nella luna la terra è presente solo secondo la sua proprietà e non secondo l'essenza; perciò anche il pensare è nell'anima umana secondo la partecipazione della proprietà e non dell'essenza.

p. 999 e 1001

E ancora:

22. Nessuna incongruenza sembra compromettere questa soluzione; tutto sembra quadrare con la ragione e con le esperienze; non si propone nessuna credenza, non si dà spazio a niente di fabuloso. Le obiezioni che sembrano contraddirla - ad esempio: come mai l'intelletto quando è in una materia calda o fredda non assume una qualità determinata e nelle sue operazioni non si serve di un organo e non cessa di recepire l'universale? - queste ed altre obiezioni siffatte, molto deboli, pongono difficoltà non minori contro la precedente soluzione che ammette anch'essa che la forma è nella materia. Se poi qualcuno dice che nessuna delle due soluzioni è vera, ma che è vera quella di Averroè, chiunque sostiene tale soluzione è per me dotato di accesissima immaginazione e credo che mai i pittori abbiano immaginato un prodigio più strabiliante di questo, che è, come ho dimostrato sopra, contro il pensiero di Aristotele.

p. 1003

E ancora:

28. Che questo sia stato il pensiero di Aristotele intorno all'anima umana, può risultare chiaro anche attraverso quel famoso passo del testo 39 del XII della Metaphysica, ove è scritto: «La felicità, che è eccellente, per noi dura per poco tempo; infatti, per gli dèi essa è così sempre, per noi è impossibile». Da questa citazione si evince innanzi tutto che gli dèi sono immortali in assoluto e godono sempre perché sempre pensano; infatti, nel medesimo testo Aristotele prosegue: «E piacevolissimo essere vigile, sentire e pensare». Se, dunque, godono sempre, esistono sempre, quindi sono immortali. Ma gli uomini sono mortali, perché godono per pochissimo tempo. Infatti, l'operare segue l'essere. Che se l'uomo talvolta è detto immortale, si intende nel senso che lo è rispetto ad alcunché, perché anche nel capitolo X del II De partibus animalium si dice: «Solo l'uomo tra i mortali è partecipe in massimo grado della divinità». Comparato agli altri mortali può essere detto immortale. Infatti, come si è detto, l'uomo è intermedio tra gli dèi e le bestie. Perciò come il grigio, paragonato al nero, si dice bianco, così l'uomo, paragonato alle bestie, può essere detto dio e immortale, ma non veramente e in assoluto. «Se i nostri antenati supposero che talvolta gli uomini furono trasformati in dèi», ha detto Aristotele nel testo 50 del medesimo libro XII, «lo fecero in modo fabuloso per persuadere il popolo, per il vantaggio di molti e per il consolidamento delle religioni. Ma solo Dio è propriamente detto immortale. Alla fine del testo 39 di quel libro Aristotele ribadisce: «Diciamo che Dio è un animale sempiterno, ottimo; perciò Dio ha una vita ed una durata continua ed eterna. Questo è Dio».

p. 1007

E ancora:

30. Ci sono dunque nell'universo tre tipologie di esseri animati, e poiché ogni essere animato conosce, ci sono tre tipi di conoscenza. Ci sono, infatti, gli esseri animati del tutto eterni, ci sono quelli del tutto mortali e ci sono quelli che sono intermedi tra questi due. I primi sono i corpi celesti e questi nel conoscere non dipendono in alcun modo dal corpo. Gli altri, invece, sono le bestie, che dipendono dal corpo come soggetto e come oggetto, per cui conoscono solo le cose singole. Gli esseri intermedi sono gli uomini che non dipendono dal corpo come soggetto, ma solo come oggetto; perciò non conoscono l'universale in assoluto, come gli enti eterni, né solo le cose singole, come le bestie, ma osservano l'universale nel singolo.
31. Aristotele ha introdotto questi tre tipi di conoscenza nel De anima, quando ha detto: «se il pensare è immaginazione o non è senza immaginazione». Infatti, per 'immaginazione' egli intende il senso che ha bisogno del corpo in entrambi i modi, cioè come soggetto e oggetto; per 'non essere immaginazione e non essere senza di essa' intende l'intelletto umano, che ha bisogno del corpo come oggetto, ma non come soggetto; per 'ciò che non è immaginazione ed è affatto privo di immaginazione' intende il vero intelletto, che è quello degli enti divini. In nessun luogo aristotelico sono reperibili altre modalità del conoscere né ciò sarebbe consono alla ragione. Dire, infatti, come fanno coloro che ritengono che l'intelletto umano sia assolutamente immortale, che l'intelletto ha due modalità di conoscere, l'una senza immagini sensibili e l'altra con le immagini sensibili, significa mutare la natura umana in divina. E questo non è molto diverso dalle favole di Ovidio nel Metamorphoseon. Infatti, come si è detto, Aristotele riconosce che gli antichi inventarono i miti a vantaggio delle religioni.

p. 1111

Anche dai pochi passi che ho citato del "Tractatus de immortalitate animae" appare evidente come Pietro Pomponazzi abbia introdotto nella filosofia il concetto della possibilità mortale dell'anima umana. Queste affermazioni possono apparire oggi abbastanza ovvie e logiche, ma quando queste affermazioni vennero formulate misero in discussione il diritto dei dominicani di bruciare viva la gente per "salvare le loro anime". Queste affermazioni misero in discussione tutto il fine ideologico della filosofia di Tommaso d'Aquino che, mediante l'uso di Aristotele, legittimava l'assolutismo e il dispotismo della chiesa cattolica contro gli uomini.

Pomponazzi, con le sue affermazioni, metteva in discussione il "potere costituito" non tanto nella sua espressione di "dominio sociale", ma nell'ideologia che giustificava e legittimava quel dominio sociale: l'anima immortale come proprietà di Dio.

Questo aspetto veniva afferrato da alcuni filosofi o dai dominicani, probabilmente sfuggiva a personaggi come Pietro Bembo più impegnati nella veicolazione del potere della chiesa cattolica nella società civile che non nell'ideologia propria della chiesa cattolica. In altre parole, più politici che filosofi.

Il Nifo, Bartolomeo Spina e il senato veneziano, aggrediscono Pietro Pomponazzi. Il libro viene bruciato e proibito.

Nel 1518 Silvestro Mazzolini da Prierio sollecita il "papa" Leone X a condannare ufficialmente Pietro Pomponazzi. Leone X ricatta Pietro Pomponazzi e lo minaccia di processarlo se non si attiene alla filosofia del Vaticano. Il procedimento penale non ha inizio perché viene bloccato, forse per l'intervento del cardinale Pietro Bembo segretario pontificio,

La diatriba scatenata dai dominicani non minaccia la carriera di docente di Pietro Pomponazzi a cui viene concesso di insegnare senza un "concurrens" e di scegliere che cosa commentare nelle sue lezioni. Il 5 febbraio 1518 viene pubblicata l'"Antologia", stampata a Bologna. In questo libro Pietro Pomponazzi racconta la polemica sull'immortalità dell'anima. Il libro "L'apologia" è una polemica con cui Pietro Pomponazzi rintuzza tutte le accuse messe in atto contro il "Tractatus de immortalitate animae".

Vale la pena di riportare qualche passo.

Scrive Pomponazzi nell'"Antologia":

1. Rispondendo a tali argomenti diciamo che le citazioni addotte rendono non poco probabile la tesi di coloro che sostengono che l'anima intellettiva differisca realmente dalla vegetativa e dalla sensitiva, che essi definiscono mortali, come pensarono Platone, Temistio, Averroè e moltissimi altri. Ma coloro che sostengono che l'intellettivo nell'uomo si identifica con il sensitivo e con il vegetativo, come sostiene il Contraddittore, non incontrano in quelle parole di Aristotele perplessità meno angustianti di quelle che incontriamo noi che riteniamo che per Aristotele l'anima sia mortale.
2. Ciò si dimostra in questi termini: secondo la posizione l'intelletto umano o l'anima umana si identifica con la vegetativa e con la sensitiva. Perciò in realtà l'intelletto sarà il principio del mangiare, del bere, del digerire, dell'ubriacarsi, del fornicare, del delirare e dell'esercizio di quasi infinite operazioni bestiali. Si dica allora in che modo l'anima tanto decantata come immateriale e divina potrà esercitare operazioni così vili e immonde? Come potrà accadere che non si mescoli in alcun modo alla materia, pur avendo innumerevoli operazioni del tutto immerse nella materia, tanto che a stento le si attribuisce una sola operazione separata dalla materia? Ma anche tale operazione è così raramente, così debolmente e così oscuramente nell'anima che a stento sembra esservi in essa una traccia dell'intelletto e della sua separazione: chi non resterà meravigliato e stupefatto se vede che alcuni asseriscono che essa è immateriale? Senza dubbio chi segue i principi naturali, vedendo che l'uomo nasce e muore come gli altri mortali e che non c'è nessuna operazione o prova per cui possiamo sapere che dopo la morte l'anima sopravvive, chi, dico, oserà sostenere che essa è immortale?

p. 1305 e 1307

E ancora:

10. Riguardo a ciò che si aggiungeva, cioè che coloro che hanno sentore solo delle cose terrene dichiarano mortale l'intelletto e coloro che contemplano le cose divine e immortali lo dichiarano immortale, replichiamo, sulla base del parere meritatamente celebre dei medici, che le medesime differenze sono contrassegnate dalla mancanza e dalla sovrabbondanza. Infatti, coloro che dichiarano terreno in senso esclusivo l'intelletto umano si ingannano e lo deprimono eccessivamente; ma coloro che lo esaltano come divino e immortale in assoluto, senza dubbio lo esaltano eccessivamente e si insuperbiscono pubblicamente considerandosi dèi, pur essendo mortali. E con simili argomenti costoro si ingannano come chi, vedendo che una statua ha una corona regale, la scambi per un vero re o, vedendo un liquido citrina come il miele, senza assaggiarlo dichiari che si tratta di miele. Infatti, non si debbono annoverare gli uomini tra gli dèi per una larvata e modesta somiglianza che hanno con essi, perché la distanza che li separa dagli dèi è massima ed è più conforme alla ragione annoverarli tra i mortali, perché con loro vivono, da loro traggono giovamento e danno; con gli dèi invece non hanno alcun rapporto.

p. 1313

E per concludere le citazioni dall' "Apologia":

13. Il Contraddittore aggiunge altresì una sola osservazione, cioè che in quel passo Aristotele ha espresso un'opinione e lo ha fatto in merito alla separazione dal sensitivo; ma questa interpretazione è del tutto falsa. Infatti, per Aristotele è impossibile che ci sia un'opinione se non c'è una dipendenza dal senso, giacché è impossibile avere una opinione intorno agli enti del tutto liberi dalla materia così da non dipendere dal senso; anzi non è neppure possibile né il discorso né l'errore. L'opinione invece si fonda per lo più sul procedimento discorsivo e sull' errore. In quel passo, dunque, Aristotele mette a reciproco confronto le facoltà rispetto alla loro identità e alla loro diversità, senza stabilire se sono reciprocamente separate e dice che la facoltà opinativa è diversa da quella sensitiva, perché il sentire è altro dall'opinare; perciò fa propria quella celeberrima proposizione: «Le facoltà si distinguono per gli atti e gli atti per gli oggettive». Così, infatti, dice Aristotele nel testo 22: « E' chiaro che esse sono concettualmente distinte. Infatti, la facoltà sensitiva è per essenza diversa da quella opinativa, perché certo il sentire è diverso dall'opinare». è evidente da ciò che quella citazione è stata invocata a sproposito.

p. 1315 e 1317

Da queste brevi citazioni, appare evidente che Pietro Pomponazzi rifiuta le critiche alle sue idee sull'anima mentre sempre più vivaci si fanno le aggressioni nei suoi confronti.

Interpretare Aristotele è l'oggetto del contendere, ma dal momento che l'interpretazione di Aristotele è stata fatta anche da Tommaso d'Aquino che, fatto santo, è elevato agli altari, la modifica dell'interpretazione di Aristotele rappresenta un vero e proprio atto di guerra nei confronti della chiesa cattolica.

Nel 1519 Non cessano le polemiche. Pomponazzi scrive il "Defensorium" una difesa delle sue opinioni in risposta al "De immortalitate animae" di Nifo che fu pubblicato a Venezia nel 1518. Il libro di Pomponazzi viene bloccato dalla chiesa cattolica. L'inquisitore Giovanni Torfanini e il Vicario Generale Alessandro de Peracinis pretendono che il libro sia preceduto da una presentazione che ne rifiuti le tesi esposte. Pietro Pomponazzi contatta un teologo dominicano, Crisostomo Javelli, e riesce a convincerlo che l'immortalità dell'anima è un dogma di fede, ma che in realtà nessuno ha prove dell'effettiva immortalità. In pratica, Pietro Pomponazzi riesce a convincere il dominicano che un conto è la teologia e un altro la filosofia. Javelli permette la pubblicazione del libro. In ogni caso si fa notare come Pietro Pomponazzi non abbia rettificato nessuna idea espressa del "Tractatus de immortalitate animae".

Vale la pena di citare anche questo "Defensorium" che ci permette di chiarire il punto di vista di Pietro Pomponazzi.

Scrive Pietro Pomponazzi nel concludere il "Defensorium":

22. Ma ciò che è peggiore di tutto è che il nostro oppositore fantastica dicendo che le anime dopo la morte sono tutte uguali, pur essendo disuguali in vita; che nessun premio o pena è dovuto all' anima dopo la morte, essendo tutte ugualmente felici, sebbene in vita il premio attribuito ai buoni e la pena ai cattivi altro non sono se non la virtù e il vizio. Innanzi tutto egli loda la tanto condannata nostra opinione per la quale abbiamo sostenuto che secondo Aristotele nessun premio è più grande della virtù e nessuna pena è più grande dello stesso vizio. In secondo luogo quella dimostrazione da lui tanto osannata va totalmente in fumo. Egli, infatti, diceva che l'argomento relativo ai premi e ai castighi è un validissimo supporto a favore dell'immortalità dell'anima perché, se si esclude questa, non ci saranno né premi né pene; perciò tutto andrà in malora né ci sarà alcuno stimolo alle virtù, né qualcosa che ci trattenga dal vizio, dal momento che tanto i più virtuosi quanto i più scellerati conseguiranno dopo la morte la medesima felicità. Questa posizione confligge con le religioni, e in particolare con la religione cristiana, più di quanto confligga la tesi della mortalità dell'anima. Infatti, secondo tale opinione i più scellerati saranno felici al pari dei più virtuosi. Ma per coloro che ammettono la mortalità dell'anima gli scellerati sono infelici e i virtuosi felici. Giustamente, dunque, il Contraddittore propose, come ultima, questa sua opinione perché, dopo aver parlato male negli altri capitoli, parla malissimo alla fine e procede di male in peggio e dal peggio al pessimo. Infatti, non si può escogitare niente di peggiore.
23. Pertanto, come abbiamo detto sopra, è strano che gli inquisitori della eretica pravità abbiano permesso la stampa di questo libro che è così pernicioso. E se si dice che fu permessa la stampa perché egli ha trattato secondo il pensiero di Aristotele e non secondo il suo stesso pensiero, per lo stesso motivo non avrebbero dovuto dire nulla contro di noi. In primo luogo perché abbiamo veramente esposto il pensiero di Aristotele, come siamo convinti; in secondo luogo, perché in tutti i nostri trattati condanniamo, bestemmiamo e detestiamo la mortalità dell'anima. Non siamo indotti a sostenere ciò per qualche ragione naturale, ma solo perché in tale direzione ci determinano i Sacri Canoni. Infatti, credo nel Vangelo, perché ci crede la Chiesa. E certo secondo questa vanissima opinione l'unione dell'anima con il corpo sarebbe vana e le anime degli embrioni, che mai sono state affette da alcuna macchia, starebbero meglio delle anime degli uomini, per quanto ottimi e virtuosissimi, perché non è possibile che non abbiano avuto in vita qualche macchia. Perciò un'opinione siffatta è da aborrire, da evitare e da sterminare del tutto. Non è, infatti, adatta alle religioni, né allo Stato, né alla filosofia. Perciò è al culmine della fatuità.
24. Dunque ponendo fine a questo nostro discorso, diciamo due cose: in primo luogo questo libro è del tutto inutile, totalmente pieno di livore, arroganza, iattanza, petulanza e non ha nessuna coerenza, tanto che nessuno, neppure lo stesso autore, potrebbe intendere che cosa abbia voluto dire. La seconda cosa che diciamo è che, poiché nessuno di coloro che ammettono che l'anima è immortale e moltiplicata può salvare i testi di Aristotele, come abbiamo dimostrato qui e negli altri nostri due trattati, nessuno potrebbe sostenere questa soluzione, salvo che non faccia propria quella della fede cattolica, come afferma anche Agostino negli ultimi libri del De civitate Dei contro Platone e Porfirio. Perciò solo con una fede semplice e sincera si deve credere fermamente che l'anima è immortale e tutto ciò che è sancito dai Sacri Canoni deve essere creduto senza alcuna ragione e senza esitazione come verità fermamente irremovibile e inviolabile, da osservare scrupolosamente come stabiliscono i Sacri Canoni. Sia dunque per noi cristiani validissima questa argomentazione: «se Cristo è risorto, risorgeremo anche noi»" e se noi risorgeremo l'anima è immortale. Ma sappiamo che Cristo è veramente risorto dai morti per testimonianza di tanti uomini santissimi e della Chiesa militante che celebra questa verità quotidianamente. Quindi, l'anima è veramente immortale. Se questa argomentazione non soddisfa qualcuno, è perché egli la stima insufficiente o perché ritiene che un'altra sia migliore. Ma colui che pensa in tal modo svilisce la fede e non merita l'appellativo di cristiano. Infatti, nessuna ragione è più efficace di questa né può essercene una più evidente. Ciò che attiene alla fede è da anteporre a tutto.
25. Un'unica cosa ho ritenuto di dover aggiungere a quanto che ho detto, cioè che nessuno, anche se non molto intelligente, si deve stupire se abbiamo attribuito ad Aristotele la convinzione che l'anima è mortale. Infatti, Alberto nel libro intitolato Speculum astronomiae, in cui tratta dei libri leciti e di quelli illeciti, scrive che Aristotele compose un libro che mandò ad Alessandro, re dei Macedoni, e che era intitolato comunemente De morte animae. Non ho avuto tra le mani quel libro e forse in esso Aristotele dichiarò apertamente ad Alessandro che l'anima è mortale secondo il suo parere; infatti, nel De anima ne trattò in modo abbastanza velato, perché si trattava di un libro che sarebbe pervenuto nelle mani di chiunque, mentre la lettera ad Alessandro era privata. Così fece anche Platone con Dionisio, come leggiamo nella lettera a lui scritta, perché gli ordinò di bruciarla dopo averla letta, per impedire che venisse nelle mani di uomini del popolo. Infatti, i segreti dei filosofi non debbono essere propalati al popolo e agli idioti. Questi, infatti, fanno quello che fanno solo per la speranza del premio o per il timore del castigo. Sono, infatti, pubblici mercenari, anche se onestamente si potrebbe dire di loro ciò che si dice dell'asino che sopporta il carico per non essere percosso. Pertanto si suppone che tale sia stata lopinione condivisa da Aristotele. Dunque, pongo fine a questa questione e, pur sapendo che taluni hanno abbaiato e altri abbaiano e altri ancora abbaieranno contro di noi, non mi degnerò affatto di rispondere ad essi e dirò di loro ciò che dicono abbia risposto ad un tale un severissimo censore. Un tale chiese al censore di Roma di proporgli una legge che ordinasse che gli stolti e gli insani fossero contrassegnati da un marchio, in modo che gli uomini li individuassero come stolti; a lui, che gli poneva tale istanza, dicono che il censore abbia risposto: 'non c'è bisogno di nessun marchio, perché gli stolti portano con sé il loro marchio; infatti, sono smascherati dalle loro opere'. Così dico di costoro: nello scrivere, nell'abbaiare, nel maledire tradiscono la loro insipienza, il livore e la loro rabbia. Lode a Dio Onnipotente e alla Sua Genitrice.
26. Questo Discorso difensiuo è stato completato da me Pietro, figlio di Giovanni Nicola Pomponazzi, mantovano, il 5 gennaio del 1519 nel fiorentissimo Ginnasio bolognese e nella cappella di S. Barbaziano nel sesto anno del Pontificato di Leone X.

p. 2059, 2061 e 2063

Fu con questa tecnica, questo sistema espositivo delle proprie idee che Pietro Pomponazzi riuscì ad evitare di "fare la fine delle castagne". Sconfisse i dominicani, ma questi fecero in modo che le sue idee non "giungessero al popolino" in modo che il "popolino" continuasse a mettersi in ginocchio davanti alla verità assoluta manifestata dalla chiesa cattolica.

La società in cui viviamo non impedisce la formazione di nuove idee sulla realtà, ma agisce per impedire che le nuove idee sulla realtà diventino patrimonio degli uomini che quella realtà vivono con sofferenza.

L'errore di Giordano Bruno e di Galileo Galilei fu quello di pretendere di modificare il potere di coercizione della chiesa cattolica offrendo una "verità" più luminosa dell'oscurantismo in cui la chiesa cattolica costringeva le persone. E questo la chiesa cattolica non lo poteva tollerare.

Nel 1520 Pietro Pomponazzi scrive le sue opere più note. Il "De naturalium effectuum causis sive de incantationibus" e il "De fato, libero arbitrio, praedestinatione providentia Dei". Le opere non saranno pubblicate subito. Rimarranno in manoscritto e pubblicate dopo la morte. In quell'anno muore il fratello di Pietro Pomponazzi, Pier Giovanni. Pietro Pomponazzi si fa carico dei due figli del fratello, non solo ne assicura l'educazione, ma lascia a loro una parte della sua eredità.

Il "De naturalium effectuum causis sive de incantationibus" e il "De fato, libero arbitrio, praedestinatione providentia Dei" verranno diffuse nella forma di manoscritti e saranno pubblicate molti anni dopo la morte di Pietro Pomponazzi.

Nell'opera "De naturalium effectuum causis sive de incantationibus" Pietro Pomponazzi affronta la questione dei miracoli e della scienza e lo spunto della riflessione di Pomponazzi fu offerto da Ludovico Panizza che fra l'altro scriveva:

"Dobbiamo necessariamente ammettere i demoni, non solo stando alle decisioni della Chiesa, ma anche per dare una spiegazione di molti fenomeni sperimentati"

Nota riportata da Eugenio Garin in Storia della filosofia italiana.

La risposta di Pietro Pomponazzi nel "De naturalium effectuum causis sive de incantationibus" è abbastanza chiara. Riporto da Storia della filosofia italiana di Eugenio Garin:

La risposta del Pomponazzi è una adesione completa alla concezione di una natura che procede rigidamente per leggi proprie, dove tutto è ordinato e connesso senza interventi di elementi appartenenti a piani diversi. «Noi possiamo salvare queste esperienze mediante cause naturali, né v'è ragione alcuna che ci costringa a far dipendere da demoni tali fenomeni. Inutilmente dunque si introducono i demoni; ed è cosa del tutto ridicola e fatua abbandonare ciò che è evidente e può provarsi mediante la ragione naturale per andare a cercare ciò che non è evidente e non può convincere con verosimiglianza alcuna» (De incant., 19).
Del resto c'è un'impossibilità fondamentale che vieta di ammettere un'influenza diretta di agenti spirituali; poiché il sensibile non agisce sull'intelletto se non attraverso i sensi, come potrà quello che è puro spirito esercitare un'azione qualunque su quello che è materia? Ma, è facile osservare, spiriti e demoni potrebbero servirsi di mezzi materiali. Senonché, si può rispondere, conoscere il particolare non è dato se non per i sensi; al mondo dei puri spiriti è dunque precluso qualunque contatto con questo mondo particolare e corporeo.
La verità è un'altra; nel mondo vi sono forze varie e variamente distribuite, virtù capaci di produrre mirabili effetti. L'uomo «per comune consenso, medio fra l'eterno e il generabile e corruttibile, si pone in mezzo in quanto è partecipe di tutti gli estremi»; in lui come in micro-cosmo si raccolgono tutte le virtù, ed egli tutto può operare mediante organi e strumenti adatti. «Da questo consegue che alcuni hanno prodotto molti effetti mediante la scienza naturale ed astronomica, e tuttavia si è creduto che li abbiano fatti o per santità o per necromanzia quando non erano né santi né necromanti. Perciò molti sono stati ritenuti maghi e necromanti come Pietro d'Abano e Cecco d'Ascoli, mentre non avevano commercio alcuno con spiriti immondi, anzi forse credevano con Aristotele che i demoni non esistessero affatto. Altri ugualmente sono stati ritenuti santi dal volgo e si è creduto che avessero rapporti con gli angeli per le opere che si vedevano, là dove forse sono stati addirittura degli scellerati. E se qua lcuno osservi che di costoro gli uni mostravano segni buoni e gli altri cattivi, gli uni si facevano il segno della croce e dicevano le preci dei santi mentre gli altri facevano il contrario, io credo che tutto questo facessero per ingannare il prossimo» (De incant., 41-43).
Resta centrale, sempre più cruda, l'antitesi cara al Pomponazzi fra un volgo ignorante e quasi ferino, e i saggi, quasi Dii terrestres. è questo volgo che attribuisce a esseri immateriali desideri, gioia e dolore; ma «quomodo immaterialia et aeterna ... possunt intelligere et desiderare; quomodo etiam possunt nos alloqui, nostras audire voces, nostra videre opera, et reliqua huiusmodi quae deliramenta esse videntur?» (De incant., 313). Solo fantasia, ignoranza e impostura alimentano queste stolte credenze.
Rimangono tuttavia da spiegare gli eventi mirabili che non sembrano riconducibili a questi fattori, e che furono la causa iniziale della ricerca. La risposta ultima viene cercata da Pomponazzi negli astri e nei loro influssi; cause naturali, dunque, che per la loro stessa potenza possono rendere ragione di tutti i fenomeni. «è del tutto assurdo che i corpi celesti, che con le loro intelligenze reggono e conservano l'universo intero, ... non possano produrre effetti che sono un nulla paragonati all'universo stesso ».

Eugenio Garin, Storia della filosofia italiana (IIvolume), ed. CDE, 1989, p. 37 – 38

Alla fine, anche Pietro Pomponazzi, quanto non può spiegare, anziché sospendere il giudizio, lo attribuisce all'influsso degli astri. Da un lato c'è la necessità di uscire dall'assolutismo del controllo del dio cristiano e dall'altro lato c'è la necessità psicologica di riaffermare il potere del Dio cristiano di dominare l'uomo mediante un intervento, sia pur indiretto, nelle attività umane.

Nel "De fato, libero arbitrio, praedestinatione providentia Dei" Pietro Pomponazzi sembra porsi come un riformatore della teologia cristiana. E questo è il motivo per il quale non ha voluto pubblicare questo scritto, ma lo faceva girare solo come manoscritto.

Del "De fato, libero arbitrio, praedestinatione providentia Dei" rileva Eugenio Garin:

Il problema non era nuovo nella speculazione rinascimentale, e se l'era posto il Valla. Pomponazzi che ha di fronte a sé la critica mossa allo stoicismo da Alessandro di Afrodisia impianta la sua indagine come polemica contro Alessandro, senza nascondere le sue simpatie per gli stoici, che sembrano evitare le difficoltà molto meglio del cristianesimo. Mentre in Dio conoscenza delle cose e causazione di esse coincidono, S1 che egli è veramente libero, l'uomo trova la realtà già determinata, e possiede di proprio l'atto di volontà, ma non la modificazione obbiettiva che ne scaturisce e che si situa nel tutto, in cui si pone anche il suo volere come causa adeguata di quel fenomeno. Senonché, ricondotta la volontà nell'ordine delle cause, si presenta il problema del rapporto di essa con la provvidenza. L'accettazione del libero arbitrio sembra con essa in contrasto inconciliabile, come aveva notato Boezio. Ma l'eliminazione della libertà può avvenire, sia nel rapporto con un Dio libero esso stesso, sia in un universo retto da un ordine ferreo, ove, anzi, Dio ci appare proprio come quest'ordine. Nel primo caso, che è il caso del cristianesimo, nulla sembra evitare a Dio l'accusa di crudeltà, tutte le volte che troviamo nel mondo il peccato, tutte le volte che si parli di punizione del reo. «Se l'anima umana viene concepita immortale secondo la concezione cristiana, par difficile che si possa salvare Dio dall'accusa di crudeltà, poiché secondo i Cristiani Dio conosce che quasi nessuno potrà salvarsi. Sembra dunque che si rallegri delle pene» (Il, 7).
Né, secondo Pomponazzi, regge il tentativo di salvare la libertà umana attraverso la teoria dei futuri contingenti, per cui Dio conoscerebbe le cose prima come possibili, quindi come reali in seguito all'atto di volere che tali le ha fatte scegliendole. Infatti, osserva Pomponazzi, o è Dio che le fa in qualche modo passare all'atto, o siamo veramente noi. In questo secondo caso viene distrutta l'effettiva onnipotenza divina. In realtà è assurdo parlare rispetto a Dio di futuri contingenti. La cognizione divina è senza tempo; in essa non c'è un prima e un poi. In tal modo Dio non predetermina; come causa prima produce la volontà umana che è causa seconda. Ma si è veramente superata la difficoltà accordando all'uomo la libertà e a Dio l'onnipotenza? «Come ho già detto, l'argomento è per me difficilissimo - osserva Pomponazzi. - Gli Stoici sfuggono facilmente a questa difficoltà, facendo dipendere da Dio l'atto di volontà. Per questo appunto l'opinione stoica ci appare molto probabile» (III, 14).
A favore dello stoicismo e contro il cristianesimo ritornano di continuo le solite osservazioni compendiate nell'accusa di crudeltà ripetuta contro Dio: «codesto è un porre gli uomini in somma disperazione e spingerli tutti, con o senza predestinazione, al vizio e al peccato. Di qui, anzi, una grande scusa per i furfanti. Infatti se Dio odia ab aeterno i peccatori e li condanna, è impossibile che non li odi e non li condanni; ed essi cosi odiati e reietti è impossibile che non pecchino e non siano perduti. Che rimane dunque, se non una somma crudeltà e ingiustizia divina, e odio e bestemmia contro Dio? E questo è molto peggio della posizione stoica. Gli Stoici dicono infatti che Dio fa così perché lo esigono la necessità e la natura. Perciò secondo il Cristianesimo il fato dipende dalla cattiveria di Dio, che potrebbe fare diversamente e non vuole, mentre secondo gli Stoici non può» (V, 6).
Ma Pomponazzi non vuole accogliere lo stoicismo e neppure vuole rifugiarsi nell'appello a una imperscrutabile volontà divina. Se gli ripugna il contingentismo estremo di Alessandro, contrastante con la sua concezione della natura, se non vuol piegare verso lo stoicismo, non si volge neppure a una soluzione di tipo calvinistico.

Eugenio Garin, Storia della filosofia italiana (IIvolume), ed. CDE, 1989, p. 38 – 39 – 40

Dio come nemico dell'uomo perché costringe l'uomo al male, alla sofferenza determinando un destino a cui l'uomo è costretto a sottomettersi. Il libero arbitrio, nella filosofia e nelle teologia cristiana non esiste. E come può esistere dal momento che l'uomo è pensato come un oggetto di proprietà del Dio che ne determina azioni, fini, premi e pena?

E lo stesso concetto viene ribadito dall'analisi del "De fato, libero arbitrio, praedestinatione providentia Dei" da Rita Ramberti ne "Il problema del libero arbitrio nel pensiero di Pietro Pomponazzi" dove, fra l'altro scrive:

Anche la teoria pomponazziana della predestinazione mostra tuttavia la sua debolezza di fronte alle obiezioni della ragione riguardanti, nuovamente, la teodicea. Una volta accolto il principio della teologia cristiana per cui la volontà divina liberamente decide chi deve essere salvato e chi dannato, non si può evitare che essa venga accusata di arbitrarietà. La conoscenza contingente di Dio, che permette la libertà umana, dipende dal modo in cui Dio sceglie di distribuire i suoi doni, e per l'intelletto umano restano incomprensibili le ragioni in base alle quali l'intelletto eterno abbia disposto l'universo nella sua forma attuale. Si avverte chiaramente come a questo punto della trattazione, apportate ormai tutte le possibili modifiche e delucidazioni alla dottrina tomista della provvidenza, sia forte la tentazione irrazionalistica di introdurre una forma originaria di volontà, diversa da quella derivata e secondaria, contenuta e diretta dalla mente eterna, e a quest'ultima superiore nella sua indeterminatezza assoluta. Pomponazzi è consapevole di questa difficoltà e dell'impossibilità di risolverla dal punto di vista di una teologia razionale cristiana. Il fatto che Dio decida le sorti umane dando «aequalibus inaequalia», egli spiega, non implica l'ingiustizia e l'arbitrarietà della scelta divina, poiché Dio non è tenuto a dare nulla; la sola spiegazione logica di come avvenga la diversa distribuzione dei doni divini non può che rimandare alla perfectio universi. Alla ritornante obiezione secondo la quale sarebbe migliore un mondo in cui tutte le cose fossero ugualmente perfette, Pomponazzi può rispondere soltanto che la limitata idea di bontà con cui gli uomini raffrontano lo stato generale del mondo non corrisponde, evidentemente a quella infinitamente più chiara con cui lo raffronta Dio. Questo mondo, creato nella forma della molteplicità e della diversità dei gradi di perfezione, deve essere ritenuto il migliore dei mondi possibili non in senso oggettivo e comparativo - l'intelletto umano non può infatti paragonarlo se non alla propria idea limitata - ma poiché «voluntas Dei est causa boni: in tantum enim res est bona in quantum Deus vult eam».
Sui problemi insolubili della teodicea si infrange ogni tentativo di fondare una teologia razionale a partire dalle dottrine della fede cristiana, che finisce sempre per porre come principio assoluto l'imperscrutabile volontà divina. Pomponazzi perciò conclude la sua lunga e articolata trattazione intorno alla dottrina cristiana della provvidenza riconoscendo l'incolmabile distanza che separa i ragionamenti filosofici dai dogmi di fede: «Et quanquam auribus philosophorum ista videantur deliramenta, tamen standum est autoritati Canonicae Scripturae quae est divinitus data». L'opinione razionalmente più valida, tra quante sono state prese in considerazione, si riconferma quella stoica. Nel suo coerente naturalismo, essa afferma la mortalità dell'anima umana, o l'eterna vicissitudine dei suoi congiungimenti con la materia, e scagiona Dio dall' accusa di essere causa del peccato, nel ridurre il male morale a forma particolare del male naturale, necessario per l'equilibrio dell'universo: «nisi enim essent tot mala, non essent tot bona». Stando alla concezione stoica del fato, inteso come necessità immanente all'ordine universale, si può rendere meglio ragione dei limiti e delle miserie umani, che conseguono dalla condizione assegnata alla specie umana, e agli individui al suo interno, in rapporto a tale ordine. In termini puramente razionali, dunque, la discussione non può essere conclusa che ammettendo la necessità naturale del male compiuto e subìto dagli uomini, e negando ogni possibilità di scegliere liberamente e responsabilmente secondo quali norme vivere. Si dovrà pertanto ammettere che l'unica virtù realizzabile dagli uomini può consistere soltanto nell'inerte accettazione della necessità del fato e che da questa virtù non può risultare una felicità più piena di quella consistente nell'apàtheia stoica, ossia nello stato di quieta rassegnazione che consegue alla liberazione dal timore di ciò che non si può evitare. La possibilità di una concezione attiva della libertà umana sarebbe invece affermata dalla dottrina cristiana della provvidenza, così come essa è stata rielaborata da Pomponazzi negli ultimi tre libri del De fato. Nell'Epilogo, il filosofo torna a ricordare che il suo tentativo di comporre la provvidenza divina con il libero arbitrio umano ha preso forma in una teoria originale, che egli continua considerare più soddisfacente delle soluzioni comunemente accolte dai teologi, in particolare di quella tomista, che qui non nomina, ma che indica chiaramente con il suo giudizio. La revisione pomponazziana delle dottrine teologiche del libero arbitrio e della provvidenza-predestinazione consente di definire l'esercizio della virtù come assenso volontario alla necessità del bene. Pur essendo sottoposta all'intelletto, la volontà umana è libera di decidere se seguire o meno la direzione del motus che esso le imprime; nel momento in cui decide per la prima alternativa, la volontà sceglie di autodeterminarsi come causa: sceglie cioè di attuare la propria natura e di rimanere al proprio posto nell' ordine cosmico, non per un'accettazione passiva, ma per comunicare ad alium la parte di bene di cui partecipa, contribuendo, così, alla salvaguardia dell'armonia universale.

Rita Ramberti, Il problema del libero arbitrio nel pensiero di Pietro Pomponazzi, Leo S. Olschki Editore, 2007p. 146 – 148

Pietro Pomponazzi aveva l'idea di riformare la teologia cattolica. Ne osservava le contraddizioni insite nel pensiero cattolico, ma aveva paura di sposare teorie diverse da quelle cattoliche e la sollecitazione ai suoi allievi di "non fare la fine delle castagne" era in realtà la sua vera paura che gli ha permesso di navigare indenne nelle tempeste che la chiesa cattolica costruiva per gli uomini.

Ciò che sfugge ai filosofi della contraddizione fra libero arbitrio dell'uomo e assolutismo del Dio cristiano è che la contraddizione è voluta e pensata appositamente. In questo modo la propaganda cristiana può usare indifferentemente e contemporaneamente tre punti di vista diversi con cui controllare l'uomo.

1) L'uomo ha il libero arbitrio e dunque lui è colpevole perché lui sceglie di peccare o di non peccare;

2) L'uomo è sottoposto alla potestà assoluta di Dio che ne determina condizione, destino sia in terra che dopo la morte e, dunque, la chiesa cattolica ha il diritto assoluto di vita e di morte sull'uomo;

3) Dal momento che Dio ha il potere assoluto (e con esso la chiesa cattolica) Dio permette all'uomo di scegliere di peccare e dunque Dio sceglie per sé stesso (e la chiesa cattolica) il diritto di condannare a piacimento o di non condannare a piacimento.

Il meccanismo messo in piedi dalla chiesa cattolica non è "un'incongruenza dottrinale o filosofica", ma è un trucco sofista il cui scopo è fissare il potere di controllo della chiesa cattolica sull'uomo mediante la sua identificazione col potere assoluto di Dio.

Per questo, alla fin fine, Pietro Pomponazzi, anche se ha saputo difendersi, era solo un ingenuo che amava Dio e che avrebbe voluto che la teologia coincidesse con la filosofia, ma la teologia cristiana non risponde alle logiche filosofiche. Risponde solo alla necessità della chiesa cristiana di dominare l'uomo trasformandolo in bestiame di un gregge da condurre al macello della vita.

D'altro canto la separazione esistenziale di Pietro Pomponazzi dagli uomini e dai problemi quotidiani, anche dalla violenza che gli uomini sopportavano quotidianamente dalla chiesa cattolica, ha portato Pietro Pomponazzi a disprezzare gli uomini. Lui, come docente, aveva paura di fare la fine delle castagne mentre gli uomini "del volgo" che quotidianamente facevano la fine delle castagne dovevano godere del disprezzo di Pietro Pomponazzi.

Voler riformare la teologia della chiesa cattolica significava garantirsi la condanna da parte dell'inquisizione. Come era avvenuto per Giordano Bruno e per Galileo Galilei. Pietro Pomponazzi non cadrà nella stessa trappola.

Nel 1521 viene pubblicato a Bologna il "Tractatus de nutritione et auctione", poi ristampato con il titolo "De nutritione et augmentatione libellusi".

Nel 1522 Ercole Gonzaga, figlio di Francesco II Gonzaga e di Isabella d'Este, marchesa di Mantova, va a Bologna per studiare con Pietro Pomponazzi. Ercole Gonzaga fu uno dei presidenti al Concilio di Trento.

Nel 1524 Pietro Pomponazzi si ammala di calcoli renali e nel maggio di quell'anno detta il suo testamento.

Il 18 maggio 1525 Pietro Pomponazzi muore dopo terribili sofferenze. Testimoni dicono che nell'ultima notte di vita si è un po' rianimato e disse di andarsene felicemente. Alla domanda su dove sarebbe andato, Pietro Pomponazzi rispose che sarebbe andato là dove vanno tutti i mortali.

 

Nota: Le citazioni di Pietro Pomponazzi dove non precisato, sono tratte da Pietro Pomponazzi, Tutti i trattati peripatetici, Bompiani, 2013. Il numero di pagina si riferisce a questa edizione.

 

Marghera, 12 dicembre 2018

 

Pagina tradotta in gran parte in lingua Portoghese

Tradução para o português: Capítulo 110 A biografia de Pietro Pomponazzi - vigésima sétima biografia

 

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