Jean-Paul Sartre

Le biografie dei giocatori - cinquantesima biografia

Capitolo 133

La partita di calcio mondiale fra i filosofi

Claudio Simeoni

 

Le biografie dei filosofi che partecipano alla partita di calcio

 

La biografia di Jean-Paul Sartre

 

Jean-Paul Sartre nasce nel 1905, il 21 giugno, a Parigi. Il padre di Jean Paul è Jean-Baptiste Sartre ufficiale della marina francese. La madre era Anne-Marie nata Schweitzen di origine alsaziana e parente di Albert Schweitzer colonialista tedesco noto come medico teologo, musicista e premio Nobel per la pace del 1952. Albert Schweitzer era cugino di Sartre. Colonialista missionario luterano che, per aiutare il colonialismo, costruì un ospedale a Lambaréné. Internato in Francia nel 1917, dopo la guerra continuò la sua attività di colonialista in Gabon.

Quando Sartre ebbe due anni, il padre morì. Probabilmente per una malattia tropicale contratta mentre era in servizio come militare colonialista in Indocina.

Alla morte del marito, Anne-Marie torna dal padre, Charles Schweitzer, che insegnava tedesco. Fu lui a dare a Sartre i primi rudimenti di letteratura avviandolo alla musica e alla filosofia.

Come ha vissuto Sartre il rapporto con la madre, con il padre e con i nonni?

Sartre scrive i suoi ricordi in "Le parole". Da quei ricordi emerge un'infanzia sofferente in un ambiente malato di assolutismo nel quale Sartre ha adattato la propria struttura emotiva e la propria capacità di percepire il mondo.

Scrive Sartre in "Le parole":

Anne-Marie, la figlia minore, passò l'infanzia su una sedia. Le insegnarono ad annoiarsi, a reggersi ritta, a cucire. Aveva certe capacità: credettero distinto non coltivargliele; aveva lo splendore della gioventù: si preoccuparono di celarglielo. Questi borghesi modesti e fieri consideravano la bellezza al di sopra dei loro mezzi o al di sotto del loro stato sociale; la consentivano alle marchese e alle puttane. Louise aveva il più arido orgoglio: per paura d'esser vittima d'un inganno, negava nei suoi figli, in suo marito, in lei stessa, le qualità più evidenti; Charles non sapeva riconoscere la bellezza negli altri: la confondeva con la salute: della malattia di sua moglie, si consolava con idealiste robuste, baffute e colorite, in ottima salute. Cinquant'anni dopo, sfogliando un album di famiglia, Anne-Marie s'accorse di esser stata bella. All'incirca nello stesso periodo in cui Charles Schweitzer incontrava Louise Guillemin, un medico di campagna sposò la figlia di un ricco possidente perigordino e mise su casa con lei nella triste via principale di Thiviers, di fronte alla farmacia. Il giorno dopo il matrimonio, si scopri che il suocero era senza un soldo. Sdegnato, il dottor Sartre per quarant'anni non rivolse la parola alla moglie: a tavola si esprimeva a cenni, e lei fini per chiamarlo «il mio dozzinante ». Egli tuttavia aveva parte al suo letto e, senza una parola, di tanto in tanto la metteva incinta: lei gli regalò due maschi e una femmina; questi figli del silenzio ebbero nome Jean-Baptiste, Joseph e Hélène. Hélène sposò sul tardi un ufficiale di cavalleria che diventò pazzo; Joseph fece il militare negli zuavi e si ritirò presto a casa dei genitori. Non aveva una professione: preso tra il mutismo dell'uno e gli stridii dell'altra, diventò balbuziente e passò la vita a battagliare con le parole. Jean-Baptiste volle fare i corsi di scuola navale, per vedere il mare. Nel 1904, a Cherbourg, ufficiale di marina e già roso dalle febbri cocincinesi, conobbe Anne-Marie Schweitzer, s'impossessò di questa ragazzona abbandonata, la sposò, le fece fare un figlio al galoppo, io, e tentò di rifugiarsi nella morte.
Morire non è facile: la febbre intestinale cresceva senza fretta, vi furono momenti di tregua. Anne-Marie lo curava con dedizione, ma senza spinger l'indecenza fino ad amarlo. Louise l'aveva predisposta contro la vita coniugale: dopo nozze di sangue, era un séguito infinito di sacrifici, intervallato da trivialità notturne. Sull'esempio di sua madre, mia madre preferì il dovere al piacere. Non aveva conosciuto molto mio padre, né prima né dopo il matrimonio, e doveva chiedersi a volte perché questo estraneo avesse scelto di morire fra le sue braccia. Lo trasportarono in un podere a qualche lega da Thiviers; suo padre veniva a visitarlo ogni giorno in carretta. Le veglie e le preoccupazioni sfinirono Anne-Marie, le andò via il latte, mi misero a balia non lontano di li, e anch'io m'applicai a morire: di enterite e, forse, di risentimento. A vent'anni, senza esperienza né consigli, mia madre si lacerava tra due moribondi sconosciuti; il suo matrimonio di ragione trovava la sua verità nella malattia e il lutto.
Quanto a me, traevo partito dalla situazione: in quell'epoca le madri allattavano loro stesse e per lungo tempo; senza la sorte di questa doppia agonia, sarei stato esposto alle difficoltà di uno svezzamento tardivo. Malato, divezzato a forza a nove mesi, la febbre e l'abbrutimento m'impedirono di sentire l'ultimo colpo di forbici che taglia i legami della madre col figlio; sprofondai in un mondo confuso, popolato di allucinazioni semplici e di idoli frusti. Alla morte di mio padre, Anne-Marie e io ci risvegliammo da un incubo comune; guarii. Ma eravamo vittime d'un malinteso: lei ritrovava con amore un figlio mai veramente abbandonato; io riprendevo conoscenza sulle ginocchia d'un'estranea.
Senza danaro né mestiere, Anne-Marie decise di tornare a vivere dai genitori. Ma l'insolente trapasso di mio padre aveva disgustato gli Schweitzer: era troppo simile a un ripudio. Per non aver saputo né prevederlo né prevenirlo, mia madre fu considerata colpevole: aveva preso, sventatamente, un marito che non aveva fatto nessuna riuscita. Per la lunga Arianna che ritornò a Meudon con un bambino fra le braccia, tutti furono perfetti: mio nonno aveva chiesto la pensione, e riprese il servizio senza una parola di rimprovero; perfino mia nonna si ebbe il suo trionfo, ma con discrezione. Ma Anne-Marie, raggelata di riconoscenza, dietro un modo di comportarsi così corretto intuiva il biasimo: le famiglie, certo, preferiscono le vedove alle ragazze madri, ma di stretta misura. Per ottenere il perdono si prodigò senza risparmio, resse la casa dei genitori, a Meudon poi a Parigi, si fece governante, infermiera, maggiordomo, dama di compagnia, fantesca, senza poter disarmare la muta irritazione della madre. Louise trovava fastidioso predisporre i pasti ogni mattina e fare i conti ogni sera, ma mal sopportava che qualcuno se ne occupasse al suo posto; si lasciava sgravare dei suoi obblighi irritandosi di perdere le proprie prerogative. Questa donna cinica che si faceva vecchia aveva una sola illusione: si credeva indispensabile. L'illusione svanì: Louise si mise ad invidiare sua figlia. Povera Anne-Marie: passiva, l'avrebbero accusata d'essere di peso; attiva, la sospettavano di voler dettar legge in casa. Per evitare il primo scoglio ella ebbe bisogno di tutto il suo coraggio, per evitare il secondo le fu necessaria tutta la sua umiltà. Non fu necessario troppo tempo perché la giovane vedova ridiventasse minorenne: una vergine con una macchia. Non le negavano il danaro per le piccole spese: ci si dimenticava di darglielo; ella consumò il suo guardaroba fino alla trama, senza che mio nonno pensasse a rinnovarglielo. Si tollerava appena che ella uscisse da sola. Quando le sue vecchie amiche, sposate per lo più, l'invitavano a cena, era necessario sollecitare il permesso molto tempo prima e promettere che la si sarebbe riaccompagnata a casa prima delle dieci. A metà cena il padrone di casa si alzava da tavola per ricondurla in vettura. Nel frattempo, in camicia da notte, mio nonno misurava a grandi passi la stanza da letto, con l'orologio in mano. All'ultimo rintocco delle dieci, tuonava. Gli inviti divennero più rari, e mia madre perse il gusto a piaceri di cosi caro prezzo. La morte di Jean-Baptiste fu il caso di maggior conto della mia vita: restituì mia madre alle sue catene e mi diede la libertà.

Sartre, Le parole, il Saggiatore, 1964, p. 14 – 17

Nel 1917 la madre si risposa col direttore dei cantieri navali di La Rochelle e va a vivere a La Rochelle. A La Rochelle Sartre fu vittima di bullismo? Se si, questo spiegherebbe sia la voglia di emergere (promuovere sé stesso) sia una certa riluttanza ad esporsi (come durante la seconda guerra mondiale). E' proprio di chi ha subito bullismo lo sviluppo del desiderio di prevalere rispetto ai bulli nell'apprezzamento sociale e, nello stesso tempo, la paura di esporsi per non provare il dolore di nuovi "bullismi".

Sembra che la passione per la filosofia sia venuta a Sartre negli anni '20 con la lettura di Bergson. Nel frattempo frequentò una scuola privata di Parigi in cui studiò, conseguendo i relativi certificati in logica, storia della filosofia, filosofia generale, etica, psicologia e altro con il diploma d'études superiéures. Si laurea con una tesi su "L'immagine della vita psicologica: ruolo e natura". Fra il 1921 e il 1922 Sartre consegue il "baccalaureato" e nel 1924 è ammesso alla Scuola Normale di Parigi.

Intanto Sartre stringe amicizia con Raymond Aron e frequenta una serie di incontri settimanali con Alexandre Kojève.

Dal 1924 al 1928 Sartre frequenta la Scuola Normale di Parigi. In questi anni conosce Simone de Beauvoir alla quale sarà legato per tutta la vita.

Nel 1929 Sartre è abilitato all'insegnamento.

Fra il 1929 e il 1931 Sartre presta servizio militare nel servizio meteorologico a Tours.

Fra il 1931 e il 1933 Sartre inizia ad insegnare filosofia a Le Havre, ma poco dopo cessa l'insegnamento per essere mandato a Berlino con una borsa di studio rimanendo a Berlino fino al 1934. Come docente di filosofia vive passivamente il passaggio dalla democrazia tedesca alla dittatura hitleriana. Durante la trasferta a Berlino, Sartre leggerà Husserl, Heidegger e Scheler e ne rimarrà affascinato per tutta la vita.

Tornato in Francia, torna all'insegnamento a Le Havre dove rimarrà dal 1934 al 1936 e nel 1936 pubblicherà il suo saggio filosofico: "L'immaginazione".

Fra il 1936 e il 1937 sarà insegnante a Laon per passare dal 1937 al 1939 al liceo Pasteur di Parigi.

Fra il 1938 e il 1939 Sartre pubblica il romanzo "La nausea" e la raccolta di novelle "Il muro". Nei due libri sono esposti alcuni elementi della filosofia esistenzialista.

Scrive Sartre ne "Il muro":

Mi avvicinai. Egli si alzò e mi prese per il braccio guardandomi con un'aria da farmi sprofondare sotterra. Al tempo stesso mi stringeva i bicipiti con tutte le sue forze. Non era per farmi male, era una messa in scena: voleva dominarmi. E trovava anche necessario mandarmi il suo alito putrido in piena faccia. Restammo per un momento cosi, a me veniva piuttosto voglia di ridere. Ci vuol altro per intimidire un uomo in procinto di morire: non attaccava. Quello mi respinse violentemente e si sedette di nuovo. Disse: « E' la tua vita contro la sua. Ti lasciamo salva la vita se ci dici dov'è.»
Questi due tipi gallonati con i loro stivaloni e i loro frustini, dopotutto erano uomini che sarebbero morti. Un po' più tardi di me, ma non tanto. E si occupavano a cercar nomi sui loro scartafacci, ricercavano altri uomini per incarcerarli o sopprimerli; avevano delle opinioni sull'avvenire della Spagna e su altri soggetti. Le loro piccole attività mi parevano urtanti e buffonesche: non mi riusciva più di mettermi al loro posto, mi sembravano pazzi.
L'ometto grasso continuava a guardarmi, battendosi gli stivali col frustino. Ogni suo gesto era calcolato per dargli l'aria d'una bestia pronta e feroce. «Allora? Capito?» «Non so dov'è Gris,» risposi. «Credevo fosse a Madrid.»
L'altro ufficiale alzò la mano pallida con indolenza. Anche quest'indolenza era calcolata, Vedevo tutti i loro piccoli maneggi ed ero stupefatto che ci fossero uomini che si divertissero a queste cose. «Avete un quarto d'ora per riflettere,» egli disse lentamente.
«Conducetelo al guardaroba, lo ricondurrete fra un quarto d'ora. Se continua a negare, sarà fucilato all'istante.»
Ci sapevano fare: avevo passato la notte in aspettativa; dopo m'avevano fatto aspettare ancora un'ora nella cantina mentre fucilavano Tom e Juan e adesso mi rinchiudevano nel guardaroba: dovevano aver preparato il loro piano fin dal giorno prima. Avevano dovuto dirsi che i nervi si spossano a lungo andare e in tal modo speravano di avermi.

Jean Paul Sartre, Il muro, Mondadori, 1980, p. 48 – 49

L'esistenza dell'uomo che si dibatte fra il dovere morale dell'obbedienza in quanto creato da Dio e le necessità dell'individuo di riaffermare sé stesso in un contesto che tende a dominarlo.

L'inganno e la menzogna che inganna l'ingannatore dandogli un'idea di onnipotenza immortale fintanto che la sua azione tende a dominare qualcuno.

Non si tratta della menzogna per la menzogna, dove la menzogna in sé non esiste in quanto ha il suono della necessità per chi la pronuncia, si tratta della necessità di dominare l'uomo come ristoro all'arsura provocata dal fallimento esistenziale di un uomo che si è dimenticato di essere il padrone dei propri mutamenti e del proprio divenuto. La menzogna che come un velo copre gli occhi di Sartre e gli impedisce di vedere il futuro che ha visto germinare nel suo soggiorno a Berlino.

Nel 1940 Sartre pubblica "Immagine e coscienza" dove il dramma dell'uomo e, contemporaneamente, la sua libertà hanno la sua realizzazione nell'immagine.

Sartre viene fatto prigioniero dai tedeschi il 21 giugno 1940 a Padoux in Lorena. Viene internato prima a Nancy e poi nel campo di Treviri (Stalag 12 D). Durante la prigionia approfondisce le idee naziste di Heidegger in "Essere e tempo". Dal campo di prigionia viene liberato dai tedeschi perché Sartre si fa passare per un civile. A Parigi riprende l'insegnamento al liceo Pasteur di Parigi e poi nel 1941 prende il posto di un insegnante ebreo a cui il governo di Vichy ha vietato l'insegnamento al Lycée Condorcet di Parigi.

Fra il 1942 e il 1944 Sartre pubblica un dramma "Le mosche" e il suo trattato di ontologia fenomenologica "L'essere e il nulla".

Sartre vive Parigi sotto l'occupazione tedesca. Si tratta di una condizione molto particolare che mettendo in relazione la condizione soggettiva di Sartre e l'oggettività della situazione prodotta dall'occupazione nazista della Francia ci svela non solo l'atteggiamento dei francesi rispetto al nazismo come ideologia, ma di Sartre rispetto all'occupante che è allo stesso tempo straniero e portatore dell'ideologia nazista.

Sartre ha combattuto o non ha combattuto contro lo straniero durante l'occupazione? Sartre ha combattuto o non ha combattuto contro l'ideologia nazista? Ha preso o non ha preso il posto di un insegnante allontanato perché ebreo avallando, di fatto, le leggi razziali? Si è opposto all'ideologia nazista di Heidegger oppure ha scritto la sua ideologia esistenzialista in continuità con l'ideologia di Heidegger reiterando, di fatto, la stessa ideologia nazista veicolandola con una diversa forma o con modelli diversi?

La domanda da porsi è questa: che cosa è Sartre nel suo mondo?

Scrive François Noudelmann in "Il genio della menzogna – I filosofi sono dei gran bugiardi?":

Chi ha un'immagine di Sartre come un autore sicuro di sé, che offre lezioni politiche, resterebbe sorpreso nello scoprirlo così incerto e anche così leggero. Eppure, numerosi scritti testimoniano dei suoi dubbi, della sua preoccupazione ad accettare l'esistenza, nonostante l'impossibilità di aderirvi e di riconoscersi in essa. "Bisogna essere fatti di argilla, sono fatto di vento", si rammarica, pur volendo procedere in modo diretto. Sartre è un uomo che galleggia sulla superficie delle cose, anche se si sente colpevole di una simile inconsistenza. Di fatto, la questione della responsabilità, corollario di una teoria della libertà che obbliga gli uomini a definirsi soltanto a partire dalle loro scelte, costituisce 1'ossessione morale dei testi di Sartre. Anche se non è soggetto alla paranoia, come Rousseau che sospetta che il mondo intero lo accusi, nelle sue opere teatrali Sartre mette comunque in scena un tribunale permanente. Da Le mosche a I sequestrati di Altana, i suoi personaggi principali sono sottomessi ai giudizi altrui e rendono conto degli atti che hanno compiuto, o più spesso, che avrebbero dovuto compiere. L'opera più famosa, A porte chiuse, presenta come una tortura il ricorso infinito alla scelta da parte di tre personaggi che cercano di giustificare le loro azioni e le loro inazioni. Che quest' opera sia stata scritta alla fine della guerra e che il personaggio maschile vi incarni un uomo vile, invischiato nelle sue menzogne, ciò porta l'attenzione non soltanto verso le tesi di Sartre sull'altro, ma anche verso 1'autore e la sua situazione nel 1944. Dopo aver mentito e gridato all'errore giudiziario che li ha portati all'inferno, i personaggi di A porte chiuse finiscono per ammettere che bisogna dire la verità. Ma quale verità esattamente? Quella dei fatti non è sufficiente e Sartre suggerisce che la verità non può essere stabilita in modo definitivo perché è sempre sospesa alla coscienza e al tempo: deve essere vissuta come tale da chi la pronuncia e presuppone uno sguardo retrospettivo del presente sul passato. Sartre vuole fondare la verità e la menzogna non tanto su un'affermazione che sarebbe oggettivamente vera o falsa, ma sulla relazione con se stessi. Al pari di Rousseau, non smette di riflettere su queste nozioni e di attingere in fondo a sé le motivazioni del parlare vero o del parlare menzognero. E' nella sua opera di filosofia, L'essere e il nulla, pubblicata nel 1943, nel momento in cui insegna a Parigi sotto 1'occupazione tedesca, che Sartre scrive sulla menzogna. Propone di distinguere la menzogna intenzionale - esercizio dell'inganno di chi conosce la verità - dalla menzogna verso se stessi, che chiama "cattiva fede". Questa tesi, diventata celebre, mira a circoscrivere una condotta della coscienza che abdica la sua libertà per esistere secondo la modalità delle cose. L'individuo di cattiva fede è persuaso di non poter agire diversamente da come ha agito, a causa delle circostanze o della sua presunta natura. Vittima di se stesso, utilizza una semi-persuasione che gli permette di sfuggire alle sue responsabilità. La cattiva fede è quindi l'attitudine di una coscienza che è tormentata da una libertà che sfugge. Nonostante Sartre la condanni, non le oppone una "buona fede" o la sincerità - come invece faceva Rousseau - perché sa che anche queste rientrano nella mistificazione.

François Noudelmann, "Il genio della menzogna – I filosofi sono dei gran bugiardi?", Raffaello Cortina editore, 2018, p. 98 – 99

La menzogna e l'inganno non è solo l'oggetto della filosofia esistenzialista di Sartre, ma è un vero e proprio metodo di vita con cui Sartre affronta le condizioni e le contraddizioni della sua esistenza. Un modo di tradurre in astratto lo stridere fra ciò che Sartre vorrebbe essere, in funzione di una morale cristiana impostagli nell'infanzia, e ciò che la realtà lo costringe ad essere proprio in funzione della morale che gli è stata imposta nell'infanzia.

Gli stessi atti che Sartre ha compiuto sotto l'occupazione tedesca di Parigi oscillano fra la complicità con l'ideologia nazista dell'occupante tedesco (prende il posto del docente ebreo allontanato dal liceo) e un desiderio di "resistenza" del nazionalista francese che però viene annichilito e assopito dalla contiguità ideologica fra il suo pensiero e l'ideologia nazista. Come Sartre non è il democratico che si oppone all'assolutismo nazista perché, tutto sommato, a lui il nazismo piace, così non è nemmeno il francese che resiste all'invasore tedesco.

Nel 1941 Sartre partecipa alla formazione di un gruppo di scrittori e di studenti della Ecole Normale per la "resistenza" ai tedeschi. Il gruppo si denomina "Socialismo e libertà" e si propone azioni di resistenza all'occupazione tedesca. Sartre propose l'uccisione di Marcel Déat ministro del lavoro nel governo collaborazionista di Vichy e fondatore del partito nazista francese denominato "Raggruppamento nazional popolare" fondato nel 1941. La proposta venne respinta dal gruppo che, secondo la Beauvoir, non si ritenevano preparati (leggi: veramente intenzionati) a mettere bombe o a combattere.

Sartre e la Beauvoir compirono un viaggio in Costa azzurra per tentare di arruolare André Gide, uno scrittore francese premio nobel nel 1947, e André Malraux, un politico che come "comunista" fu in Cina dal 1927 al 1928 e partecipò alla resistenza spagnola contro Franco finendo per convertirsi al nazionalismo e diventare ministro con De Gaulle.

Sia Gide che Malraux vedono con titubanza e sospetto l'azione di Sartre e Sartre, deluso dall'incontro, preferisce sciogliere il gruppo clandestino "Socialismo e libertà" e dedicarsi ai suoi studi indifferente dell'occupazione nazista di Parigi. Mentre il nazismo si è presentato nell'Unione Sovietica con l'obbiettivo di sterminare e ridurre gli slavi in schiavitù, in Francia il nazismo si presenta col "volto gentile" bloccando, di fatto, ogni resistenza della popolazione francese all'occupazione nazista.

Questo stato d'animo di Sartre è espresso nel saggio "Parigi sotto l'occupazione" in cui Sartre afferma che l'atteggiamento dei nazisti, che definisce "corretto" (poteva definirlo opportunista), aveva intrappolato i parigini in una sorta di tacita complicità con l'occupazione nazista. L'Abwehr, il servizio segreto militare tedesco che ha operato in Francia durante l'occupazione, ha arruolato decine di migliaia di collaborazionisti francesi.

Scrive il sito: fondazionemicheletti.eu/contents/26-lezioni-novecento/allegati/

Il disastroso crollo militare e politico può spiegare quello morale durante i cinque lunghi anni di occupazione tedesca. Meno spiegabile la rimozione – in parte anche storiografica – dell’estesa fraternizzazione e delle corresponsabilità francesi nei crimini degli occupanti nazisti. Nella Parigi occupata, da cui due milioni di abitanti (su tre) erano fuggiti, molti furono i simpatizzanti nazisti, sostenuti da giornali e partiti dichiaratamente collaborazionisti e antisemiti. Un’effimera quanto ambigua fioritura artistica e intellettuale mobilitò riviste, case editrici, studi cinematografici; teatri e riviste registrarono costantemente il “tutto esaurito”, e la grande industria scoprì i vantaggi di produrre per il nuovo onnipotente alleato. La polizia collaborò senza incrinature alla repressione e deportazione di oppositori ed ebrei, quella di Vichy consegnò 24.000 ebrei “stranieri” alla Gestapo. Vi furono anche decine di migliaia di volontari francesi combattenti nelle file dell’esercito nazista. La rimozione fu avviata già durante l’epurazione: su oltre 300.000 dossier, vi furono 127.000 processi per collaborazionismo con 97.000 condanne, di cui solo 38.000 comportanti la prigione, condanne peraltro ripetutamente amnistiate (nel 1947, ’51 e ’53).

Fonte: fondazionemicheletti.eu/contents/26-lezioni-novecento/allegati/

Dire che Sartre fu un collaborazionista è eccessivo, certamente fu un collaboratore intellettuale che scriveva articoli sui giornali controllati dall'occupazione nazista come scriveva, nello stesso tempo, in fogli clandestini come il Combat di Albert Camus. Vladimir Jankelevitch ha criticato Sartre per la mancanza di impegno politico durante l'occupazione nazista.

Sulla malafede e la sincerità Sartre scrive un capitolo in "L'essere e il nulla". Un capitolo che odora di confessione e giustificazione per l'assenza e il sottrarsi dell'uomo dal mondo.

Scrive Sartre:

In tali condizioni, che cosa significa l'ideale di sincerità, se non un compito impossibile da adempiere e il cui significato stesso è in contraddizione con la struttura della coscienza? Essere sincero, dicevamo, è essere ciò che si è. Ciò presuppone che io non sia all'origine ciò che sono. Qui naturalmente, è sottinteso il «tu devi, dunque puoi» di Kant. Posso divenire sincero: ecco ciò che implicano il mio dovere e il mio sforzo di sincerità. Ora, precisamente, constatiamo che la struttura originaria del «non essere ciò che si è» rende anticipatamente impossibile ogni divenire verso l'essere in sé o «essere ciò che si è». E questa impossibilità non è nascosta alla coscienza; è invece proprio il fondo della coscienza, la pena costante che si prova, è l'incapacità stessa a riconoscerci, a organizzarci a essere ciò che siamo, è la necessità che esige che dopo aver posto noi stessi come un certo essere mediante un giudizio legittimo, fondato sull'esperienza interna, o correttamente dedotto da premesse a priori o empiriche, con questa stessa posizione superiamo noi stessi, e non verso un altro essere: verso il vuoto, verso il niente. Come dunque possiamo biasimare altri di non essere sincero e compiacerei della nostra sincerità, se nello stesso momento la sincerità ci appare come impossibile? Come possiamo anche solo avviare, nel discorso, nella confessione, nell' esame di coscienza, uno sforzo di sincerità, se sappiamo che lo sforzo sarà per essenza votato alla sconfitta e, che nel momento stesso in cui l'annunciamo, abbiamo già una visione pregiudiziale della sua vanità? Infatti quando mi esamino, devo determinare esattamente ciò che sono, per risolvermi a esserlo senza sotterfugi, salvo poi a mettermi, in seguito, alla ricerca dei mezzi che potranno cambiarmi. Ma che significa questo, se non che dovrei costituirmi come una cosa? Determinerò l'insieme dei motivi e dei moventi che mi hanno spinto a compiere l'una o l'altra azione? Ma è già postulare un determinismo causale che organizzi il flusso delle mie coscienze come un seguito di stati psichici. Scoprirò in me «tendenze» magari per confessarmele con vergogna? Ma non è questo un dimenticare deliberatamente che le tendenze si realizzano con il mio concorso, non sono forze di natura, ma io presto loro efficienza con una perpetua decisione sul loro valore? Darò un giudizio sul mio carattere, la mia natura?

Sartre, L'essere e il nulla, il Saggiatore, 2013, p. 100

Sartre, come un novello Socrate cerca di "conoscere sé stesso", ma la conoscenza non è un oggetto distinto dall'uomo. La coscienza è la somme delle esperienze che l'uomo fa nel suo agire nel mondo in cui vive. Dunque, non cerchi un qualche cosa che già esiste, ma devi costruire ciò che non è in te per costruire la tua esistenza. Da qui il fallimento dell'esistenzialismo come il fallimento di Socrate e di tutti coloro che pensano l'uomo come creato e finito che va cercato per identificare la sua realtà. Ma la realtà dell'uomo, la nostra realtà, è ciò che siamo e se vogliamo qualche cosa che in questo momento non appartiene alla nostra coscienza e alla nostra esistenza dobbiamo lavorare per modificare il presente con cui noi ci presentiamo nel mondo.

Sartre chiede di avviare uno sforzo di sincerità nonostante lo sforzo è destinato alla sconfitta perché quando Sartre si esamina "VUOLE" "determinare esattamente ciò che è" e poi cercare i mezzi per poter cambiare. In sostanza, immagina un sé stesso diverso da ciò che è e vuole che la realtà di sé stesso coincida col modello immaginato. Lo stesso identico percorso del cristiano che immagina Dio e desidera essere uguale a Dio perché, in fondo, il dio che immagina è solo il cristiano, sé stesso, proiettato all'ennesima potenza.

Lo stesso vale per un'altra domanda che si pone Sartre quando si chiede: " Determinerò l'insieme dei motivi e dei moventi che mi hanno spinto a compiere l'una o l'altra azione?". Un'azione non è prodotta da motivi razionali. I motivi razionali tendono solo a giustificare l'azione che è stata fatta come risposta alle sollecitazioni esterne che hanno messo in moto il desiderio di adattamento soggettivo. Scoprirò in me stesso… dice Sartre, ma Sartre non si è rivelato a Sartre. Sartre è cresciuto in un ambiente al quale ha risposto con i suoi adattamenti soggettivi. Poi, un giorno, si è ritirato dall'ambiente. Ha cessato di crescere e quando si cessa di crescere, negando le spinte che crescono dentro di noi sollecitate dal nostro "corpo desiderante", ci si separa dal mondo e si attende soltanto la morte del corpo fisico e la fine della coscienza. Potevamo continuare a crescere mettendo in atto azioni nel mondo e, invece, si attende la morte. Sartre ha la necessità di occupare lo spazio dell'attesa della morte. Attendere produce noia. Così Sartre preferisce lavorare di fantasia per uccidere la noia e preferisce cercare un "modello d'uomo" che immagina abiti dentro di lui e dal quale si sente separato.

Da qui prende avvio il concetto di malafede sartriana. Il modello morale che Sartre ha nella testa è violento, faticoso, incivile ed estraneo al mondo. E' un modello nato nella testa di altri che non può essere trasferito alle proprie mani perché le proprie mani devono agire nel mondo mentre il modello morale, imposto, pretende di controllare l'azione che, per questo, diventa incapace di rispondere alle sollecitazioni del mondo.

Io sono sincero, io sono in malafede: ma che significa?

Che forse il mondo in cui vivo è sincero? Il mondo in cui vivo è in malafede? Infinite cause muovono il mondo e nessuna di esse ha un valore morale che possa essere pensato in una categoria di assoluto. Non solo tutto è relativo nel momento e nella situazione in cui si esprime, ma è relativo anche rispetto al giudizio con cui io affronto il mondo quando il mio giudizio risponde ai miei bisogni e alle mie necessità che come corpo desiderante vivo una realtà di corpi desideranti. I corpi desideranti desiderano e il loro desiderare è al di là delle categorie della sincerità o della malafede perché il desiderare si presenta con l'intenzione di soddisfare sé stesso perché solo in quel modo il desiderio costruisce l'individuo e lo modifica giorno dopo giorno.

Scrive ancora Sartre:

Ma non è questo un nascondermi, nel medesimo istante - ciò che so benissimo - che io giudicherò così un passato al quale il presente sfugge per definizione? La prova ne è che lo stesso uomo che, in sincerità, afferma che egli è ciò che, di fatto, era, si indigna contro l'ostilità di altri e tenta di disarmarla affermando che non potrebbe più essere ciò che era. Ci si meraviglia e ci si addolora facilmente, perché le sanzioni dei tribunali colpiscono un uomo, che nella sua nuova libertà non è più il colpevole che era. Ma, in pari tempo, si esige da quest'uomo che si riconosca come se fosse quel colpevole. Che è dunque la sincerità, se non precisamente un fenomeno di malafede? Non abbiamo infatti dimostrato che, nella malafede, si tratta di costituire la realtà umana come un essere che è ciò che non è, e che non è ciò che è? Un omosessuale ha frequentemente un intollerabile sentimento di colpevolezza e la sua esistenza intera si determina in rapporto a questo sentimento. Se ne dedurrà facilmente che è in malafede. E, infatti, succede spesso che quest'uomo, pur riconoscendo la sua propensione omosessuale, pur ammettendo una per una ogni singola colpa che commette, rifiuta con tutte le forze di considerarsi un pederasta. TI suo caso è sempre «a parte», speciale; c'entra del gioco, del caso, della sfortuna; sono degli errori passati, si spiegano con una certa concezione del bello che le donne non potrebbero soddisfare, bisogna vedervi gli effetti di una ricerca inquieta piuttosto che le manifestazioni di una tendenza profondamente radicata ecc. Ecco sicuramente un uomo in malafede che rasenta il comico poiché, riconoscendo i fatti che gli sono imputati, rifiuta di trame la conseguenza che si impone. Anche l'amico che è il suo più severo censore si irrita di questa duplicità; il censore non domanda che una cosa, e forse allora si mostrerà indulgente, che il colpevole si riconosca colpevole, che l'omosessuale dichiari senza sotterfugi - in umiltà o con ostentazione poco importa - lo sono un pederasta. Domandiamoci: chi è in malafede? L'omosessuale o il campione della sincerità? L'omosessuale riconosce le sue colpe, ma lotta con tutte le forze contro la schiacciante prospettiva che i suoi errori costituiscono per lui un destino. Non si vuole lasciare considerare come una cosa: ha l'oscura, ma forte convinzione che un omosessuale non è un omosessuale come questo tavolo è tavolo o come quest'uomo rosso è rosso. Gli sembra di sfuggire a ogni errore per il fatto che lo pone e lo riconosce, meglio ancora per il fatto che la durata psichica, per se stessa, lo lava da ogni colpa, gli compone un avvenire indeterminato, lo fa rinascere di nuovo. Ha torto? Non viene forse a riconoscere spontaneamente il carattere singolare e irriducibile della realtà umana? TI suo atteggiamento implica dunque una innegabile comprensione della verità. Ma, nello stesso tempo, ha bisogno di questa perpetua rinascita, di questa costante evasione per vivere; gli è necessario mettersi costantemente fuori tiro per evitare il giudizio terribile della collettività. Così egli gioca sulla parola essere. Avrebbe ragione in realtà se intendesse questa frase «Io non sono un pederasta» nel senso «Io non sono quello che sono». Cioè, se dichiarasse «nella proporzione in cui una serie di comportamenti sono definiti comportamenti da pederasti, e io ho assunto tale comportamento, io sono un pederasta. Nella misura in cui la realtà umana sfugge a ogni determinazione per mezzo di comportamenti, io non lo sono». Ma egli scivola accortamente verso un'altra accezione della parola «essere». Intende «non essere» nel senso di «non essere in sé». Dichiara di «non essere pederasta» nel senso in cui questo tavolo non è un calamaio. E' in malafede.

Sartre, L'essere e il nulla, il Saggiatore, 2013, p. 100 – 102

Quanto Sartre afferma è falso e profondamente offensivo nei confronti della vita umana.

Non è l'omosessuale in malafede che non riconosce le proprie pulsioni, è una società che vuole a tutti i costi criminalizzare l'omosessuale partendo dalla censura delle sue pulsioni. Quando la società aggredisce le persone è nel diritto delle persone difendersi e l'ipocrisia sta nella violenza della criminalizzazione non nella necessità di difendere sé stessi dalla violenza.

Sartre, come esistenzialista, ha l'idea di violenza piantata nella propria testa. Tutto è violenza. Tutte le contraddizioni della vita, per Sartre, si risolvono nella violenza perché non sa vedere altra soluzione delle contraddizioni nella vita degli uomini. Così esalterà la violenza di Che Guevara o la violenza dei Vietcong senza distinguere le condizioni diverse della violenza quando i Vietcong non fanno violenza ma difendono sé stessi dalla violenza mentre, Che Guevara, ha solo l'idea della violenza come unica soluzione dei problemi.

La stessa ottica di Sartre vale per gli omosessuali. Gli omosessuali non sono ipocriti. Ipocriti e violente sono le Istituzioni che negano la dignità dell'uomo pretendendo di possedere gli uomini e imponendo loro comportamenti morali predeterminati in funzione dei propri interessi.

Da esistenzialista Sartre non è in grado di censurare i comportamenti sociali contro il singolo individuo in quanto ritiene che l'oggettività sia giusta in quanto "determinata da Dio" (anche se dice di non credere in Dio, di fatto agisce veicolando il sistema logico che ha nel Dio cristiano la sua fonte). Per Sartre è l'individuo omosessuale che è sbagliato, non la società che perseguita il singolo individuo.

Sartre continua dicendo:

Ma il campione della sincerità non ignora la trascendenza della realtà umana, e sa, al bisogno, rivendicarla a suo vantaggio. Se ne giova anzi e la pone nella sua esigenza presente; non vuole, forse, in nome della sincerità - dunque della libertà - che 1'omosessuale si rivolga su se stesso e si riconosca omosessuale, non lascia intendere che una simile confessione gli attirerà l'indulgenza? Che significa ciò, se non che l'uomo che si riconoscerà omosessuale non sarà più lo stesso dell'omosessuale che riconosce di essere ed evaderà nella regione della libertà e della buona volontà? Gli domanda dunque di essere ciò che è per non essere più ciò che è. E' il senso profondo della frase «Peccato confessato mezzo perdonato». Pretende dal colpevole che si costituisca come una cosa, proprio per non trattarlo più come cosa. E questa contraddizione è essenziale all' esigenza di sincerità. Chi non vede, infatti, ciò che vi è di offensivo per altri e di rassicurante per me in una frase come «Bah! è un pederasta», che cancella d'un tratto un'inquietante libertà e mira ormai a costituire tutti gli atti altrui come delle conseguenze che sgorgano rigorosamente dalla sua essenza? Ecco pertanto ciò che il censore esige dalla sua vittima: che si costituisca come cosa, che gli rimetta la sua libertà come un feudo, per rendergliela poi come il signore al vassallo. Il campione della sincerità, nella misura in cui vuole rassicurarsi, quando pretende di giudicare, nella proporzione in cui domanda a una libertà di costituirsi, in quanto libertà, come cosa, è in malafede. Si tratta solo di un episodio di quella lotta a morte delle coscienze che Hegel chiama «il rapporto del padrone e dello schiavo». Ci si rivolge a una coscienza per chiederle, in nome della sua natura di coscienza, di distruggersi radicalmente come coscienza, facendole sperare, dopo la distruzione, una rinascita.
Sia pure, si dirà, ma il nostro uomo si fa qui abusivamente della sincerità un'arma contro altri. Non bisogna andare a cercare la sincerità nelle relazioni del Mit-Sein, ma là, dove essa è pura, nelle relazioni con se stesso. Ma chi non vede che la sincerità oggettiva si conforma nello stesso modo? Chi non vede che l'uomo sincero si costituisce come una cosa, precisamente per sfuggire a questa condizione di cosa, con l'atto stesso della sincerità? L'uomo che si confessa che è cattivo - ha barattato la inquietante «libertà-per-il male» con un inanimato carattere di cattivo; egli è cattivo, aderisce a se stesso, è ciò che è. Ma contemporaneamente evade da questa cosa, perché è lui che la contempla, dipende da lui tenerla sotto il suo sguardo o lasciarla sprofondare in un'infinità di atti particolari. Trae un merito dalla sua sincerità, e l'uomo che merita non è più il cattivo in quanto cattivo, ma ha già superato la sua cattiveria. In pari tempo, la cattiveria è disarmata, poiché essa non è nulla, fuori dal piano del determinismo e, confessandola, io pongo la mia libertà faccia a faccia con essa; il mio avvenire è vergine, tutto mi è permesso. Così, la struttura essenziale della sincerità non differisce da quella della malafede, perché l'uomo sincero si costituisce come ciò che è per non esserlo. Il che spiega la verità riconosciuta da tutti, che si può cadere in malafede a furia di essere sinceri. Sarebbe, dice Valéry, il caso di Stendhal. La sincerità totale e costante come sforzo continuo per aderire a se stessi, è, di sua natura, uno sforzo costante per rompere la solidarietà con se stessi; ci si libera da sé con l'atto stesso con cui ci si fa oggetti per sé. Erigere l'inventario perpetuo di ciò che si è significa rinnegarsi costantemente e rifugiarsi in una sfera ove non si è nient'altro che un puro e libero sguardo. La malafede, dicevamo, ha per scopo di mettersi fuori tiro, è una fuga. Constatiamo ora che bisogna usare gli stessi termini per definire la sincerità. Che significa questo?

Sartre, L'essere e il nulla, il Saggiatore, 2013, p. 102 – 103

Sartre non censura una società rivolta al male. Che cos'è una società rivolta al male? E' una società che mette in un campo di concentramento morale i comportamenti pulsionali degli individui anziché determinare regole coerenti per la veicolazione di quelle pulsioni nella società.

Sartre non prende in considerazione il fatto che la società offenda l'individuo omosessuale. Non prende in considerazione che la società offende la donna per le proprie pulsioni (la chiama "puttana"). Non prende in considerazione che i bambini sono costretti a subire una violenza emotiva e fisica alla quale non sono in grado di rispondere se non mettendo in atto azioni difensive. Il bambino non mente mai, il bambino si difende dalla violenza come ritiene che sia possibile. Costretto a difendersi, difesa dopo difesa, una volta adulto conosce solo quel metodo per rapportarsi nella società. Non si tratta dell'adulto in malafede, ma si tratta di una società rivolta al male!

Che cos'è la "verità riconosciuta da tutti" se non il frutto della violenza dell'omologazione degli individui imposta dalla società fin dalla primissima infanzia?

La sincerità totale e costante è imposta da Dio all'uomo perché nessun uomo deve mentire a Dio. Ma questa imposizione è l'essenza stessa della violenza. Una violenza assoluta, criminale, che richiede risposte decise perché in gioco c'è la vita stessa sia del singolo che del sistema sociale in cui vive.

Qui non si tratta di difendere il diritto alla menzogna, si tratta di censurare tutte quelle condizioni sociali che provocando dolore nell'individuo lo costringono a violentare sé stesso presentando alla società un volto in contraddizione con il suo animo e il suo desiderio.

In fondo, questa è la guerra che Sartre dichiara ai "marxisti". I "marxisti" vogliono cambiare la società e le condizioni nelle quali l'uomo costruisce sé stesso, Sartre vuole cambiare i "marxisti" affinché riconoscano la società come "la verità riconosciuta da tutti".

Sartre continua scrivendo:

E' che, per concludere, lo scopo della sincerità e quello della malafede non sono diversi. Certo c'è una sincerità che riguarda il passato e che non ci interessa; io sono sincero, se confesso di avere avuto un certo piacere o una certa intenzione. Vedremo che questa sincerità è possibile, perché precipitando nel passato, l'essere dell'uomo si costituisce come un essere in sé. Ma qui ci importa solo la sincerità che si rispecchia nell'immanenza presente. Quale è il suo scopo? Fare che io mi confessi ciò che sono, perché venga a coincidere con il mio essere; in una parola, fare che io sia nel modo dell'in-sé, quel che sono nel modo del «non essere ciò che sono». E il suo postulato è che io sono già in fondo, nel modo dell'in-sé, ciò che devo essere. Così troviamo, in fondo alla sincerità, un incessante gioco di specchi e di riflessi, un perpetuo passaggio dall'essere che è ciò che è all'essere che non è ciò che è, e, inversamente, dall'essere che non è ciò che è all' essere che è ciò che è. E quale è lo scopo della malafede? Fare che io sia ciò che sono nel modo del «non essere ciò che si è» o che io non sia ciò che sono nel modo dell'«essere ciò che si è». Ritroviamo qui lo stesso gioco di specchi. Gli è che, in realtà, perché vi sia intenzione di sincerità, occorre che all'origine io sia e non sia insieme ciò che sono. La sincerità non mi attribuisce una maniera d'essere o una qualità particolare, ma, a proposito di tale qualità, mira a farmi passare da un modo d'essere a un altro. E questo secondo modo d'essere, ideale della sincerità, mi è interdetto, per essenza, di raggiungerlo e, nel momento stesso in cui mi sforzo di raggiungerlo, ho la comprensione sicura e pregiudiziale che non lo raggiungerò. Parimenti, perché possa anche soltanto concepire un'intenzione di malafede, bisogna che, per essenza, sfugga nel mio essere, al mio essere. Se fossi triste o vigliacco, alla maniera in cui questo calamaio è calamaio, la possibilità della malafede non potrebbe neppure essere concepita. Non soltanto non potrei sfuggire al mio essere, ma non potrei neppure immaginare che possa sfuggirvi. Ma la malafede è possibile, a titolo di semplice progetto, in quanto che, realmente, non vi è una differenza così netta fra essere e non essere, quando si tratta del mio essere. La malafede non è possibile se non perché la sincerità è cosciente di mancare al suo scopo per natura sua. Non posso tentare di cogliermi come non essente vigliacco quando lo «sono», se questo «essere vigliacco» non è anch'esso «in questione» nel momento stesso in cui è, se non è anch'esso una questione, se nel momento preciso in cui voglio coglierlo non mi sfugge da ogni parte e si annienta. La condizione perché possa tentare uno sforzo di malafede è che, in certo senso, io non sia quel vigliacco che non voglio essere. Ma se non fossi vigliacco semplicemente nel modo del non-essere-ciò-che-non-si-è, sarei «in buonafede», dichiarando che non sono vigliacco. Così, questo vigliacco inafferrabile, evanescente, che non sono, bisogna anche che lo sia in qualche modo. E non si intenda con questo che io debba essere «un po'» vigliacco nel senso in cui «un po'» significa «in una certa misura vigliacco, e in una certa misura non vigliacco». No: io debbo insieme essere e non essere vigliacco totalmente, e sotto tutti gli aspetti. Così, in questo caso, la malafede esige che io non sia ciò che sono, cioè che ci sia una differenza imponderabile a separare l'essere dal non essere nel modo d'essere della realtà umana. Ma la malafede non si limita a rifiutare le qualità che possiedo, a non vedere l'essere che sono. Tenta anche di attribuirmi un essere che non sono. Mi coglie positivamente come coraggioso, quando non lo sono. E ciò, ancora, è possibile soltanto se io sono ciò che non sono, cioè se il non-essere, in me, non ha neppure l'essere a titolo di non-essere. Senza dubbio è necessario che io non sia coraggioso, se no la malafede non sarebbe «malafede»: Ma bisogna inoltre che il mio sforzo di malafede coinvolga la comprensione ontologica che, nella normalità stessa del mio essere ciò che io sono, non lo sono veramente, e che non c'è tanta differenza, per esempio tra l'essere di «essere triste», il che io sono nel modo di non essere ciò che sono, e il «non essere» del «non-essere-coraggioso» che voglio nascondermi. Bisogna inoltre e soprattutto che la negazione d'essere sia essa stessa l'oggetto di una perpetua nullificazione, che il senso del «non-essere» sia perpetuamente in questione nella realtà umana. Se io non fossi coraggioso nel modo in cui questo calamaio non è un tavolo, cioè se io fossi isolato nella mia vigliaccheria, fissato in essa, incapace di metterla in relazione con il suo contrario, se non fossi capace di determinarmi come vigliacco, cioè di negare da me il coraggio, e così sfuggire alla vigliaccheria nel momento stesso in cui la pongo, se non mi fosse impossibile per principio di coincidere con il mio non essere coraggioso come con il mio essere vigliacco, ogni prospettiva di malafede mi sarebbe interdetta. Così, perché la malafede sia possibile, occorre che la sincerità sia essa stessa in malafede. La condizione di possibilità della malafede è che la realtà umana, nel suo essere più immediato, nell'infrastruttura del cogito preriflessivo, sia ciò che non è e non sia ciò che è.

Sartre, L'essere e il nulla, il Saggiatore, 2013, p. 103 – 105

Cosa sono io?

Cosa sono diventato?

Attraverso quali adattamenti sociali ho forgiato me stesso?

Qual era l'oggettività adattandomi alla quale mi ha costretto ad essere ciò che sono?

Io sono oggettivamente coraggioso, come lo sono tutte le donne e tutti gli uomini, e tu non metti in discussione i miei adattamenti soggettivi. Tu puoi non aver paura di questa brezza, di questo vento leggero, ma io tremo perché il vento leggero mi racconta di una tempesta in arrivo. Chi è coraggioso? Tu che deridi la mia paura per il presente o io che avendo paura inizio ad organizzarmi per uno sconosciuto che bussa alla mia porta?

Menzogna e verità sono categorie proprie dei vigliacchi che imitano il Dio cristiano. L'uomo affronta i problemi della sua esistenza e nell'affrontarli non è mai vigliacco, non è mai impavido, non è mai un eroe come non è mai uno schiavo.

Tutto questo discorso di Sartre sulla malafede descrive molto bene (anche se scritto forse nel 1941) il comportamento di Sartre durante l'occupazione nazista di Parigi. Sartre parla di sé stesso, di come la sua coscienza pensa alla sua malafede, ai suoi inganni per una costante ricerca di un gregge da condurre come un novello messia.

Nel secondo dopoguerra si inizia a costruire la leggenda di Sartre che si avvicina al marxismo tentando di coniugare l'esistenzialismo con il marxismo. Non si tratta di "analizzare la storia" di Sartre, ma di creare la leggenda Sartre. Come si crea la leggenda Sartre? Alimentando l'immaginazione.

Scrive Pietro Chiodi in L'esistenzialismo:

Durante la guerra Sartre fu, prima, prigioniero nei campi di concentramento tedeschi e, poi, membro della Resistenza. Queste esperienze lo condussero a concepire la filosofia come impegno politico e ad avvicinarsi sempre più alle forze rivoluzionarie e socialiste, specialmente durante la guerra d'Algeria, che lo vide schierato a fianco degli insorti. In sede speculativa Sartre si avvicinò sempre più al marxismo; al rinnovamento del marxismo mediante l'esistenzialismo è dedicata la sua ultima opera Critique de la raison dialectique (Critica della ragione dialettica) tomo I, del I960: Sartre è fondatore e direttore della rivista Les Temps Modernes.

Pietro Chiodi, L'esistenzialismo, Loescher editore, Torino, 1970, p. 145

Sartre l'uomo della resistenza francese contro i tedeschi o Sartre il collaborazionista che ha accettato di occupare una cattedra dalla quale è stato cacciato un ebreo?

Come Sartre ha partecipato alla resistenza francese se collaborava anche con giornali che pubblicavano con l'imprimatur dell'occupazione nazista?

Creare una leggenda di un Sartre "rivoluzionario" in un presente in cui infuria la guerra d'Algeria e le atrocità francesi sono ben note o mentre infuria la guerra d'Indocina e le forze francesi stanno per essere spazzate via dal Generale Giap per essere sostituite dalle forze USA. Creare una leggenda di un Sartre che incontra Che Guevara a Cuba e che alimenta un ghevarrismo fine a sé stesso.

Sartre è un esistenzialista che vede fallire l'ideologia esistenzialista e in questo fallimento cerca di coinvolgere i marxisti che in quel momento sono incapaci di una critica filosofica serrata. E mentre i movimenti in Europa simpatizzano per la Cina, ecco Sartre simpatizzare per la Cina: ma perché?

Nel 1945 Sartre fonda la rivista "Les temps Modernes". In questa rivista Sartre scrive di politica, filosofia e letteratura. Nel 1945 Sartre pubblica "L'età della ragione" e i primi romanzi de "Le vie della libertà" insieme a "A porte chiuse".

Nel 1946 Sartre pubblica "L'esistenzialismo è un umanesimo", "Materialismo e rivoluzione", "L'antisemitismo". Oltre ai saggi pubblica due drammi: "La sgualdrina timorata" e "Morti senza tomba". Sempre in quest'anno Sartre, assieme a Simone de Beauvoir, compie un viaggio in Italia. Poi, tornerà più volte in Italia.

Nel 1947 Sartre, deciso a sconfiggere i partiti comunisti, con Rousset, Rosenthal e altre persone fonda un nuovo partito politico: "Rassemblement Démocratique Révolutionnaire". Il tentativo di costruire un partito esistenzialista con una forma marxista ma privato del coinvolgimento delle "classi subalterne" termina in un fallimento, come sarà un fallimento il tentativo di innestare il marxismo sull'esistenzialismo. Il partito di Sartre sarà sciolto l'anno dopo.

Nel 1948 Sartre va in Scandinavia accompagnato da Simone de Beauvoir. Nello stesso anno pubblica un dramma "Le mani sporche", una sceneggiatura cinematografica, "L'ingranaggio". Pubblica anche "Orfeo negro" che viene usato come prefazione alla "Antologia della poesia negra e malgascia".

Nel 1949 viene pubblicato anche "La morte dell'anima" come terzo volume della serie "Le vie della libertà". Con D. Rousset e G. Rosenthal, Sartre pubblica "Discussione sulla politica".

Nel 1951 Sartre pubblica anche "Il Diavolo e il buon Dio" e il saggio "Gide vivente".

Nel 1952 si consuma la rottura fra Camus e Sartre. Camus assume posizioni contro la violenza mentre Sartre considera la violenza necessaria per il comunismo. Nel fare le sue affermazioni Sartre proclama che, di fatto, l'esistenzialismo è fallito. Da quel momento in poi Sartre inizia a seguire tutte le vicende politiche che vedono lo scontro fra "capitalismo" e "comunismo". Per Sartre il "comunismo" è una verità immaginaria che incarna l'ideale di potere delle società borghesi che viene trasferito sui "miserabili". Su "Tempi moderni" Sartre pubblica il saggio "I comunisti e la pace" quasi una sorta di contrapposizione fra il "comunismo" che vuole la pace e il "capitalismo" che vuole la guerra come se l'esistenza del capitalismo e del colonialismo non fossero in sé un atto di guerra ai popoli. Nello stesso anno, a novembre, Sartre partecipa al Congresso mondiale della Pace a Vienna.

Nel 1953 ci fu la questione Henry Martin. Henry Martin era un attivista comunista che distribuiva volantini contro il colonalismo francese e, in particolare contro l'occupazione dell'Indocina. Arrestato a Tolosa fu accusato di sabotaggio, ma l'accusa era falsa. La Francia si mobilitò in suo favore. Nel processo fu assolto per il sabotaggio, ma condannato per propaganda. Sartre partecipò alla campagna per la liberazione di Henry Martin. Il 7 maggio 1954 ci sarà la battaglia di Dien Bien Phu in cui Giap sconfisse i Francesi. Fu in seguito alla sconfitta francese che gli USA decisero di sostituire la Francia nell'occupazione dell'Indocina.

Nel 1954 Sartre visita l'URSS assieme a Simone de Beauvoir e pubblica la terza parte de "I comunisti e la pace".

Nel 1955 Sartre fa un viaggio in Cina e scriverà una prefazione ad un libro di fotografie sulla Cina.

Nel 1957 Sarte dedica l'intero numero di "Les Ternps Modernes" alla rivolta ungherese. Sartre evoca il "fantasma" di Stalin e accusa la politica Sovietica. Sartre pubblica il saggio "Questioni di metodo".

Nel 1960 Sartre pubblica "Critica della ragione dialettica" nella quale Sartre oppone alla dialettica marxista il proprio esistenzialismo come se il fallimento del progetto "comunista" in URSS non stia fallendo proprio perché i "marxisti" non sanno che farsene del marxismo e preferiscono un'ideologia esistenzialista.

Nel 1961 Sartre soggiorna a Cuba, ospite di Fidel Castro. Sartre è autore del manifesto dei "121" che proclama il diritto dei francesi di rifiutarsi a partecipare alla guerra d'occupazione dell'Algeria. Aderisce all'organizzazione dei sostenitori del Fronte Nazionale di Liberazione Algerino.

Nel 1963 esce "Le parole" un libro di ricordi infantili che ci permette di conoscere alcuni vissuti nei quali Sartre ha adattato le proprie emozioni producendo la sua filosofia esistenzialista. Interessante, in particolare, il rapporto con la madre e le sue vicissitudini in presenza di un "nonno" egocentrico.

Nel 1964 viene assegnato a Sartre il premio Nobel per la letteratura. Tenterà di rifiutarlo in vari modi. Sempre in quell'anno terrà un ciclo di conferenze in Brasile e pubblicherà il suo primo dramma, scritto quand'era prigioniero dei tedeschi.

Nei primi anni '60 Sartre subì due attentati da parte dell'organizzazione segreta paramilitare (OAS). Da quegli attentati si salvò con un po' di fortuna.

Nel 1965 Sartre rifiuta inviti da università USA per partecipare ad un ciclo di conferenze per protestare contro l'invasione USA dell'Indocina. Viene pubblicato "Che cosa può la letteratura" e Sartre scrive un adattamento di un lavoro di Euripide "Le troiane".

Nel 1965 adotta come figlia Arlette Alkaim una donna algerina con cui aveva una relazione.

Nel 1966 Sartre pubblica "La coscienza di classe in Flaubert" e "Dal poeta all'artista".

Nel 1966-1967 Sartre è fra gli organizzatori e giudice del "Tribunale B. Russell" che vuole processare i delitti degli USA in Vietnam. Sempre in quegli anni fa un giro di conferenze in Egitto e in Israele.

Scrive Sartre in Essere e il nulla:

Fintanto che l'uomo è immerso nella situazione storica, gli capita di non cogliere i difetti e le mancanze di una organizzazione politica o economica determinata, non come si dice scioccamente perché egli «ne ha l'abitudine», ma perché egli la coglie nella sua interezza d'essere e non può al tempo stesso immaginare che possa essere diversamente. Qui bisogna, infatti, capovolgere 1'opinione generale e riconoscere che non è la durezza della situazione o le sofferenze che essa impone a dar luogo alla concezione di un altro stato di cose nel quale tutto il mondo migliorerebbe; invece è appunto dal giorno in cui si può concepire un altro stato di cose che una luce nuova cade sulle nostre pene e sulle nostre sofferenze, e allora noi decidiamo che esse sono intollerabili. L'operaio del 1830 è capace di ribellarsi se si abbassano i salari, perché egli immagina facilmente una situazione in cui il suo miserabile livello di vita sarebbe meno basso a confronto di quello che gli si vorrebbe imporre. Egli tuttavia non si rappresenta le sue sofferenze come intollerabili, si adatta, non per rassegnazione, ma per il fatto che egli manca di quella cultura e di quella riflessione necessarie per fargli concepire uno stato sociale in cui le sue sofferenze non esisterebbero. Perciò egli non agisce. Diventati padroni di Lione, in seguito a una sommossa, gli operai della Croce rossa non sanno che farsene della vittoria ottenuta, tornano a casa, disorientati, e 1'esercito regolare non fa fatica a sorprenderli. I loro guai non sembrano loro «abituali», ma piuttosto naturali; essi sono, ecco, essi costituiscono la condizione dell'operaio; non sono separati, non sono visti in piena luce e, di conseguenza, sono integrati dall' operaio al suo essere; egli soffre senza considerare la propria sofferenza e senza darle valore: soffrire ed essere non sono che un tutto per lui; la sua sofferenza è il puro contenuto affettivo della sua coscienza non-posizionale, tuttavia egli non la contempla.

Sartre, L'essere e il nulla, Il Saggiatore, 2013, p. 501

Noi cresciamo all'interno del "nostro modo di vivere", lo conosciamo e all'interno di quella condizione abbiamo messo in atto i nostri adattamenti. Un ricco che fallisce non accetta di diventare un accattone, preferisce suicidarsi. L'accattone conosce ogni piega della sua esistenza. Si è adattato ad essa. Per lui un cartone sostituisce un materasso. Preferirebbe un materasso, ma è capace di adattarsi al cartone. La stessa cosa è per l'operaio che ad un certo punto della sua vita se non va in fabbrica non sa più come impegnare il suo tempo se non lavorando. Quel lavoro è tutta la sua esistenza e quel lavoro è capace di determinare il piacere per il suo tempo libero. L'operaio è una "prostituta" che vende il proprio corpo per un certo numero di ore al giorno. Il capitalista è il puttaniere che incapace di soddisfare le proprie esigenze è costretto a comperare altri corpi per soddisfarsi. L'operaio è costretto ad essere così e nell'essere così, si adatta.

Sartre quando scrisse l'Essere e il nulla partì dalla "predestinazione" dei ruoli sociali, ora che aderisce alla forma di "comunismo-cristiano" pensa che i miserabili (legge Fanon "I dannati della terra") possono conquistare il potere, come a Cuba o combattere la superpotenza USA come in Vietnam.

Ora siamo nel 1968 e i fermenti marxisti attraversano l'Europa. Sartre intravvede la possibilità di controllarli mediante l'esistenzialismo che è una struttura di pensiero estranea a quegli stessi movimenti. Ma i movimenti non lo sanno. I movimenti non sono fatti da specialisti di filosofia, sono fatti da corpi desideranti e Sartre intende determinare la direzione in cui quei corpi desideranti potranno muoversi.

Loro, pensa Sartre, non sanno che farsene del loro movimentismo. Hanno bisogno di qualcuno che veda dal di fuori e che costruisca un progetto, un progetto di modificazione del loro presente. Sartre, come quasi tutti in quel momento, non coglie che il movimento del 1968 è un movimento cieco. Non conosce la sua direzione. Per questo motivo chi partecipa a quel movimento giustifica la sua partecipazione con desideri spesso circoscrivibili nell'ambito della fantasia. La liberazione dell'uomo dall'asservimento cristiano non risponde ad un progetto razionalmente determinato. Si esprime nella necessità di soddisfare bisogni esistenziali che si manifestano come spinta d'azione. Una spinta pulsionale che la ragione non è in grado di definire e per questo, per giustificare gli effetti prodotti dalla spinta funzionale, ricorre a categorie immaginarie. "Voglio fare la rivoluzione!" dice la ragione; e, invece voleva solo rimuovere il controllo ossessivo di una famiglia bigotta.

Scrive Nicola Abagnano in Storia della Filosofia a proposito della scelta marxista di Sartre:

E difatti affinché l'esistenzialismo sartriano divenisse capace di svolgersi in una teoria dell'azione e della storia, occorreva una revisione radicale delle sue impostazioni fondamentali. Le tesi di tale esistenzialismo, quali risultano da L'essere e il nulla, possono essere ricapitolate così: 1) La filosofia è psicanalisi esistenziale nel senso d'essere l'analisi del progetto fondamentale in cui l'esistenza consiste. 2) Il progetto fondamentale è frutto di una scelta assolutamente libera cioè non vincolato o limitata da alcuna condizione ideale o fattuale. Questa libertà è il destino dell'uomo. 3) Il progetto fondamentale è un progetto totalitario: decide non solo dell'essere di chi lo sceglie ma anche dell'essere degli altri e della totalità del mondo: perciò addossa, a chi lo sceglie, la responsabilità di tutto ciò che è o accade nel mondo. 4) Il progetto fondamentale può essere ad ogni momento mutato o distrutto: e per il suo carattere totalitario è inevitabilmente destinato allo scacco, perché l'uomo non è Dio, cioè non dispone di un'infinita potenza per realizzarlo. 5) Tutti i progetti fondamentali sono equivalenti perché non c'è alcuna condizione di fatto o di valore che possa comunque orientare la scelta di essi o servire a giudicarla. - Una filosofia che consista di questi capisaldi è, ovviamente, una filosofia contemplativa: essa non dà all'uomo nulla da fare ma solo lo rende consapevole (come fa ogni tipo di psicanalisi) delle proprie strutture costitutive. Ma che l'uomo sia consapevole o no di tali strutture non è cosa che influisca sul destino dell'uomo, che rimane la libertà assoluta della scelta cioè l'equivalenza fondamentale dei progetti di mondo in cui la scelta si concreta. Nella Critica della ragione dialettica (1960) Sartre intraprende una revisione di queste tesi per renderle adatte alle esigenze di una teoria dell'azione. In primo luogo viene completamente mutata la nozione di progetto. In Essere e nulla il progetto non ha, come si è detto, alcuna condizione: non parte da dati ma li produce perché è la manifestazione di una libertà incondizionata. Nella Critica della ragione dialettica il progetto è l'oltrepassamento di una situazione data, che definisce i limiti o le condizioni di possibilità del progetto stesso. Sartre dice: «Dire di un uomo ciò che egli è significa dire ciò che egli può e reciprocamente: le condizioni materiali della sua esistenza circoscrivono il campo delle sue possibilità ... Così il campo dei possibili è lo scopo verso il quale l'agente oltrepassa la sua situazione obiettiva. E questo campo, a sua volta, dipende strettamente dalla realtà sociale e storica» (Critique de la raison dialectique, p. 64). In questo senso il progetto è «l'unità dialettica del soggettivo e dell'oggettivo»: esso «come oltrepassamento soggettivo dell'oggettività verso l'oggettività, teso tra le condizioni oggettive dell' ambiente e le strutture oggettive del campo dei possibili, rappresenta in se stesso l'unità mobile della soggettività e dell'oggettività, queste determinazioni cardinali dell'attività» (Ih., p. 64). Con questa nozione di progetto, espressa in termini di condizionamento, l'assoluta libertà del progetto fondamentale di cui Sartre parlava in Essere e nulla è stata liquidata senza benservito. Si rendono allora possibili altre determinazioni del progetto e cioè: 1) il progetto ha un dato che costituito dalle condizioni materiali della nostra esistenza e della nostra stessa infanzia ilb., p. 68). 2) Il progetto deve necessariamente attraversare «il campo delle possibilità strumentali» perché i caratteri particolari degli strumenti condizionano l'oggettivazione cioè sia la situazione da cui esso parte sia quella cui esso tende (Ih., p. 74). 3) Il progetto definisce l'essere dell'uomo come scelta o libertà; ma esso è scelta o libertà solo in quanto l'opera, l'atto o l'atteggiamento in cui esso consiste non si riducono ai fattori che li condizionano e non possono essere ridotti a tali fattori con una spiegazione puramente meccanica (Critique, p. 95). Concepito con questi caratteri, il progetto ha una parentela assai lontana con ciò che Sartre intendeva, con lo stesso nome, in Essere e nulla, ma ha una parentela assai più stretta con l'antropologia di Marx quale si trova esposta soprattutto nelle opere giovanili (§ 607). Tuttavia a differenza di quest'antropologia, il progetto di Sartre rimane ancora (come era in Essere e nulla) una faccenda privata del singolo uomo: si esaurisce nel movimento soggettività-oggettività che costituisce l'esistenza singola. Esso concerne bensì gli altri e il mondo, cioè ricomprende gli altri e il mondo nel proprio ambito, ma come progetto non è che la scelta del singolo e ne costituisce l'esistenza. Per correggere questo solipsismo del progetto, Sartre ricorre alla nozione di ragione dialettica.

Nicola Abagnano, Storia della filosofia, volume sesto, Tea, 1995, p. 511 – 512

Una volta unificato l'idealismo esistenzialista con gli scritti giovanili di Marx, Sartre si sente abbastanza forte per prendere il controllo e guidare i gruppi extraparlamentari francesi.

L'operazione fatta in Francia da Sartre sarà fatta anche in Italia da diversi personaggi da Severino a Galimberti, da Toni Negri a Cacciari, Da Acquaviva e altri. Ogni volta che tentavano di mettere le mani sui movimenti, i movimenti si scioglievano. Alla fine non rimase nessuno a chiedere giustizia o a sollecitare un'apertura verso il futuro.

Sartre si affianca ai gruppi extraparlamentari contando sulla loro fragilità nella conoscenza filosofica e sociale. Tenta di averne il controllo offrendosi come direttore di riviste del movimento, ma la sua presenza annulla l'idea del sistema che agisce sull'uomo per adattarlo al sistema per promuovere l'idea secondo cui l'uomo si deve adattare al sistema che, in questo modo, diventa il padrone dell'uomo.

Dopo Sartre arriveranno altri a dire ai sessantottini che cosa devono dire e che cosa devono fare. Arriveranno i figli dei fiori e i venditori di droga importata appositamente per condurre la protesta entro i confini di un ribellismo personale che non incida nella società.

Il movimento del '68 modificherà gli uomini per sempre conquistando una libertà che prima di allora era inimmaginabile e dando il via ad un processo d trasformazione sociale che non potrà mai più essere fermato. Sparirà l'idea marxista di comunismo "il comunismo è il mutamento del presente verso forme più vaste di libertà del presente stesso" e sarà sostituita con l'idea cristiana di comunismo "la città dominata da Dio". Una città che cerca disperatamente il "dominatore buono" e che faccia dire ai dominati "Ecco, Gesù è venuto con grande potenza dalle nubi mentre le stelle cadevano sulla terra!". Non si è mai capito bene se era la faccia di Gesù a fare propaganda a Che Guevara o se era Che Guevara che propagandava Gesù.

E l'esistenzialismo? Appare per ciò che è: ideologia nazista. Un'ideologia che serve per giustificare un assolutismo dopo la distruzione dell'assolutismo formale di Hitler.

Nel 1968, durante il maggio francese, Sartre partecipa alle lotte studentesche e si affianca ad alcuni gruppi della sinistra extraparlamentare. Criticherà duramente il Partito Comunista Francese e attaccherà l'URSS. Tuonerà contro l'invasione Sovietica della Cecoslovacchia e farà da direttore responsabile di alcuni periodici filocinesi.

Nel 1971 Sartre pubblica "L'idiota di famiglia" un saggio di tremila pagine dedicato a Flaubert.

Nel 1974 Sartre va a trovare Andreas Baader, il leader dell'Armata Rossa detenuto nella prigione di Stammheim durante uno sciopero della fame.

Il 15 aprile 1980 Sartre muore per una malattia ai polmoni.

 

Marghera, 19 giugno 2019

 

 

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Claudio Simeoni

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Guardiano dell'Anticristo

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